Tonight I’m
tangled in my blanket of clouds.
-…
pronto?- una voce impastata nel sonno rispose con tono piatto e lievemente
scocciato.
-Chris…-
-Kurt,
che sorpresa! È un po’ che non ci si sente, eh? Come va?- gli
rispose l’altro, e Kurt poté percepire chiaramente il ritrovato
entusiasmo della sua voce, immaginando anche il suo sorriso fargli capolino tra
le labbra. Al solo pensarlo più rilassato la fitta scomparve per qualche
secondo, dandogli il tempo di riprendere un po’ il fiato.
-Io…
non… non molto bene, ecco.-
Kurt
amava la propria capacità di prevedere in qualsiasi istante il modo in
cui il bassista avrebbe reagito. Sapeva che da un momento all’altro
avrebbe dato due colpi di tosse, dovuti al suo trattenere inconsapevolmente il
respiro e, cercando di dare nell’occhio il meno possibile (non
riuscendoci affatto), gli avrebbe chiesto cosa diamine fosse successo.
Il
tossicchiare nervoso di Novoselic non si fece
attendere, così come il suo chiedere in tono fintamente pacato -Che
cazzo t’è successo?-
Il
ragazzo giocherellò con una ciocca bionda e non poté fare a meno
di sorridere: quel “cazzo” era il segno tangibile di
un’isteria da liceale mestruata che l’amico non riusciva proprio a
celare.
-Ho
provato l’ero.-
Krist
serrò la stretta convulsa sulla cornetta, rendendo le nocche bianche
come cenci.
-…
come, scusa?-
-Non
ce la facevo più, cazzo! Le fitte continuano ad aumentare, Chris, e io
non ce la faccio più…-
L’altro
sospirò: -L’eroina non è uno spinello, Kurt…
è… è orribile, è solo
merda, ti fotte il cervello!-
-Mi
sembra di avere i Gremlins in pancia, merda…- tentò di sdrammatizzare lui, ma
l’altro non lo stette a sentire.
-Non
sto scherzando… Promettimi che non lo farai
più!-
-Te
lo prometto, Chris.-
-Sei una checca! Solo le
checche inviano letterine romantiche, testa di cazzo!-
Chiunque fosse passato
davanti alla buca delle lettere in quel preciso istante forse non lo avrebbe
riconosciuto, ma avrebbe certamente pensato che a quell’essere umano
plasmato a mo’ di palo della luce mancasse qualche rotella.
-E solo le checche ancor
più checche non hanno il coraggio d’imbucarle!- strillò
nuovamente, non realizzando di dare spettacolo al vicino di casa settantenne,
che a quell’ora era solito portare a spasso il suo vecchio bassotto.
Krist diede un respiro profondo e finalmente
fece scomparire la busta dentro l’imboccatura della cassetta, sentendosi
potente come un Highlander.
-Checca. Checca. Checca.
Fottutissima checca!- si rimproverò nuovamente, ritornandosene in casa e
lasciando che il vecchio e il cane osservassero quel metro e mezzo di pantaloni
viola sparire dietro la porta d’ingresso.
-Ma dimmi te se devo sempre
far contenta quella troia là…-
mugugnò, gettando nel borsone dei vestiti pescati a caso dal pavimento,
scegliendoli con il suo personalissimo criterio del “prendo quelli che
puzzano meno di morto”.
Dopo aver chiuso lo
scaldabagno e aver lasciato un messaggio nella segreteria telefonica di Dave, uscì di casa e appiccicò alla porta il
cartello “Attenti al cane” che usava sempre quando si assentava.
Non si poteva mai sapere
con la gente che bazzicava a quei tempi, tutti potenziali ladri del
preziosissimo vinile di My Generation che conservava nel secondo
cassetto del comò come la più preziosa delle reliquie esistenti
sul globo terrestre.
Pregò Dio, il karma
e Superman di proteggere la sua creaturina e
saltò sul taxi che era finalmente arrivato, facendo ben attenzione a non
sbattere la testa sul tettuccio della vettura.
D’altronde, non
sarebbe stata di certo la prima volta che il suo tenero cranio avrebbe avuto
l’onore di assaggiare un corpo contundente.
Se
in quel momento un’orda di giornalisti gli avesse chiesto se n’era
veramente valsa la pena di fare il figo sul palco,
ottenendo in cambio soltanto una figura dimmerda coi
fiocchi, non avrebbe avuto alcuna titubanza nel rispondere un sì secco.
MTV
aveva un’amplificazione del cazzo, su questo non c’era alcun
dubbio, e lui, vuoi per questa mancanza della rete, vuoi per l’euforia
della performance, si era esibito in un suo personalissimo spettacolino a base
di bassi che non conoscono le leggi della gravità.
La
sua fronte però le aveva imparate a proprie spese, quando il manico gli
aveva tatuato affettuosamente sulla pelle un segno della sua visita di
cortesia.
Krist
aveva strisciato in giro per il palco sotto lo sguardo di Dave,
intento a pestare sui tamburi, fino a quando aveva imboccato confuso
l’uscita di sicurezza ed era entrato nel bagno barcollando, stupendosi di
quanto sangue potesse uscire da quella fenditura, un piccolo e sentito omaggio
da parte del dio del Rock n’ Roll.
I
paramedici lo avevano poi quasi soffocato quando invasero il piccolo cesso,
sottoponendolo a visite d’accertamento, bendaggi e idiozie d’ogni
tipo, sotto le sue proteste per farli desistere da quell’improvvisa
quanto acutissima sindrome della crocerossina.
Aveva
appena ironizzato sul fatto se fosse necessario fargli anche una lavanda
gastrica e si era inquietato quando li aveva visti pensarci su,
quand’ecco che dalla porta aveva fatto capolino una testa folta di ricci
scuri, seguita da un sorriso gentile.
Mandare
affanculo dottori e compagnia bella fu un giochetto da ragazzi, considerando
anche il fatto che uno dei migliori chitarristi del Rock era lì, solo
per lui, e gli stava facendo l’allettante proposta di scolarsi dello
champagne in sua compagnia.
Krist
non se lo fece dire due volte, facendo prendere un colpo ad un Dave piuttosto agitato che, finita l’esibizione, si
era precipitato nel backstage per accertarsi delle sue condizioni di salute e
che se l’era invece ritrovato a sghignazzare con uno dei suoi idoli
adolescenziali, lasciandolo livido più per l’invidia che per lo
spavento.
E
quando Kurt irruppe nello stanzino, aggredendolo per aver perso il tempo, Krist non si scompose minimamente: sapeva che quello era il
suo personalissimo modo per fargli sapere quanto si fosse preoccupato, e in
cuor suo sperava che quell’atteggiamento burbero derivasse anche da una
gelosia che il cantante non avrebbe mai e poi ammesso a se stesso, figuriamoci
a lui.
Quella mattina a Seattle
pioveva.
Era una di quelle
fastidiose pioggerelline primaverili, di quelle che ti urtano nell’animo.
Non che generalmente il Sole lì spaccasse le pietre, però sarebbe
stato alquanto carino tornare nella propria città e trovarsi un’accoglienza
degna di essere chiamata tale.
Ma Seattle non sarebbe
stata se stessa senza il marchio della pioggia perenne, quell’acqua che
creava una cupola appannata e gonfia d’umidità e vapore,
quell’acqua che opprimeva e rendeva le persone grigie già dalla nascita.
E siccome le sfighe non
vengono mai da sole, ma sempre in piacevole compagnia, aveva scoperto che il
taxi su cui si era fiondato per ripararsi dal diluvio universale aveva
l’autoradio scassata.
E questa era cosa grave e
ingiusta, perché Krist Novoselic
detestava i gelidi silenzi che s’instaurano sempre tra passeggero e
guidatore ma, ancor di più, detestava il dover raccontare vita, morte e
miracoli di se stesso ad un tassista piuttosto ficcanaso e dall’accento
inconfondibilmente made in Little Italy.
-Ma
non mi dire, cos’abbiamo qui? Un Kurt Cobain intento a scribacchiare le
sue seghe mentali sul suo diariuccio rosa confetto!-
Dave
saltò addosso al cantante e tentò di strappargli dalle mani il
quadernetto, ma quello resisteva intrepido, chiudendosi come fa un riccio
quando si ritrova pericolosamente vicino alle ruote di un veicolo in
autostrada.
Krist
assisteva alla scena in un misto di apprensione e invidia: si aspettava che da
un momento all’altro Kurt sclerasse di brutto e
si scrollasse di dosso Dave, per poi pestarlo a sangue.
Non gli sarebbe poi dispiaciuto così tanto dover fare da spettatore ad
una scena tanto cruenta; se non altro, il batterista avrebbe finalmente levato
le mani di dosso da lui.
La
scena da perfetto film splatter che la regia del suo cervello stava magistralmente
girando venne però interrotta dalla voce di Dave.
-Perché
scrivere un diario?-
-Hai
mai scritto delle lettere?-
Krist
sorrise: era tipico di Kurt rispondere ad una domanda con un’altra
domanda, ed era sicuro che ben presto se ne sarebbe venuto fuori con una delle
sue perle di saggio incompreso.
-Sì,
un paio… E parecchi anni fa…-
sorrise l’altro, quasi per giustificarsi di quella mancanza.
-Ecco:
tu hai scritto agli altri, io pure. Io scrivo ad una parte di me che ancora non
conosco, che ancora non mi conosce, ma che verrà fuori col tempo. Questa
parte di me sarà la chiave per tutto quello che non riesco a comprendere
ora.-
Seguirono
brevi attimi di silenzio abbastanza pesante, interrotti dalla solita ma
alquanto provvidenziale demenza di mister Grohl.
-…
e pensare che quella figa della mia compagna di banco del liceo lo usava solo
per scriverci sopra che voleva scoparmi!-
Kurt
rise di cuore e, dopo aver riposto il quadernetto nella sua vecchia borsa in
stoffa, accettò il silenzioso invito di Dave
di unirsi ad una bevuta pre-registrazioni.
Krist
vide la chioma del cantante, del rassicurante color del vino, scomparire dietro
la porta blindata, e restò in silenzio.
Odiava
il fatto che Kurt non fosse una persona come le altre e che
non avesse qualche anno in meno.
Essere
uno stupido ragazzetto quattordicenne gli avrebbe sicuramente permesso di
scrivere il suo nome, rigorosamente con la C, tra quelle pagine.
E
se c’era una cosa che Krist voleva con tutto se
stesso, quella era trovare per sbaglio il proprio nome tra una presa per il
culo rivolta ai Guns n’ Roses
e l’altra.
171 Lake Washington Blvd. E.
assomigliava ad un pacco regalo sciupato, legato dal triste nastro della
polizia, mentre le sirene delle volanti lampeggiavano senza sosta, facendosi
strada tra le gocce di pioggia.
Krist aveva il presentimento che quella sorpresa che stava per avere non gli
sarebbe piaciuta affatto.
Il
telefono squillò una, due, tre volte, ma nessuno si decise ad alzarsi
dal letto.
Solamente
al quarto squillo, quando Shelli mugugnò e
girò fianco, Krist capì che era un modo
indiretto da parte di sua moglie di fargli capire che l’ardua impresa
spettava solamente a lui.
La
radiosveglia sul comodino segnava le 2:07, e l’uomo non poté fare
a meno di mugugnare una bestemmia a denti stretti, maledicendo l’autore
del risveglio.
-Ma dimmi
te chi cazzo può essere a ‘ste ore del
mattino, porcaccio il Sign- esclamò,
aggrappandosi a stento al corrimano della scala ed evitando di rotolare
giù per le scale.
Conoscendo
Shelli, si sarebbe sicuramente lamentata per il
casino che avrebbe fatto, senza preoccuparsi se il suo osso del collo fosse
intero o meno.
Caracollando
pericolosamente verso il tavolino, afferrò la cornetta e ringhiò
rabbiosamente un “Pronto”, dettato più dalla voglia di tornarsene
a letto che dalla sua educazione che in questi momenti se ne stava in
villeggiatura a Bali.
-Pronto,
Chris! Per caso ho interrotto qualcosa?-
Chris. Chris. Chris.
Il cuore
di Krist prese a battergli veloce nel petto, come se
volesse gonfiare di botte la cassa toracica: a stento l’uomo
riuscì ad appoggiarsi da qualche parte per non svenire, optando poi per
il lasciarsi scivolare contro la parete.
-Kurt! Oh no, no… Assolutamente!-
urlò, ricordandosi poi della moglie e abbassando il tono della voce sull’ultima
parola.
Lo
sentì sorridere dall’altro capo della cornetta, e non poté
fare a meno di arrossire: le farfalle erano tornate a fare le affittuarie nel
suo stomaco, alé.
-Sono
felice di sentirtelo dire! Senti… Ti ho
chiamato per avvisarti che io e Courtney stiamo tornando a Seattle, partiamo
tra pochi minuti… I tipi del volo mi stanno
rompendo le balle per via dell’imbarco ma non me ne importa nulla…-
Krist avvampò nuovamente e l’amico, memore delle
telefonate della loro adolescenza, colse la palla al balzo, interpretando
perfettamente il silenzio del bassista come un’occasione in più
per sfotterlo.
-Avevo un
gettone da sprecare, che vuoi che ti dica…-
-Dai, vaffanculo!- Krist rise
finalmente, lasciando che la tensione accumulata in tutti quei giorni finisse
di sciogliersi.
-Ok amigo, la mia signora mi chiama…
Felice di averti sentito, ci si vede tra un paio di giorni, stammi bene!- lo
salutò il cantante, facendo per riattaccare, ma la sua intenzione venne
bloccata dal richiamo dell’amico.
-Kurt, io…-
-… tu?-
-Non farmi
mai più scherzi del genere, intesi?-
-… promesso. Anche se, ad
essere sincero, ho avuto un incremento esponenziale dell’ispirazione,
giuro! Credo proprio che scriverò la nuova Lucy In The Sky With Diamonds, sai? Tutti quegli Stregatti
e quei Colossei…-
-Dai, vai
a farti fottere, coglione!-
-Ti seguo,
checca! Ciao, Chris… A presto.-
Krist restò con la cornetta in mano ed un sorriso ebete
stampato sulle labbra: quel “a presto” sarebbe arrivato a breve,
per fortuna.
Il volo delle 00.14 era
deserto, e Lux si concesse il lusso di tirare un profondo sospiro di sollievo.
Era stata una giornata
veramente dura e faticosa: i voli su cui aveva dovuto prestare servizio si
erano succeduti uno dietro l’altro, e ognuno era zeppo di gente, complice
anche la tragedia appena scoperta.
All’apparenza Lux
Anderson non sembrava una fan dei Nirvana: non girava con camicione in flanella
o con occhi truccatissimi, non portava jeans strappati o anfibi sporchi.
Ma sotto l’aspetto
impeccabile, sotto la divisa blu da hostess perfettamente tenuta e lo chignon
biondo senza un capello fuori posto, batteva un cuore al ritmo del grunge, al
ritmo delle cassette quasi sbobinate a furia di metterle e toglierle nel
vecchio mangianastri di casa.
Lux era riuscita a
mimetizzarsi, piccolo camaleonte dal viso d’angelo e la
sensibilità spiccata, nel mondo di pescecani tutti grigi e uguali, quel
mondo in cui ogni occasione era buona per sbranarsi a vicenda, quel mondo che
non aveva saputo accogliere a braccia aperte le più disparate
personalità geniali che vi avevano messo piede nel corso degli anni. Non
c’era riuscito negli anni Sessanta, nei Settanta e negli Ottanta, e non
ce l’aveva fatta nemmeno ora, nemmeno con quel ragazzo dallo sguardo vivo
ma allo stesso tempo spento, i
capelli talvolta biondi e talvolta rossi, e una voglia di cambiamento che non
era riuscito ad esternare totalmente.
Aveva mandato segnali,
Kurt. Segnali che non si era riusciti a capire, segnali che a volte non si
erano voluti capire, per la paura del
diverso, per l’indifferenza che ingeriva quotidianamente la
moralità dell’intera razza umana, per la diffidenza che
c’accomuna un po’ tutti… per la
semplice paura che dare corda ad uno così avrebbe significato mettere a
soqquadro millenni e millenni di storia.
Il primo Messia lo si era
crocifisso, gli altri a venire erano morti tra la droga, il mistero e la
negligenza dell’opinione pubblica…
l’ultimo era morto sotto il grilletto premuto dal Sistema che tanto aveva
tentato di estirpare.
Lux non poté non
giungere alla conclusione che la razza umana fosse solamente una massa di
coglioni che la sua mediocrità se l’andava a cercare con
meticolosità ed estrema costanza, se ad ogni nuovo genio che nasceva
ogni santissima volta era riservata la stessa fine meschina.
Dopo aver abbandonato le
décolleté in un angolo ed essersi bevuta il dodicesimo
caffè della giornata, la giovane donna decise di farsi un giretto per
l’aereo, complice anche la totale assenza di passeggeri.
Le piaceva da matti poter
camminare tranquillamente lungo il corridoio stretto, e immaginarsi tutte le
persone che amava sedute in quei posti, intente a
chiacchierare tra loro… Suo padre seduto vicino
a Cobain, magari. D’altronde, Kurt aveva l’età di suo
fratello Matthew, esattamente un paio in più di lei, e papà
Anderson non si sarebbe di certo fatto problemi a parlare con quel ragazzo dal
maglione sformato a righe nere e rosse.
Fu passando di fianco alla
ventisettesima fila di posti che però, con la coda dell’occhio,
intravide un’ombra accanto al finestrino.
Fece per aprir bocca quando
riconobbe, sotto le occhiaie rosse e il viso mortalmente pallido, il
co-fondatore dei Nirvana, ma la sua sensibilità ebbe la meglio.
Perfino un cieco sarebbe
stato in grado di notare l’espressione sofferente del bassista, e Lux non
fu da meno: quella era la classica espressione di chi sta per crollare dopo
essersi trattenuto a lungo e soprattutto a stento, l’espressione che
precede sempre il crollo della diga intenta a tenere a bada i sentimenti più
intimi, intenta a proteggere l’io più profondo di ogni persona.
Se ne andò in punta
di piedi, senza alcun rimpianto, badando bene a spegnere la radio
dell’aereo nell’esatto momento in cui la stazione della musica
classica si era accinta a trasmettere un estratto di Dumb, direttamente
dall’ennesimo notiziario della giornata.
Si consolò pensando
che Krist la stesse ringraziando mentalmente per la
premura che gli aveva riservato, e sorrise piano.
Los Angeles,
1 aprile 1994
Caro Kurdt,
quando la città
di smeraldo chiama, chiama per davvero, eh?
Ho appena finito di
sentire Courtney al telefono: sbraitava come suo solito, ma tra uno strillo e
l’altro sono riuscito a capire poche cose, che però bastano.
Devo aggiungere Fuga da Alcatraz alla tua lista di film preferiti, per caso? Dave
mi suggerisce di farlo, s’è pure ripromesso di andare a noleggiare
la videocassetta quando tornerai a trovarci, discolaccio…
Ok, mi sembra di vedere
tra le righe il tuo sguardo alquanto perplesso, quanto vorrei averlo su di
me, per cui la pianto e ritorno serio.
Non
so nemmeno io perché ti stia scrivendo questa lettera: semplicemente, mi
sono ritrovato ad impugnare la penna ed a lasciare che le parole venissero da
sé.
Procurarti
un telefono no, eh? Mi manca sentirmi chiamare Chris, sentire la tua voce calma
e perennemente sarcastica, il tuo respiro attraverso la cornetta…
Ma
credo che cercherò di accontentarmi di un paio di parole secche calcate
dalla tua mano, anche se ormai non mi basta più nulla.
Kurt,
so che mi ucciderai per quello che ti sto per dire, ma io ho bisogno di te.
Il
pensiero che tu voglia lasciare Courtney non può che rendermi felice
fino alla pazzia, ma allora perché te ne sei andato a Seattle?
Perché non sei tornato da Dave, da me?
Non
siamo abbastanza legati, noi due? Non riesci a sentirti te stesso, in mia
compagnia?
Oppure,
come quella pazza che ti ritrovi come marito
va farneticando in questi giorni, ti vuoi
autodistruggere? Hai paura di farmi male, Kurt?
Mi
ferisci di più non facendoti vivo, vecchio mio.
E
so che probabilmente saranno i fumi dell’alcool a permettermi di
scriverlo con maggiore coraggio, ma io, mio caro Kurt Donald Cobain, ti amo.
E
sappi che per formulare queste due fottute paroline non ho avuto bisogno delle nove
birre che mi sono scolato solamente per impugnare la penna.
Da
qualche parte, dentro di me, l’ho sempre saputo. Ho solo necessitato un
po’ di tempo per prenderne coscienza, tutto qua.
Ti
chiedo un ultimo, immenso favore: per l’ultima volta, fa’ che quel
diario, quel dannato quadernetto che sa tutto di te, sia io, e rispondimi,
rispondimi con il cuore in mano.
Il
mio te l’ho già sventolato sotto il naso, riesci a vederlo?
A
presto, mio Boddah
Tuo
Chris
Krist Anthony Novoselic
si era sempre ritenuto un uomo fortunato: aveva una bella casa, soldi a palate
e figa a volontà. Senza contare che il suo lavoro consisteva nel fare
musica, una delle sue attività preferite assieme allo scopare, al
raccontare improbabili barzellette e all’abbracciare Kurt ad ogni occasione
possibile.
Ok, adesso avrebbe dovuto
eliminare l’ultima, però…
Un
uomo non piange, Novoselic. Un uomo non piange mai,
cazzo. Mai, hai capito? Hai capit
La prima lacrima cadde
esattamente su Boddah,
su quel suo maledetto amico che
avrebbe dovuto fargli capire che non ne valeva veramente la pena di gettare
giù per il cesso ventisette anni.
-Come cazzo si fa… Come si fa?!- sbottò, accartocciando un
po’ la carta fra le mani tremanti.
In quel momento desiderava
soltanto che l’aereo andasse a schiantarsi da qualche parte, così
da poter raggiungere Kurt e dirgli finalmente quello che non era riuscito a
dirgli in nove fottutissimi anni.
Perché a Krist bruciava il fatto che, proprio nel momento in cui si
era deciso a confessargli i suoi sentimenti, quel grandissimo bastardo del destino
si fosse divertito a mandare a puttane tutto quanto.
Krist odiava il doversi alzare la mattina
seguente con la consapevolezza che non ci sarebbero stati mai più
sorrisi, battutine o telefonate nel cuore della notte.
Krist odiava la morte, o meglio: odiava la
morte prematura, la morte unilaterale,
quella morte che ti porta via le persone nel momento meno opportuno, ammesso e
concesso che esista veramente un momento adatto per morire.
Krist odiava il darsi mentalmente degli ordini
e non rispettarli, mentre la lettera ormai zuppa navigava nelle sue grandi
mani, una naufraga senza timone né vele.
Kurt non l’aveva
letta, e lui si era sentito terribilmente in imbarazzo nel dover fare il ladro
a casa del suo migliore amico, ma quella lettera doveva sparire al più
presto, se si voleva evitare ulteriore merda aggiunta a quella che si stava via
via accumulando in memoria del cantante.
Krist odiava il dover condividere il letto con
una donna che non amava più, che forse non aveva mai amato, mentre
l’unica persona con cui avrebbe voluto dormire stretto, nel giro di pochi
giorni sarebbe stata calata nella terra, o chissà dove.
Krist odiava il fatto che con Kurt fosse morto
anche Chris, l’unica parte di
sé che amava.
Si addormentò
più per avere qualche forza da parte per arrivare al taxi, una volta
giunto all’aeroporto, che per un bisogno fisico.
E fu lì che Krist scoprì, per la prima volta in quel giorno,
qualcosa di bello: nei sogni Kurdt e Chris
ritornavano a vivere, e lo facevano insieme.
Nel dormiveglia gli parve
persino di sentire le sue dita sfiorargli leggermente il volto, e finalmente le
labbra si distesero in una curva serena.
Fuori il Sole di Los
Angeles cominciava a nascere.
Don’t
ever ask your love for me.
Salve
a tutte; innanzitutto ci tenevo a specificare che è la prima volta che
scrivo su questo fandom e che sono agitatissima, e in
secondo luogo volevo dare qualche indicazione per una lettura più chiara
e comprensibile.
La
prima scena è ambientata nel 1985: Kurt ha veramente chiamato Krist (o Chris, come lo chiama lui) quando ha provato l’eroina
per la prima volta, e Novoselic lo ha veramente dissuaso
dal riprovarci.
Le
scene legate alla lettera sono tutte riconducibile ad un’intervista della
Love in cui ha dichiarato che Krist avesse scritto
una lettera per Cobain perché quest’ultimo non era raggiungibile
telefonicamente; sempre lei lo avrebbe costretto ad andare in cerca del proprio
consorte, durante quel maledetto aprile del 1994. Entrambi i fatti non sono mai
stati confermati da Novoselic, quindi io li prenderei
molto con le pinze: ciò non toglie che mi siano piaciuti un sacco e che
mi sia vivamente augurata che tutto ciò fosse accaduto sul serio.
La
seconda telefonata è invece ambientata nel 1994, dopo l’overdose
di Kurt a Roma: non penso ci sia mai stata una sua chiamata, ma mi è
piaciuto pensare che si fosse preoccupato per Krist.
Poi
vabbé, c’è la famosissima scena
degli MTV Music Awards del
1992, mentre le scene del diario, di Seattle, dell’aereo e la stessa
lettera sono ovviamente frutto della mia fantasia. Lux Anderson è invece
un mio personaggio.
Perfetto,
ora vi posso lasciare in pace :3
Adié e bacioni,
Dazed;