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Autore: Panenutella    17/10/2011    5 recensioni
Lo guardai meglio: era un angelo….
Aveva il viso cordiale e aperto. Gli occhi neri e profondi come due pozzi guardavano attenti il mondo e risplendevano come la luna. I suoi lineamenti era fini e eleganti, proprio come quelli di un Elfo. La sua stretta era gentile, la sua pelle calda. I capelli corti e neri erano pettinati in modo sbarazzino. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e mi salutò con un largo sorriso.
Nella mia mente contorta cominciai a sbavare come un mastino.
ATTENZIONE: la protagonista interpreta il ruolo della figlia di Galadriel – ovviamente inventata da me -, Hery, che ha una storia d’amore con Legolas e segue i protagonisti nel loro viaggio.
La maggior parte degli avvenimenti narrati in questa fic sono realmente accaduti, ma sono raccontati dal POV della protagonista.
Divertitevi, leggete e recensite in tanti! :)
Genere: Avventura, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Orlando Bloom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lesley's World'
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La mia vita sul set – Cap. 13.

 
-        
Che succede? – gli sentii dire dall’altra parte, preoccupato forse a causa del mio tono di voce. Mi guardai in giro e nascosi la faccia contro il muro, parlando a bassa voce per non dare nell’occhio.
-        
Ti spiego dopo – dissi. – Dove ci vediamo? Dove sei?
-        
Io? Sul set. Ma Les, che sta succedendo?
-        
Ho detto che ti spiego dopo. Ci vediamo tra mezz’ora. Al bar. Faccio prima che posso.
-        
Lesley…
Chiusi la telefonata senza ascoltare quello che aveva da dire, cacciai il telefono nella borsa e estrassi cinquanta dollari dal portafoglio, e aggiunsi altri dieci dollari per sicurezza. Poi, senza guardare tutte le copertine che mi circondavano, mi diressi al bancone e sbattei i soldi sul legno.
-        
Mi dia una scatola e tutti questi giornali. – il commesso, un po’ anzianotto, mi guardò stupefatto.
-        
Ma… ma signorina – cercò di ribattere. – Questa è la fornitura di tutto il venerdì. Fino a lunedì non mi arriva più niente.
-        
Ah, sul serio? – dissi, sfrontata. Estrassi il portafoglio dalla borsa e presi altri quaranta dollari. – Fanno cento dollari. Le bastano fino a lunedì? – lo guardai così male che non ebbe il coraggio di replicare, ma vidi nel profondo dei suoi occhi una scintilla di compiacimento. Non gli andava tanto male in fondo. Prese i soldi dal bancone e con un “un momento, prego” farfugliato giusto per dire qualcosa, scomparve nel retro. Tornò dopo pochi secondi e poggiò la scatola sul bancone. Io intanto, per fare prima, cominciai a raccattare giornali dagli scaffali e li buttai dentro la scatola. Il commesso cominciò a fare lo stesso.
-        
Ma… un momento – disse perplesso dopo un paio di minuti guardando la copertina di un giornale. Alzò il viso e guardò me, che mi ero fermata con una pila di giornali in mano a guardarlo. Mi osservò per un secondo e poi tornò a guardare la copertina. Poi me, poi la copertina. Me e la copertina. – Ma lei è questa qui? – indicò la mia faccia zoomata. – Lei è Lesley Dalton?
-        
Sì, esatto, sono io – buttai l’ultima pila di giornali nella scatola.
-        
Oh, miseriaccia! – saltò su e cominciò a fare saltelli frenetico. – Ho sempre sognato di incontrare un’attrice! La prego, la prego la prego, mi faccia un autografo! – supplicò. Rimasi per un attimo a bocca aperta: mi aveva colto di sorpresa.
-        
Ehm… certo. – dissi, cercando una penna nella borsa. Lui intanto era corso dietro al bancone e aveva estratto un foglietto per le ordinazioni – o almeno quello mi era sembrato. Me lo porse con un sorriso smagliante. Mi avvicinai a lui e schiacciai un paio di volte il tastino della penna a scatto, pensierosa. Come si faceva a fare un autografo?
-        
Come si chiama?
-        
Geoffrey! - Sorrisi per la prima volta da quando ero entrata in quella piccola edicola e Geoffrey parve sciogliersi. Non so se fosse per il sorriso o per il “dammi del tu”. Attirai il foglietto verso di me e scrissi:
Al gentile Geoffrey, grazie per avermi dato una mano. Lesley Dalton
J”. Scarabocchiai il mio nome  e gli porsi il foglio. Geoffrey lo prese fremente, lo lesse e per un attimo temetti che gli fosse venuto un infarto.
-        
Sa, queste foto non le rendono giustizia – disse chiudendo la scatola.
-        
Grazie – dissi, e feci per prendermi la scatola.
-        
Ferma! – esclamò tutto ad un tratto. – Non tocchi quella scatola!
-        
Geoffrey, io l’ho già pagata!
-        
Ma no! Anzi, mi faccia un favore, si riprenda questi soldi. Gliela porto io la scatola alla macchina!
E mentre faceva forza con le braccia e diventava rosso per lo sforzo per sollevare la scatola io pensai “Quale macchina?”, ma non ebbi il coraggio di dirlo ad alta voce, perché quel tizio era capace di offrirmi un passaggio fino al set perfino se avesse avuto come mezzo di trasporto un mulo. Uscì barcollante dall’edicola, e si fermò.
- Ma dov’è la sua auto?
- Beh, io ho il motorino. È a poca distanza da qui.
- Oh, non c’è problema! Andiamo!
Quel tizio era proprio strano. Fui costretta a dargli indicazioni fino al parcheggio dell’albergo. All’entrata, si fermò a si appoggiò contro il muro per riprendere fiato. Dopotutto, era un ometto di sessant’anni e passa.
- Grazie mille, Geoffrey, mi è stato di grande aiuto. Mi lasci pure la scatola, me la cavo.
Lo costrinsi a mollarmi la scatola e la poggiai tra il sedile e il manubrio. Mi misi il casco e vi sbirciai dentro, dove in cima alla pila di riviste ce n’era una con la foto di me e Orlando che ci baciavamo dalla macchina, prima di salire per tornare in albergo. Quella vista bastò a farmi tornare la rabbia. Saltai in sella, accesi il motore e partii, dopo aver fatto un lieve cenno di saluto a Geoffrey. Svoltai l’angolo, dicendo addio al mio pomeriggio in solitudine a Matamata, e ricordandomi che avevo lasciato i cento dollari sul bancone.

 Come riuscii a non cadere e a non traballare per il troppo peso della scatola, non lo seppi mai. Fatto sta che appena poggiai i piedi sul terreno del set, fui presa di ringraziare il cielo di non essere caduta come una pera. Sospirando, mi tolsi il casco e lo poggiai sul sedile, per poi prendere la scatola e portarla lentamente incespicando fino a quello che definivamo bar, ossia un gazebo coperto di teloni bianchi e con dei tavoli bianchi affiancati l’uno all’altro. Una sala mensa all’aperto, diciamo. La gente, al mio passaggio, si voltava a guardarmi perplessa, ma nessuno si offrì di aiutarmi.
Capii di essere arrivata a destinazione quando sentii la voce di Orlando imprecare qualcosa e correre ad aiutarmi.
-        
Ma che diavolo è tutta questa roba?
-        
Lascia fare a me e siediti.     
Rovesciai il contenuto sul tavolo: decine e decine di giornali di tutte le marche e dimensioni si rovesciarono sulla plastica bianca, e in tutti, tutti c’ero io. Una cosa molto snervante.
Non mi ero accorta che dietro Orlando c’erano anche tutti gli Hobbit tranne Sean – doveva essere con la moglie e la figlia. Dom fece una specie di strilletto e cominciò a sventolarsi con una mano, mentre Elijah faceva “Uuuuuuuh!” e Billy rideva. La cosa non mi andava a genio. Dal canto suo, Orlando si era alzato e si era avvicinato ai giornali, prendendone alcuni in mano.
-        
Cos’è questa roba? – fece.
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Dimmelo tu – risposi io.
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Lesley è stata paparazzata! – esclamò Dom. – Non hai detenuto il record per molto, eh?
-        
Gira al largo, Monaghan. È una faccenda tra me e Bloom.
-        
Ahia, Les sta usando i cognomi… - commento Elijah girando sui tacchi e filandosela.
-        
Les è moooooooooooooolto arrabbiata… - anche Billy se la filò. Dom si parò davanti a Orlando, gli poggiò le mani sulle spalle e disse:
-        
OB – sospirò sconsolato – buona fortuna. – e pure lui se ne andò.
Io e Orlando restammo in silenzio per qualche istante: lui prendeva giornali a caso e guardava la copertina, io non avevo il coraggio di guardarli di nuovo. Appena si ritenne soddisfatto, si appoggiò al tavolo, si grattò il mento, incrociò le braccia e, con un lieve sospiro, disse:
-        
Les, non è così grave.
-        
Non è così grave? – ripetei, indignata. – Ti rendi conto di cosa vuol dire?
-        
Sì, ma…
-        
Ogni schifosissima edicola di tutto il mondo a questo punto starà sfoggiando la mia faccia e la tua insieme su tutti i giornali! E già ho speso cento dollari per svuotarne una!
- Tu… hai speso cento dollari… per svuotare un’edicola piena di giornali con una tua foto? – disse Orlando, e scoppiò a ridermi in faccia. Rideva a crepapelle. Non ci vidi più: gli tirai un gancio destro neanche niente male, dritto sul naso.
Il contraccolpo lo fece schizzare all’indietro e poi ripiegare in avanti. Si mise le mani intorno al naso e strizzò gli occhi.
-        
Lesley, porca miseria! Che diavolo ti prende! – disse dolorante. – È normale venire paparazzati, razza di stupida ragazza! Perché cavolo mi hai colpito?
-        
Non ci arrivi da solo? Mi hai riso in faccia! – sbottai. – E non è normale venire paparazzati! Capisci che vuol dire? Gente che ti segue, ti spia e ti fotografa, per fare scoop!
-        
Ah, solo adesso capisci che non è bello leggere i pettegolezzi degli altri? – si passò una mano sotto il naso, dal quale scorreva un rivoletto di sangue. – Sbaglio o era uno dei tuoi hobby?
Si era davvero arrabbiato, ma non mi importava. Lo ero di più io. Presi a caso due giornali dal tavolo e glieli sventolai davanti.
-        
Guarda qui! Guarda! Ecco la prima pagina di “Telenovela”: Orlando Bloom, una nuova conquista amorosa?. E… oh! Guarda qui. “Dalle stalle alle stelle”: Chi è la ragazza con Orlando Bloom? – li lanciai lontano. – Vedi, ci hanno preso fuori dal ristorante!
-        
Ma che cosa caspita c’è di male! Lesley, sei una stupida. Non ti può sconvolgere una sciocchezza del genere!
-        
Sciocchezza? Sciocchezza?? Ecco, ecco che cos’era l’ombra che avevo visto
dietro all’albero! Era uno di loro! – ero quasi arrivata ad urlare. Chiusi le mani a pugno e la faccia mi diventò rossa. – E tu lo sapevi, lo sapevi, ma non hai voluto dirmelo!
-        
Ma che stai dicendo? Secondo te non te l’avrei detto per farti dispetto?
-        
Sai che ti dico? È colpa tua!
Sgranò gli occhi. – Cosa?
-        
Già, è colpa tua! Perché io neanche volevo uscire!
-        
Dimmi una cosa. Cos’è che ti brucia di più, il fatto di essere stata
paparazzata, o che non detieni più il record degli Hobbit? O forse che non ti vada giù che la gente faccia quello che tu hai fatto per un sacco di tempo: violare la privacy degli altri? Ma devi imparare a fregartene, Lesley! Fregatene! Tutti gli attori veri vengono paparazzati. Vuoi sentirti un’attrice vera? Verrai paparazzata! Facci l’abitudine.
Digrignai i denti e guardai per terra. Il cuore batteva forte. – Sai cosa? – lo guardai. – Hai ragione. Non mi sono mai resa conto di quanto sia fastidioso. Ma ecco. – ammucchiai un po’ di giornali e glieli misi in mano. – Visto che tu te ne freghi, fregatene anche di me.
-        
Lesley, stai esagerando.
-        
Può darsi. Ma a te non te ne frega, giusto?
Senza dire nient’altro, voltai i tacchi e me ne andai per i fatti miei, incavolata con Orlando, con i paparazzi e con tutto il mondo in generale.
Raggiunsi un posto isolato quasi di corsa e cercai di sbollire la rabbia, camminando in cerchio fino a farmi girare la testa. A quel punto mi fermai e decisi che era stupido continuare a rimuginarci sopra: meglio farsi una passeggiata.

Il tempo di formulare un pensiero del genere, e il mio cellulare iniziò a squillare. Lo tirai fuori di malo modo dalla borsa – che, poveretta, era rimasta spiaccicata dal peso della scatola -, decisa a mandare al diavolo chiunque fosse, ma poi lessi il nome sullo schermo, e decisi che non sarebbe stata una buona idea. Sospirando, spinsi il tasto verde.
-        
Ciao, mamma.
-        
Oh, Les, tesoro, ma che combini? Ci sono le tue foto sui giornali!
-        
Lo so, mamma, è stata solo una piccola disattenzione e non ricapiterà mai più.
-        
Tesoro, stai scherzando? È fantastico! Finalmente sei famosa!
-        
Mamma, io non sono famosa!
-        
Oh, per amor del cielo, non fare la sciocchina! Secondo te ti ho chiamato a
quest’ora di notte per un nonnulla? Se tu non fossi famosa, non ti avrei chiamato!
-        
Grazie mamma! – dissi sarcastica – Sono felice di venire a conoscenza la
quantità di amore che provi nei miei confronti!
-        
Oh mio dio! OH MIO DIO!! Lesley, stanno parlando di te a “Fatti tuoi!”! Mia
figlia è in televisione!!! – e scoppiò in un pianto di gioia irrefrenabile e la sentii chiamare a gran voce mio padre. Spensi la comunicazione: tanto se avessi detto qualsiasi altra cosa non mi avrebbe sentito. Sperai solo che non cominciasse a fare il giro di telefonate ai parenti.
Sbuffai e pestai un piede per terra in modo infantile. Quando mi arrabbiavo non c’era proprio niente da fare: tutti i programmi mi si cancellavano automaticamente dalla testa. Mi passai una mano fra i capelli.
Dovevo parlare con qualcuno.

 -         Uuuuh, qui c’è del formaggio! No no, lascia stare.
Zio Ian – o meglio, Bilbo Baggins – girava a telecamere spente, provando e riprovando la stessa scena. Ma, ogni volta che ricominciava da capo, la faceva in modo diverso. Questo era lo stile inconfondibile di Ian Holm: riproporre ad ogni scena lo stesso personaggio ma in maniera diversa. Era imprevedibile come pochi.
- Zio Ian, non potremmo parlare un secondo? – lo seguivo come una svitata per tutta la cucina di casa Baggins, con le mani affondate nelle tasche della mia felpa blu, ma lui non sembrava darmi ascolto. Si diresse verso l’ingresso della casetta, fece finta di mettersi qualcosa in bocca e disse con falsa voce da bocca piena:
- Non ti dispiace se mangio?
- Zio Ian? Potremmo fare quattro chiacchiere?
- Mia piccola dolce Lesley, sono molto occupato: non potremmo rimandare a, che ne dici, domani o dopodomani? È qualcosa di importante?
Rimasi in silenzio per qualche secondo, pensando a come rispondere.
-        
No, non è importante – dissi alla fine. – Grazie lo stesso.
Sospirai e, uscendo dalla casetta, guardai l’orologio. Le otto meno un quarto.
Tanto valeva tornarsene in albergo e ripassare un po’ di elfico. Gran bella giornata del cavolo. E dire che era partita bene.

 Nessuno mi disturbò quella sera, così la mia rabbia ebbe il tempo di sbollire e di lasciare posto ad un po’ di rimorso per aver colpito Orlando in quel modo. Dopo essere andata inutilmente da zio Ian avevo mandato un messaggio a Linnie, chiedendole “che fai stasera?” e lei mi aveva risposto solo “Justin”. Ma quand’è che si decideva a scaricarlo? Avevo seriamente paura che le facesse del male: e non era infondata. Da spie dilettanti provette, Billy e Dom erano andati in giro a raccogliere qualche informazione sull’Armadio. Aveva una serie di reati minori alle spalle: furto con scasso, rapina… non aveva esattamente la fedina penale pulita. E soprattutto, grosso com’era, se avesse deciso di fare del male a Ilana ci sarebbe riuscito benissimo: lei era tanto piccola e indifesa, e un solo braccio di Justin era grosso quanto un cinghiale.
Scacciai questi pensieri spiacevoli scuotendo la testa. Non era proprio il momento per pensarci. E poi, anche se aveva la fedina penale sporca, Peter l’aveva assunto, il che vuol dire che non era propriamente una minaccia.
pigiama, seduta a gambe incrociate sul letto, rilessi ancora una volta alla svelta le parole in elfico e le ripetei, sforzandomi di moderare la voce su un tono da elfo saggio. Il risultato non fu dei migliori, ma lasciai perdere. Stropicciai il foglio e lo lanciai sul comodino, buttandomi poi sul cuscino. Rimasi un po’ a fissare il soffitto, pensando: dovevo chiedere scusa a Orlando per il pugno? Eppure era colpa sua se ci avevano paparazzati fuori dal ristorante, di questo ne ero fermamente convinta. Inoltre, ero troppo orgogliosa per chiedere scusa per prima.
-        
Al diavolo – mi girai su un fianco e spensi la luce del comodino.

 Immagini confuse mi scorrevano davanti agli occhi: legno, acqua. Roccia. Una luce abbagliante. La bruttissima sensazione di respirare acqua. E poi il mio sogno ricorrente: aerei, grida, morte. Distruzione. L’immagine cambiò: ero in piedi, in uno spazio bianco immacolato, e fissavo due numeri. 11 e 9.

Mi drizzai a sedere, coperta di sudore e il cuore che pulsava in gola. Mi mancava l’aria. Mi alzai e corsi in bagno a sciacquarmi la faccia. Con il volto bagnato, mi guardai allo specchio. I due numeri, 11 e 9, continuavano a comparirmi davanti.
Riempii un bicchierino d’acqua e lo mandai giù, cercando di calmare il batticuore. Scossi la testa. Era solo un sogno.
Me ne tornai a letto.

 Non me n’ero resa conto, ma se hai un lavoro normale e una vita normale, se litighi con qualcuno – che chiameremo Bob - puoi tagliare completamente i ponti con Bob e fregartene finché uno dei due non cede e chiede scusa. Ma se sei un attore e litighi con Bob che è anche il tuo fidanzato e collega, sei costretto a vederlo di continuo, tutti i minuti di tutti i giorni. E tagliare i ponti è impossibile, a meno che non spegni il tuo telefono e cambi il PIN del telefono di Bob, col risultato di farlo incavolare ancora di più.
Cambiare il PIN di Orlando non era stata una buona idea.
Ma il fatto è che me l’aveva suggerito Dominic. “Vedrai, Les, impazzirà!” mi aveva detto.
È impazzito, ma nella maniera sbagliata. E subito dopo Dominic non è riuscito a trovare un cespuglio abbastanza folto per nascondersi: l’ho trovato nel bagno degli uomini, armata di padella antiaderente. E la cosa più snervante non è che piangesse per la botta presa in testa, ma se la rideva come un matto, tant’è che credetti di avergli spostato qualche rotella.

- Poverino, già ha qualche rotella fuori posto, se poi lo colpisci con una padella… a proposito, dove l’hai pescata quella? – Mi chiese Emma mentre truccava una bambina Hobbit, seduta su uno sgabello in mezzo al prato, dopo che le avevo raccontato l’intera faccenda.
- Emmie, non potremmo parlarne un attimino-ino-ino? – supplicai.
- Non chiamarmi Emmie, Les, mi ricorda il formaggio. E questa bella bambina – le prese le guance tra le dita e gliele sbatacchiò di qua e di là, mentre lei rideva – è stata proprio brava! Bravissima!
La bambina corse via e al suo posto arrivò un bellissimo bambino biondo chiaro. Emma, sospirando, si risedette e ricominciò il lavoro da capo.
-        
Em? Possiamo parlarne? – ripetei la domanda.
-        
Les, mi piacerebbe, davvero, ma sono molto impegnata. Devo ancora
ritoccare una mandria di bambini.
-        
Non credo che “mandria” sia il termine esatto per definire un gruppo di bambini. Non sono mica animali. – commentai.
-        
Sarà, ma mi fanno paura i loro piedi. – confessò Emma impassibile.
Sgranai gli occhi. Sbuffai. – Ok, faremo un’altra volta – dissi rassegnata.
Mi voltai per andarmene e mi ritrovai di fronte a Orlando, proprio come succede nei film dell’orrore, quando il mostro ti appare dietro e ti uccide. Sembrava estremamente arrabbiato. Mi fissò duro, paonazzo, e poi esplose come un palloncino.
-        
Lesley, sei un’idiota! – urlò.
-        
Anche tu! – risposi. Ma internamente pensavo: “Che ho fatto adesso?”
Voltò sfacciatamente la testa dall’altra parte e girò i tacchi. Dio, com’era infantile. Ciò contribuì enormemente a far resuscitare la mia ira morta e sepolta durante la notte.
Me ne andai a grandi falcate, scendendo la collina, e dirigendomi verso la macchinetta delle bevande.
Avevo bisogno di un altro caffè.
Ed erano solo le 8.30 del mattino.

 Perfetto. Stavo benissimo. Seduta sull’erba all’ombra di una roulotte, con le colline e i campi verdi davanti e il fiume che scorreva a valle, in jeans, felpa e caffè bollente. Non mi serviva altro, solo qualche confidente.
Era strano. Era sempre tutti lì, a ficcare il naso nei tuoi affari, e quando ti servivano, PUFF!, sparivano. Li avevo provati tutti: Zio Ian – troppo impegnato -, gli Hobbit – troppo impegnati -, Emma – troppo impegnata -, Linnie – svanita nel nulla assieme all’Armadio -, Peter – troppo impegnato -, qualche comparsa a caso – troppo discreti per ficcare il naso nei tuoi affari, benedetti neozelandesi -… 
Mi stavo sicuramente dimenticando qualcuno, ma mi sfuggiva chi. Bevvi un sorso di caffè e chiusi gli occhi, ripensando a Orlando. Che razza di idiota. Che gli avevo fatto stavolta?
-        
Sai, mi sembri già abbastanza nervosa anche senza quel caffè. – disse una
voce saggia che conoscevo.
Aprii gli occhi e mi tirai su a sedere. – Viggo!
-        
Ciao Les! A quanto pare tira aria poco buona tra te e Orlando! – disse stringendomi la mano con la sinistra. È vero, eravamo colleghi e amici e anche lui faceva parte della Compagnia, ma io lo stimavo troppo per trattarlo con lo stesso poco rispetto – reciproco – che riserbavo per gli altri ragazzi.
-        
Già, a quanto pare… uffa, il fatto è che io non sono una che si arrabbia
facilmente, ma a volte esco proprio pazza.
-        
Benedetta ragazza, capita a tutti! Ma questo lo prendo io, – prese
lentamente il mio bicchiere di caffè e se lo scolò tutto – per evitare altre pazzie da parte tua.
Si buttò la spada in spalla con la stessa disinvoltura di un contadino che prende la zappa, e mi guardò dritta negli occhi, senza mostrare la minima espressione. Oh-oh. Era entrato in fase “Botta e riposta”.
-        
Quanti anni hai? – buttò lì, con nonchalance.
-        
18! – risposi.
-        
Sai guidare la macchina?
-        
No.
-        
Hai tutto quello che ti serve qui?
-        
Direi.
-        
Come ti senti? – sorrise malvagio.
-        
Molto stressata e nervosa.
-        
Perfetto. – mi fissò con quei suoi occhi azzurrissimi e inquietanti, da pazzo.
Qualche lucina era cambiata nei suoi occhi, come se fosse scattato qualcosa, Clik! Un cambiamento drastico. Mi metteva quasi paura. – Vieni! – esplose alla fine, ridendo come un pazzo. Mi prese una mano e si mise a correre giù per la collina, trascinandomi dietro di sé! Ero troppo colta di sorpresa per protestare, ma non si sarebbe fermato comunque. Mi costrinse a correre anche dopo aver superato la collina, dopo aver saltato oltre il sentiero e dopo aver superato una seconda collina. Solo in prossimità di un boschetto lì vicino mi permise di fermarmi. Col fiatone, mi voltai indietro per vedere il punto, abbastanza lontano, dove eravamo partiti. Mi appoggiai sulle ginocchia per respirare meglio. Viggo era un omaccione, certo, ma anche lui era un essere umano, anche lui aveva un cuore. Aveva anche lui il fiatone, una scena che in qualche modo mi fece sorridere.
-        
Adesso come ti senti? – chiese.
Ci pensai su un attimo. – Meglio.
-        
Sei più rilassata?
-        
No.
-        
Fantastico.
Mi costrinse a sedermi a gambe incrociate e mi piegò la schiena in avanti, facendo pressione con un ginocchio e premendo forte. Un male cane.
-        
Viggo, mi fai male così! – protestai.
-        
Non badare al dolore! – mi esortò. – Respira profondamente.
-        
Questa è una tortura!
-        
Lalalalalalalala! Respira!
Non potei far altro che eseguire l’ordine, e cominciai a inspirare e espirare lentamente, proprio come uno yogin. E Viggo faceva lo stesso. Appena ritenne che poteva bastare, mi lasciò andare. La mia schiena schioccò in maniera inquietante quando mi tirai su.
-        
E tutto questo per dimostrare…?
-        
Adesso come ti senti? Sei più tranquilla?
Mi pizzicai la base del naso. – Beh, sì. Adesso sì.
-        
Vedi? – sorrise.  – Lo Yoga funziona.
-        
Già! – sorrisi.
-        
Saresti in grado, adesso, di parlare con Orlando in maniera civile in maniera adulta?
-        
Beh… sì, se solo lui non si comportasse come un neonato.
Alzò le braccia al cielo, stiracchiando le giunture in maniera niente affatto elegante. – Mmm, sì, ti capisco. Anch’io facevo così all’inizio. Ma dimmi un po’: chi dei due fra voi era più arrabbiato?
-        
Io, sicuramente.
-        
Quindi tu l’hai aggredito. – Non era una domanda.
-        
Sì.
-        
Quindi lui non ti ha fatto niente di male, giusto?
-        
Sì. – ammisi.
-        
Quindi dovresti essere tu a chiedergli scusa, giuuuuuuusto?
-        
Beh, sì, ma…
- Oh, Dalton, ficcati quella coda che hai tra le gambe e vai a chiedergli scusa! - sbottò. Dopodiché raccolse la spada, girò i tacchi e se ne andò. Non avrebbe potuto essere più convincente. Presi il telefono e scrissi un promemoria.
Per le 19.30. Andare da Orlando e chiedere scusa.
Me ne andai, finalmente tranquilla, a prendere… no, non un caffè. The. Alla pesca.

 19.30. La sveglia squillò. La spensi e non mi mossi. Niente mi avrebbe separato da quel meraviglioso piatto di carne portato dal servizio in camera.

 20.15. “Mmmmm… quasi quasi schiaccio un pisolino. Passerò dopo da Orlando. Dieci minuti”.

 23.45. Maledizione!
Avevo promesso a me stessa che avrei dormito solo dieci minuti. Avevo dormito tre ore e mezza. Chi me lo diceva che Orlando non se n’era già andato a dormire?
Il telefono, posato accanto al cuscino, mi segnalò l’arrivo di un messaggio: sperando che fosse Orlando, mi buttai a pesce per prenderlo il più presto possibile. Sbloccai frenetica la tastiera, ma rimasi delusa. Non era Orlando: era Billy.
“Les! Posso passare da te fra trenta secondi? 29… 28… 27…” Il messaggio terminava così. Tipico stile di Billy. Ancora venti secondi e qualcuno bussò alla porta.
-        
Sì, Billy, arrivo! Erano proprio 30 secondi, eh?
Aprii la porta, e rimasi spiazzata.
Non era Billy.
Era Orlando.
Con in mano un mazzo di girasoli. Me li porse con un sorriso. Non sapevo se prenderli o meno. Poi alzai gli occhi al cielo, sorrisi e lo presi in mano, sfiorando la sua.
-        
Grazie. – sussurrai. Puntò l’indice verso l’alto e disse, con un sorriso:
-        
Eeeee… non ti ho portato solo questo.
Sparì per un attimo nel corridoio, e ritornò subito dopo con LA scatola trascinata su una carriola.
-        
Visto che Viggo ti ha fatto scuola di filosofia, che ne diresti di accettare la vita come va? Può essere divertente. Ah, ero io. Ho solo usato il telefono di Billy. Devi dirmi il nuovo PIN.
-        
Aspetta. – posai il mazzo di fiori sul tavolo all’angolo della stanza e
cominciai a girare in tondo. – Okay, io so quello che ti devo dire ma non so da dove cominciare, il che mi rende alquanto nervosa e capace di formulare un pensiero logico.
-        
Prova con parole tue.
-        
Ho sbagliato a darti un pugno sul naso.
Lui annuì. – Mi ci è voluto un po’ per fargli tornare il suo colore naturale. Tiri dei pugni niente male, sai?
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Ti prego, non mi interrompere!
-        
Scusa! – si morse la lingua tra i denti, sorridendo birichino.
-        
E ho sbagliato anche ad aggredirti…
-        
Ah, non ti preoccupare, Les, in realtà ho sbagliato io, tu non volevi uscire e io ho insistito, se quel fotografo ci ha beccati… - io continuai a parlare, non
avevo intenzione di perdere il filo del discorso.
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… ma ero arrabbiata e impaurita, è una cosa totalmente estranea per me… è stato così strano… e quindi volevo dirti che…
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E perciò volevo dirti che…
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È colpa mia – concludemmo in sincrono. – Scusa! – di nuovo insieme. Ci
guardammo e scoppiammo a ridere. Ci abbracciammo.
-        
E per concludere – si mise in ginocchio sulla moquette e cominciò a tirare fuori riviste e a posarle per terra – facciamoci di gossip! Vediamo quante belle cavolate hanno scritto sul nostro conto!
-        
Non mi dire! – sbadigliai. – Sai che mia madre è scoppiata a piangere perché mi ha visto ad “Affari tuoi!”? Assurdo.
Non mi andava proprio di leggere quello che gli altri pensavano di me, perché era una cosa che non mi aveva mai interessato, ma avrei fatto di tutto pur di non rovinare quel momento.
Stavo per prendere in mano la prima rivista quando qualcuno bussò insistentemente alla porta. Mi alzai, aprii la porta, e il tempo si fermò per qualche istante.

C’era Linnie, dalla mia porta, con il volto rigato di lacrime e un livido sotto l’occhio. Aveva anche un graffio sul collo, e sembrava in iperventilazione. Ma la cosa più sorprendente non fu vederla in quello stato, ma il fatto che sorrideva.
-        
Lesley! Les, Les, Les, posso entrare per favore?
Mi trascinò dentro la stanza, salutò Orlando nascondendosi il viso e ci rinchiuse dentro al bagno.
-        
Linnie, che diamine ti è successo?
-        
Prima le cose più importanti.
-        
Che c’è di più importante di questo?
I strinse nelle spalle: - Elijah.
- Elijah?
- Già. Mi piace.
- E allora?
Tirò un gran sospiro e gli occhi le si illuminarono. -  Ci siamo baciati.

 

Fine di un altro capitolo, scritto in veramente poco tempo per essere più lungo del solito… magari ho scritto più grande, chissà.
Bene, cari lettori, sapete già quello che vi chiedo dopo tredici capitoli! Vado a scrivere il numero quattordici!
Vostra affezionata Panenutella xD

   
 
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