La mia vita sul
set – Cap. 13.
-
Ti
spiego dopo – dissi. – Dove ci vediamo? Dove sei?
-
Io?
Sul set. Ma Les, che sta succedendo?
-
Ho
detto che ti spiego dopo. Ci vediamo tra mezz’ora. Al bar.
Faccio prima che
posso.
-
Lesley…
Chiusi la
telefonata senza ascoltare quello che aveva da dire, cacciai il
telefono nella
borsa e estrassi cinquanta dollari dal portafoglio, e aggiunsi altri
dieci
dollari per sicurezza. Poi, senza guardare tutte le copertine che mi
circondavano, mi diressi al bancone e sbattei i soldi sul legno.
-
Mi
dia una scatola e tutti questi giornali. – il commesso, un
po’ anzianotto, mi
guardò stupefatto.
-
Ma…
ma signorina – cercò di ribattere. –
Questa è la fornitura di tutto il venerdì.
Fino a lunedì non mi arriva più niente.
-
Ah,
sul serio? – dissi, sfrontata. Estrassi il portafoglio dalla
borsa e presi
-
Ma…
un momento – disse perplesso dopo un paio di minuti guardando
la
-
Sì,
esatto, sono io – buttai l’ultima pila di giornali
nella scatola.
-
Oh,
miseriaccia! – saltò su e cominciò a
fare saltelli frenetico. – Ho sempre
-
Ehm…
certo. – dissi, cercando una penna nella borsa. Lui intanto
era corso
-
Come
si chiama?
-
Geoffrey!
- Sorrisi per la prima volta da quando ero
“Al gentile Geoffrey, grazie per
avermi dato
una mano. Lesley Dalton J”.
Scarabocchiai il mio nome e
gli porsi il foglio. Geoffrey lo prese
fremente, lo lesse e per un attimo temetti che gli fosse venuto un
infarto.
-
Sa,
queste foto non le rendono giustizia – disse chiudendo la
scatola.
-
Grazie
– dissi, e feci per prendermi la scatola.
-
Ferma!
– esclamò tutto ad un tratto. – Non
tocchi quella scatola!
-
Geoffrey,
io l’ho già pagata!
-
Ma
no! Anzi, mi faccia un favore, si riprenda questi soldi. Gliela porto
io la
scatola alla macchina!
E mentre
faceva forza con le braccia e diventava rosso per lo sforzo per
sollevare la
scatola io pensai “Quale macchina?”, ma non ebbi il
coraggio di dirlo ad alta
voce, perché quel tizio era capace di offrirmi un passaggio
fino al set perfino
se avesse avuto come mezzo di trasporto un mulo. Uscì
barcollante dall’edicola,
e si fermò.
- Ma dov’è la
sua auto?
- Beh, io ho
il motorino. È a poca distanza da qui.
- Oh, non c’è
problema! Andiamo!
Quel tizio era
proprio strano. Fui costretta a dargli indicazioni fino al parcheggio
dell’albergo. All’entrata, si fermò a si
appoggiò contro il muro per riprendere
fiato. Dopotutto, era un ometto di sessant’anni e passa.
- Grazie
mille, Geoffrey, mi è stato di grande aiuto. Mi lasci pure
la scatola, me la
cavo.
Lo costrinsi a
mollarmi la scatola e la poggiai tra il sedile e il manubrio. Mi misi
il casco
e vi sbirciai dentro, dove in cima alla pila di riviste ce
n’era una con la
foto di me e Orlando che ci baciavamo dalla macchina, prima di salire
per
tornare in albergo. Quella vista bastò a farmi tornare la
rabbia. Saltai in
sella, accesi il motore e partii, dopo aver fatto un lieve cenno di
saluto a
Geoffrey. Svoltai l’angolo, dicendo addio al mio pomeriggio
in solitudine a
Matamata, e ricordandomi che avevo lasciato i cento dollari sul bancone.
Capii di
essere arrivata a destinazione quando sentii la voce di Orlando
imprecare
qualcosa e correre ad aiutarmi.
-
Ma
che diavolo è tutta questa roba?
-
Lascia
fare a me e siediti.
Rovesciai il
contenuto sul tavolo: decine e decine di giornali di tutte le marche e
dimensioni si rovesciarono sulla plastica bianca, e in tutti, tutti c’ero io. Una cosa molto
snervante.
Non mi ero
accorta che dietro Orlando c’erano anche tutti gli Hobbit
tranne Sean – doveva
essere con la moglie e la figlia. Dom fece una specie di strilletto e
cominciò
a sventolarsi con una mano, mentre Elijah faceva
“Uuuuuuuh!” e Billy rideva. La
cosa non mi andava a genio. Dal canto suo, Orlando si era alzato e si
era
avvicinato ai giornali, prendendone alcuni in mano.
-
Cos’è
questa roba? – fece.
-
Dimmelo
tu – risposi io.
-
Lesley
è stata paparazzata! – esclamò Dom.
– Non hai detenuto il record per
-
Gira
al largo, Monaghan. È una faccenda tra me e Bloom.
-
Ahia,
Les sta usando i cognomi… - commento Elijah girando sui
tacchi e
-
Les
è moooooooooooooolto arrabbiata… - anche Billy se
la filò. Dom
-
OB
– sospirò sconsolato – buona fortuna.
– e pure lui se ne andò.
Io e Orlando
restammo in silenzio per qualche istante: lui prendeva giornali a caso
e
guardava la copertina, io non avevo il coraggio di guardarli di nuovo.
Appena
si ritenne soddisfatto, si appoggiò al tavolo, si
grattò il mento, incrociò le
braccia e, con un lieve sospiro, disse:
-
Les,
non è così grave.
-
Non
è così grave?
– ripetei, indignata. –
Ti rendi conto di cosa vuol dire?
-
Sì,
ma…
-
Ogni
schifosissima edicola di tutto il mondo a questo punto starà
- Tu… hai
speso cento dollari… per svuotare un’edicola piena
di giornali con una tua
foto? – disse Orlando, e scoppiò a ridermi in
faccia. Rideva a crepapelle. Non
ci vidi più: gli tirai un gancio destro neanche niente male,
dritto sul naso.
Il
contraccolpo lo fece schizzare all’indietro e poi ripiegare
in avanti. Si mise
le mani intorno al naso e strizzò gli occhi.
-
Lesley,
porca miseria! Che diavolo ti prende! – disse dolorante.
– È normale venire
paparazzati, razza di stupida ragazza! Perché cavolo mi hai
colpito?
-
Non
ci arrivi da solo? Mi hai riso in faccia!
– sbottai. – E non è normale
-
Ah,
solo adesso capisci che non è bello leggere i pettegolezzi
degli altri? – si
passò una mano sotto il naso, dal quale scorreva un
rivoletto di sangue. –
Si era davvero
arrabbiato, ma non mi importava. Lo ero di più io. Presi a
caso due giornali
dal tavolo e glieli sventolai davanti.
-
Guarda
qui! Guarda! Ecco la prima pagina di “Telenovela”: Orlando Bloom,
-
Ma
che cosa caspita c’è di male! Lesley, sei una
stupida. Non ti può
-
Sciocchezza?
Sciocchezza?? Ecco, ecco che
cos’era
l’ombra che avevo visto
dietro
all’albero! Era uno di loro! – ero quasi arrivata
ad urlare. Chiusi le mani a
pugno e la faccia mi diventò rossa. – E tu lo
sapevi, lo sapevi, ma non hai
voluto dirmelo!
-
Ma
che stai dicendo? Secondo te non te l’avrei detto per farti
dispetto?
-
Sai
che ti dico? È colpa tua!
Sgranò gli
occhi. – Cosa?
-
Già,
è colpa tua! Perché io neanche volevo uscire!
-
Dimmi
una cosa. Cos’è che ti brucia di più,
il fatto di essere stata
paparazzata, o
che non detieni più il record degli Hobbit? O forse che non
ti vada giù che la
gente faccia quello che tu hai fatto per un sacco di tempo: violare la
privacy
degli altri? Ma devi imparare a fregartene, Lesley! Fregatene! Tutti
gli attori
veri vengono paparazzati. Vuoi sentirti un’attrice vera?
Verrai paparazzata!
Facci l’abitudine.
Digrignai i
denti e guardai per terra. Il cuore batteva forte. – Sai
cosa? – lo guardai. –
Hai ragione. Non mi sono mai resa conto di quanto sia fastidioso. Ma
ecco. –
ammucchiai un po’ di giornali e glieli misi in mano.
– Visto che tu te ne
freghi, fregatene anche di me.
-
Lesley,
stai esagerando.
-
Può
darsi. Ma a te non te ne frega, giusto?
Senza dire
nient’altro, voltai i tacchi e me ne andai per i fatti miei,
incavolata con
Orlando, con i paparazzi e con tutto il mondo in generale.
Raggiunsi un
posto isolato quasi di corsa e cercai di sbollire la rabbia, camminando
in
cerchio fino a farmi girare la testa. A quel punto mi fermai e decisi
che era
stupido continuare a rimuginarci sopra: meglio farsi una passeggiata.
Il tempo di
formulare un pensiero del genere, e il mio cellulare iniziò
a squillare. Lo
tirai fuori di malo modo dalla borsa – che, poveretta, era
rimasta spiaccicata
dal peso della scatola -, decisa a mandare al diavolo chiunque fosse, ma
poi
lessi il nome sullo schermo, e decisi che non sarebbe stata una buona
idea.
Sospirando, spinsi il tasto verde.
-
Ciao,
mamma.
-
Oh,
Les, tesoro, ma che combini? Ci sono le tue foto sui giornali!
-
Lo
so, mamma, è stata solo una piccola disattenzione e non
ricapiterà mai
-
Tesoro,
stai scherzando? È fantastico! Finalmente sei famosa!
-
Mamma,
io non sono famosa!
-
Oh,
per amor del cielo, non fare la sciocchina! Secondo te ti ho chiamato a
quest’ora di
notte per un nonnulla? Se tu non fossi famosa, non ti avrei chiamato!
-
Grazie
mamma! – dissi sarcastica – Sono felice di venire a
conoscenza la
quantità di
amore che provi nei miei confronti!
-
Oh
mio dio! OH MIO DIO!! Lesley, stanno parlando di te a “Fatti
tuoi!”! Mia
figlia è in
televisione!!! – e scoppiò in un pianto di gioia
irrefrenabile e la sentii
chiamare a gran voce mio padre. Spensi la comunicazione: tanto se
avessi detto
qualsiasi altra cosa non mi avrebbe sentito. Sperai solo che non
cominciasse a
fare il giro di telefonate ai parenti.
Sbuffai e
pestai un piede per terra in modo infantile. Quando mi arrabbiavo non
c’era
proprio niente da fare: tutti i programmi mi si cancellavano
automaticamente
dalla testa. Mi passai una mano fra i capelli.
Dovevo parlare
con qualcuno.
Zio Ian – o
meglio, Bilbo Baggins – girava a telecamere spente, provando
e riprovando la
stessa scena. Ma, ogni volta che ricominciava da capo, la faceva in
modo
diverso. Questo era lo stile inconfondibile di Ian Holm: riproporre ad
ogni
scena lo stesso personaggio ma in maniera diversa. Era imprevedibile
come
pochi.
- Zio Ian, non
potremmo parlare un secondo? – lo seguivo come una svitata
per tutta la cucina
di casa Baggins, con le mani affondate nelle tasche della mia felpa
blu, ma lui
non sembrava darmi ascolto. Si diresse verso l’ingresso della
casetta, fece
finta di mettersi qualcosa in bocca e disse con falsa voce da bocca
piena:
- Non ti
dispiace se mangio?
- Zio Ian?
Potremmo fare quattro chiacchiere?
- Mia piccola
dolce Lesley, sono molto occupato: non potremmo rimandare a, che ne
dici,
domani o dopodomani? È qualcosa di importante?
Rimasi in
silenzio per qualche secondo, pensando a come rispondere.
-
No,
non è importante – dissi alla fine. –
Grazie lo stesso.
Sospirai e,
uscendo dalla casetta, guardai l’orologio. Le otto meno un
quarto.
Tanto valeva
tornarsene in albergo e ripassare un po’ di elfico. Gran
bella giornata del
cavolo. E dire che era partita bene.
Scacciai
questi pensieri spiacevoli scuotendo la testa. Non era proprio il
momento per
pensarci. E poi, anche se aveva la fedina penale sporca, Peter
l’aveva assunto,
il che vuol dire che non era propriamente una minaccia.
pigiama,
seduta a gambe incrociate sul letto, rilessi ancora una volta alla
svelta le
parole in elfico e le ripetei, sforzandomi di moderare la voce su un
tono da
elfo saggio. Il risultato non fu dei migliori, ma lasciai perdere.
Stropicciai
il foglio e lo lanciai sul comodino, buttandomi poi sul cuscino. Rimasi
un po’
a fissare il soffitto, pensando: dovevo chiedere scusa a Orlando per il
pugno?
Eppure era colpa sua se ci avevano paparazzati fuori dal ristorante, di
questo
ne ero fermamente convinta. Inoltre, ero troppo orgogliosa per chiedere
scusa
per prima.
-
Al
diavolo – mi girai su un fianco e spensi la luce del comodino.
Mi drizzai a
sedere, coperta di sudore e il cuore che pulsava in gola. Mi mancava
l’aria. Mi
alzai e corsi in bagno a sciacquarmi la faccia. Con il volto bagnato,
mi
guardai allo specchio. I due numeri, 11 e 9, continuavano a comparirmi
davanti.
Riempii un
bicchierino d’acqua e lo mandai giù, cercando di
calmare il batticuore. Scossi
la testa. Era solo un sogno.
Me ne tornai a
letto.
Cambiare il
PIN di Orlando non era stata una buona idea.
Ma il fatto è
che me l’aveva suggerito Dominic. “Vedrai, Les,
impazzirà!” mi aveva detto.
È impazzito,
ma nella maniera sbagliata. E subito dopo Dominic non è
riuscito a trovare un
cespuglio abbastanza folto per nascondersi: l’ho trovato nel
bagno degli
uomini, armata di padella antiaderente. E la cosa più
snervante non è che
piangesse per la botta presa in testa, ma se la rideva come un matto,
tant’è
che credetti di avergli spostato qualche rotella.
- Poverino,
già ha qualche rotella fuori posto, se poi lo colpisci con
una padella… a
proposito, dove l’hai pescata quella? – Mi chiese
Emma mentre truccava una
bambina Hobbit, seduta su uno sgabello in mezzo al prato, dopo che le
avevo
raccontato l’intera faccenda.
- Emmie, non
potremmo parlarne un attimino-ino-ino? – supplicai.
- Non
chiamarmi Emmie, Les, mi ricorda il formaggio. E questa bella bambina
– le
prese le guance tra le dita e gliele sbatacchiò di qua e di
là, mentre lei
rideva – è stata proprio brava! Bravissima!
La bambina
corse via e al suo posto arrivò un bellissimo bambino biondo
chiaro. Emma,
sospirando, si risedette e ricominciò il lavoro da capo.
-
Em?
Possiamo parlarne? – ripetei la domanda.
-
Les,
mi piacerebbe, davvero, ma sono molto impegnata. Devo ancora
ritoccare una
mandria di bambini.
-
Non
credo che “mandria” sia il termine esatto per
definire un gruppo di bambini.
Non sono mica animali. – commentai.
-
Sarà,
ma mi fanno paura i loro piedi. – confessò Emma
impassibile.
Sgranai gli
occhi. Sbuffai. – Ok, faremo un’altra volta
– dissi rassegnata.
Mi voltai per
andarmene e mi ritrovai di fronte a Orlando, proprio come succede nei
film dell’orrore,
quando il mostro ti appare dietro e ti uccide. Sembrava estremamente
arrabbiato. Mi fissò duro, paonazzo, e poi esplose come un
palloncino.
-
Lesley,
sei un’idiota! – urlò.
-
Anche
tu! – risposi. Ma internamente pensavo: “Che ho
fatto adesso?”
Voltò
sfacciatamente la testa dall’altra parte e girò i
tacchi. Dio, com’era
infantile. Ciò contribuì enormemente a far
resuscitare la mia ira morta e
sepolta durante la notte.
Me ne andai a
grandi falcate, scendendo la collina, e dirigendomi verso la
macchinetta delle
bevande.
Avevo bisogno
di un altro caffè.
Ed erano solo
le 8.30 del mattino.
Era strano.
Era sempre tutti lì, a ficcare il naso nei tuoi affari, e
quando ti servivano,
PUFF!, sparivano. Li avevo provati tutti: Zio Ian – troppo
impegnato -, gli
Hobbit – troppo impegnati -, Emma – troppo
impegnata -, Linnie – svanita nel
nulla assieme all’Armadio -, Peter – troppo
impegnato -, qualche comparsa a
caso – troppo discreti per ficcare il naso nei tuoi affari,
benedetti
neozelandesi -…
Mi stavo
sicuramente dimenticando qualcuno, ma mi sfuggiva chi. Bevvi un sorso
di caffè
e chiusi gli occhi, ripensando a Orlando. Che razza di idiota. Che gli
avevo
fatto stavolta?
-
Sai,
mi sembri già abbastanza nervosa anche senza quel
caffè. – disse una
voce saggia
che conoscevo.
Aprii gli
occhi e mi tirai su a sedere. – Viggo!
-
Ciao
Les! A quanto pare tira aria poco buona tra te e Orlando! –
disse
-
Già,
a quanto pare… uffa, il fatto è che io non sono
una che si arrabbia
facilmente, ma
a volte esco proprio pazza.
-
Benedetta
ragazza, capita a tutti! Ma questo lo prendo io, – prese
lentamente il
mio bicchiere di caffè e se lo scolò tutto
– per evitare altre pazzie da parte
tua.
Si buttò la
spada in spalla con la stessa disinvoltura di un contadino che prende
la zappa,
e mi guardò dritta negli occhi, senza mostrare la minima
espressione. Oh-oh.
Era entrato in fase “Botta e riposta”.
-
Quanti
anni hai? – buttò lì, con nonchalance.
-
18!
– risposi.
-
Sai
guidare la macchina?
-
No.
-
Hai
tutto quello che ti serve qui?
-
Direi.
-
Come
ti senti? – sorrise malvagio.
-
Molto
stressata e nervosa.
-
Perfetto.
– mi fissò con quei suoi occhi azzurrissimi e
inquietanti, da pazzo.
Qualche lucina
era cambiata nei suoi occhi, come se fosse scattato qualcosa, Clik! Un cambiamento drastico. Mi
metteva quasi paura. – Vieni! – esplose alla fine,
ridendo come un pazzo. Mi
prese una mano e si mise a correre giù per la collina,
trascinandomi dietro di
sé! Ero troppo colta di sorpresa per protestare, ma non si
sarebbe fermato
comunque. Mi costrinse a correre anche dopo aver superato la collina,
dopo aver
saltato oltre il sentiero e dopo aver superato una seconda collina.
Solo in
prossimità di un boschetto lì vicino mi permise
di fermarmi. Col fiatone, mi
voltai indietro per vedere il punto, abbastanza lontano, dove eravamo
partiti.
Mi appoggiai sulle ginocchia per respirare meglio. Viggo era un
omaccione,
certo, ma anche lui era un essere umano, anche lui aveva un cuore.
Aveva anche
lui il fiatone, una scena che in qualche modo mi fece sorridere.
-
Adesso
come ti senti? – chiese.
Ci pensai su
un attimo. – Meglio.
-
Sei
più rilassata?
-
No.
-
Fantastico.
Mi costrinse a
sedermi a gambe incrociate e mi piegò la schiena in avanti,
facendo pressione
con un ginocchio e premendo forte. Un male cane.
-
Viggo,
mi fai male così! – protestai.
-
Non
badare al dolore! – mi esortò. – Respira
profondamente.
-
Questa
è una tortura!
-
Lalalalalalalala!
Respira!
Non potei far
altro che eseguire l’ordine, e cominciai a inspirare e
espirare lentamente,
proprio come uno yogin. E Viggo faceva lo stesso. Appena ritenne che
poteva
bastare, mi lasciò andare. La mia schiena
schioccò in maniera inquietante
quando mi tirai su.
-
E
tutto questo per dimostrare…?
-
Adesso
come ti senti? Sei più tranquilla?
Mi pizzicai la
base del naso. – Beh, sì. Adesso sì.
-
Vedi?
– sorrise. –
Lo Yoga funziona.
-
Già!
– sorrisi.
-
Saresti
in grado, adesso, di parlare con Orlando in maniera civile in maniera
adulta?
-
Beh…
sì, se solo lui non si comportasse come un neonato.
Alzò le
braccia al cielo, stiracchiando le giunture in maniera niente affatto
elegante.
– Mmm, sì, ti capisco. Anch’io facevo
così all’inizio. Ma dimmi un po’: chi
dei
due fra voi era più arrabbiato?
-
Io,
sicuramente.
-
Quindi
tu l’hai aggredito. – Non era una domanda.
-
Sì.
-
Quindi
lui non ti ha fatto niente di male, giusto?
-
Sì.
– ammisi.
-
Quindi dovresti essere
tu a chiedergli scusa,
giuuuuuuusto?
-
Beh,
sì, ma…
- Oh, Dalton,
ficcati quella coda che hai tra le gambe e vai a chiedergli scusa! -
sbottò.
Dopodiché raccolse la spada, girò i tacchi e se
ne andò. Non avrebbe potuto
essere più convincente. Presi il telefono e scrissi un
promemoria.
“Per le 19.30. Andare da Orlando e
chiedere
scusa.”
Me ne andai,
finalmente tranquilla, a prendere… no, non un
caffè. The. Alla pesca.
Avevo promesso
a me stessa che avrei dormito solo dieci minuti. Avevo dormito tre ore
e mezza.
Chi me lo diceva che Orlando non se n’era già
andato a dormire?
Il telefono,
posato accanto al cuscino, mi segnalò l’arrivo di
un messaggio: sperando che
fosse Orlando, mi buttai a pesce per prenderlo il più presto
possibile. Sbloccai
frenetica la tastiera, ma rimasi delusa. Non era Orlando: era Billy.
“Les! Posso
passare da te fra trenta secondi? 29… 28…
27…” Il messaggio terminava così.
Tipico
stile di Billy. Ancora venti secondi e qualcuno bussò alla
porta.
-
Sì,
Billy, arrivo! Erano proprio 30 secondi, eh?
Aprii la
porta, e rimasi spiazzata.
Non era Billy.
Era Orlando.
Con in mano un
mazzo di girasoli. Me li porse con un sorriso. Non sapevo se prenderli
o meno. Poi
alzai gli occhi al cielo, sorrisi e lo presi in mano, sfiorando la sua.
-
Grazie.
– sussurrai. Puntò l’indice verso
l’alto e disse, con un sorriso:
-
Eeeee…
non ti ho portato solo questo.
Sparì per un
attimo nel corridoio, e ritornò subito dopo con LA scatola
trascinata su una
carriola.
-
Visto
che Viggo ti ha fatto scuola di filosofia, che ne diresti di accettare
la vita
come va? Può essere divertente. Ah, ero io. Ho solo usato il
telefono di Billy.
Devi dirmi il nuovo PIN.
-
Aspetta.
– posai il mazzo di fiori sul tavolo all’angolo
della stanza e
cominciai a
girare in tondo. – Okay, io so quello che ti devo dire ma non
so da dove
cominciare, il che mi rende alquanto nervosa e capace di formulare un
pensiero
logico.
-
Prova
con parole tue.
-
Ho
sbagliato a darti un pugno sul naso.
Lui annuì. –
Mi ci è voluto un po’ per fargli tornare il suo
colore naturale. Tiri dei pugni
niente male, sai?
-
Ti
prego, non mi interrompere!
-
Scusa!
– si morse la lingua tra i denti, sorridendo birichino.
-
E
ho sbagliato anche ad aggredirti…
-
Ah,
non ti preoccupare, Les, in realtà ho sbagliato io, tu non
volevi uscire e io
ho insistito, se quel fotografo ci ha beccati… - io
continuai a parlare, non
avevo
intenzione di perdere il filo del discorso.
-
…
ma ero arrabbiata e impaurita, è una cosa totalmente
estranea per me… è stato
così strano… e quindi volevo dirti che…
-
E
perciò volevo dirti che…
-
È
colpa mia – concludemmo in sincrono. – Scusa!
– di nuovo insieme. Ci
guardammo e
scoppiammo a ridere. Ci abbracciammo.
-
E
per concludere – si mise in ginocchio sulla moquette e
cominciò a tirare fuori
riviste e a posarle per terra – facciamoci di gossip! Vediamo
quante belle
cavolate hanno scritto sul nostro conto!
-
Non
mi dire! – sbadigliai. – Sai che mia madre
è scoppiata a piangere perché mi ha
visto ad “Affari tuoi!”? Assurdo.
Non mi andava
proprio di leggere quello che gli altri pensavano di me,
perché era una cosa che
non mi aveva mai interessato, ma avrei fatto di tutto pur di non
rovinare quel
momento.
Stavo per
prendere in mano la prima rivista quando qualcuno bussò
insistentemente alla
porta. Mi alzai, aprii la porta, e il tempo si fermò per
qualche istante.
C’era
Linnie,
dalla mia porta, con il volto rigato di lacrime e un livido sotto
l’occhio. Aveva
anche un graffio sul collo, e sembrava in iperventilazione. Ma la cosa
più
sorprendente non fu vederla in quello stato, ma il fatto che sorrideva.
-
Lesley!
Les, Les, Les, posso entrare per favore?
Mi trascinò
dentro la stanza, salutò Orlando nascondendosi il viso e ci
rinchiuse dentro al
bagno.
-
Linnie,
che diamine ti è successo?
-
Prima
le cose più importanti.
-
Che
c’è di più importante di questo?
I strinse
nelle spalle: - Elijah.
- Elijah?
- Già. Mi piace.
- E allora?
Tirò un gran
sospiro e gli occhi le si illuminarono. -
Ci siamo baciati.
Fine di un altro
capitolo, scritto in
veramente poco tempo per essere più lungo del
solito… magari ho scritto più grande,
chissà.
Bene, cari lettori, sapete già quello
che vi chiedo dopo tredici capitoli! Vado a scrivere il numero
quattordici!
Vostra affezionata Panenutella xD