DISCLAIMER: sfortunatamente nessuno dei personaggi mi appartiene, né sono mai venuta in contatto con loro. La caratterizzazione dei personaggi e i fatti narrati sono frutto della mia immaginazione e assolutamente non reali. Non intendo offendere nessuno e non traggo alcun guadagno dalla stesura di questo racconto.
È la mia seconda fic su di loro ed è stato un parto faticosissimo (e neanche tanto ben riuscito); non è ricollegabile alla prima, per il semplice fatto che narra dello stesso momento – l'accettazione di quel che è il loro rapporto, soprattutto da parte di Nathan – ma in chiave completamente diversa. E no, non sono brava con l'angst, per niente. Ma proviamoci.
Titolo e citazioni da “Somewhere a clock is ticking”, che in qualche modo ho sempre visto facilmente modellabile sulla loro storia (o meglio, a quella che io, fangirl frustrata, posso immaginare per loro).
Scritta per il prompt “profumo” sulla mia tabella per bingo-italia.
*
Viaggiare non significa
necessariamente trovare pezzi di sé.
Ci sono notti in cui ti manca casa, e i palazzi di Los Angeles, dritti e
imperturbabili, che si stagliano verso il cielo, ricordano le sbarre di una
prigione. Le luci di milioni di finestre, disposte in file ordinate sullo
sfondo, diventano punti sfocati, quando il mio alito disegna sul vetro macchie
umide che appaiono e si dissolvono in sincronia con il respiro e il suo ritmo
svizzero. C’è chi pagherebbe oro per avere una vista simile dalla sua suite a
cinque stelle; io, oggi, pagherei oro perché il mio riflesso – quell’uomo di
bellezza mediocre, alto, con la barba fatta male e un bicchiere di vino rosso
che oscilla pericolosamente fra due dita – potesse sorridere.
Alle mie spalle, Jonny e Paul giocano a carte in un silenzio tombale, interrotto
solo episodicamente dal frusciare del mazzo o il tintinnare dei bicchieri, che
si scontrano in un timido cin cin, solo accennato per evitare di
disturbare quello che sicuramente avranno inteso come un silenzio stampa
forzato. Tom alza raramente gli occhi dal suo giornale, ma quando li alza,
seppur per qualche brevissimo istante, li punta sempre su di me, mantenendo
sempre una certa discrezione. Sembra che abbiano tutti paura di parlare; ed è
comprensibile, perché oggi, dopo tanti anni, quel filo sottile ma apparentemente
indistruttibile su cui si reggeva il nostro equilibrio si è spezzato senza
possibilità di ritorno.
Con la coda dell’occhio vedo Tom infilarsi nella sua stanza e richiudere la
porta scorrevole; Pablo mi fa un cenno con la mano e se ne va assieme a Jonny,
con l’espressione tipica di chi va a dormire alle tre di notte sapendo che la
mattina dopo se ne pentirà. Spengono tutte le luci, ma l’illuminazione urbana
provvede a dare quel poco chiarore che serve a distinguere ancora i contorni
delle cose.
L’orologio segna con un ticchettio estremamente fastidioso i secondi
interminabili di silenzio che separano l’ultimo giro di serratura delle camere
dal momento in cui, con un colpo al cuore, sento chiaramente il suono di una
bottiglia sbattuta con una certa violenza sul tavolo della cucina; poi la stessa
infrangersi rumorosamente sugli altri rifiuti nel cestino della spazzatura, e
dei passi lenti, un po’ trascinati, sempre più vicini. Poi, una figura che
conosco fin troppo bene, appoggiata allo stipite della porta e illuminata solo
in un contorno impreciso dalla luce dorata dell’angolo cottura, l’unica rimasta
accesa, diventa chiaramente riconoscibile nel riflesso della vetrata. Indica la
porta della terrazza con un cenno traballante della testa. Stacco la fronte dal
vetro e abbasso la maniglia; e quel gesto mi proietta sull’interno delle
palpebre chiuse la ragione per cui, adesso, ho paura di farlo.
Le luci accecanti, i flash, l’adrenalina; il microfono che lancia la mia voce
oltre la quarta parete e riempie l’aria; e poi il movimento delle tue labbra, e
la tua voce, la voce che odi e vorresti evitare di usare, che striscia fuori
dall’amplificatore alla mia destra. I could do most anything to you –
voci, centinaia di voci di tonalità diverse che accompagnano le nostre, la
pregnanza di personalità e significato di ciascuna di esse, il numero infinito
di storie che vivono dietro quelle parole, che sono solo un riflesso delle mie
ma raccontano, a volte, anche la vita degli altri; il brivido che mi scuote il
petto non appena sento riecheggiare la prima strofa. Sono anni, ormai, che
queste emozioni mi investono, ogni volta con una forza nuova; e sono anni che
l’unico modo di non lasciarmi sopraffare è cercare sicurezza nella tua presenza.
E quando siamo lì, anche senza toccarci, anche solo sfiorandoci schiena contro
schiena, non temo più nulla – il mondo fuori, il pubblico, la morte – se non i
pensieri che mi affollano la mente, i desideri che s’insinuano prepotenti nella
mia carne e prendono a dominarmi.
Io non so perché lo faccio, Nate.
Non so perché il sorriso che mi si apre sul volto sembra causato più dall’azione
di una droga leggera che dal movimento volontario dei muscoli facciali; non so
perché il contatto del mio petto con la tua schiena non mi basta, e la testa mi
si piega sulla tua spalla, e le mani sfiorano la pelle sotto la tua camicia –
non lo so. Quello che so è che tu, oggi, mi hai spinto via come se io
volessi tutto questo, o lo facessi spinto dal mio ego prepotente, o peggio
ancora per farti un dispetto; hai concentrato, credo, in quella spinta tutta la
violenza che avevi raccolto in questi anni, in tutte le situazioni in cui la tua
pazienza mi ha quasi sconvolto, almeno un milione da quando ci conosciamo.
Brucia ancora il taglio sul dorso della mano, e pulsa il livido sul fianco; ma
più d’ogni cosa fa male il ricordo di quell’attimo di stupore, in cui non
riuscivo a chiudere la bocca, né ad alzarmi da terra, né a rendermi davvero
conto di quello che stava succedendo e che non avrei creduto potesse succedere
mai.
In slow motion, the blast is beautiful.
Non ho saputo prendere in mano la situazione, reagire bene, reagire male,
sdrammatizzare, fingere che nulla fosse successo; non ho fatto altro che fissare
il profilo del tuo viso solcato dalle gocce di sudore, delineato da una sottile
linea di luce rossa, e per quanto sia paradossale, ho capito. Più le tue mani
tremavano, più la tua fronte si aggrottava nella morsa della rabbia, più capivo:
capivo che se lo faccio è sempre, in qualche modo, in funzione di te, della
lentezza eterea dei tuoi movimenti, della tua bellezza buia, nascosta da un
milione di muri alti come grattacieli.
Doors slam shut.
Da quel momento, non mi hai più rivolto la parola; e non so se sia perché il tuo
gesto di rifiuto riflette una rabbia reale, ancora presente, o perché in
quell’istante hai letto esattamente ciò che stavo pensando.
Stringo le braccia attorno al petto, cercando di sfruttare tutte le potenzialità
del maglione di lana – in questa stagione, a quest’ora della notte e a
quest’altezza, con il vento che punge tutti gli angoli della città senza
risparmiare nessuno, non c’è da aspettarsi temperature tropicali. Nate sopporta
serenamente il tutto in maniche corte, suppongo grazie all’effetto dell’alcol;
che è anche la causa del suo barcollare e del rosso intenso di cui sono dipinte
le sue guance.
Prego Dio e tutti gli angeli del Paradiso che il tasso alcolico nel suo sangue
cominci la conversazione al posto suo, e soprattutto al posto mio. Sono
preghiere vane; restiamo in silenzio ancora per qualche minuto, finché una forza
comincia a premere prepotente dal centro del petto, verso l’esterno, tirandomi
fuori un «Nathan, per favore…» che ha le sembianze di un lamento
patetico. La risposta, d’altronde, è quasi spiazzante, e in un certo senso
deludente, nonostante il suo intento di rassicurarmi e mettermi al sicuro da
ogni disastro annunciato.
«Gary, ascolta, tu… hai ragione. Ho esagerato. Scusami.»
Qualcosa nel suo sguardo vacuo non mi convince, ma lascio che prosegua il suo
discorso, per quanto ciclico e confuso.
«Io… so che scherzi, l’hai sempre fatto, non vedo… non vedo perché reagire così
solo ora… sei una delle persone con cui ho trascorso più tempo, dovrei
trattarti… diversamente», biascica, ormai, la voce che gli trema. Si porta una
mano alla fronte. «Scusami. Sei un amico, ti voglio bene.»
Quelle ultime sei parole mi trafiggono con più violenza di un milione di dardi
infuocati; e nonostante tutto, il primo, irrefrenabile impulso è quello di
saltargli al collo e abbracciarlo fino a soffocare entrambi. «Anche io», è lo
scatto impaziente che precede le due falciate con cui attraverso i pochi metri
che ci dividono, cingo con un braccio il suo fianco e lascio cadere l’altro
attorno alla sua spalla. E penserei di aver trovato una temporanea e fittizia
felicità nel calore del suo corpo, nell’equilibrio ristabilito, se non fosse che
– ci metto qualche istante a realizzarlo – lui sta tremando.
«Ehi…» è il mio mormorio, inutile e fuori luogo, «Tutto bene?»
Un vattene sibilato fra i denti, e scosso dal tremore sempre più forte, è
l’unica risposta. E mi sembra di morire quando, per la seconda volta in una vita
e per la seconda volta in ventiquattr’ore, avverto le sue mani spingere rabbiose
su entrambe le mie spalle; tenta in ogni modo di allontanarmi, se non fosse che
questa volta io gli resisto, come in un gioco di calamite – vengo respinto, ma
riesco a non staccarmi del tutto. Faccio presa sulle sue braccia, e sforzo
talmente tanto i polsi che mi fanno male; lui spinge, con gli occhi socchiusi e
i denti stretti, ma non può metterci più forza di così, così allenta la presa.
Non mi sembra neppure di essere davvero qui; e se sto sognando, il tutto assume
le sembianze del peggiore degli incubi.
Il fiato corto per lo sforzo, non riesco neanche a parlare, nonostante abbia un
milione di domande. Lo spingo con tutta la forza che mi rimane verso il divano
di vimini in un angolo della terrazza, in modo che si sieda, e solo dopo essermi
assicurato che la sua resistenza sia del tutto cessata, faccio lo stesso.
C’è un istante lungo ore in cui Nathan fissa gli occhi nei miei, e se non fosse
impossibile, giurerei che tutto l’effetto del vino sia svanito in un solo
istante. Mi fissa con una sincerità tale che le domande che stavo per porre, le
spiegazioni che volevo chiedere, mi si sgretolano in gola nel capire che sta per
rispondermi comunque. Quello sguardo, senza il minimo preavviso, ha creato un
impercettibile campo magnetico. Il vento soffia, e porta quasi con sé le parole,
dritte contro la mia faccia.
«Dimmi solo quando è successo.» Quella frase sussurrata, ormai, non è carica di
nessuna rabbia, e somiglia più che altro a una preghiera disperata. La luce nei
suoi occhi cambia; e nell’analizzare il tono della sua voce, quasi dimentico di
captare quello che è il suo significato.
Del resto, il tempo a mia disposizione per rispondere è già scaduto.
Mi afferra il busto in un nuovo scatto furioso, infila entrambe le mani sotto la
mia maglietta; sento tutti i soli del mondo esplodermi sulla pelle, il freddo
non è più percepibile neanche volendo, e in un ultimo slancio mi ritrovo a torso
nudo, mentre la mia t-shirt a righe pende, sgualcita, dalla sua mano destra.
Inspira ed espira con un ritmo e una forza ai limiti dell’umano, e solo a un
certo punto mi rendo conto di quanto sia vicina al suo viso, e di quanto i suoi
occhi siano lucidi, pericolosamente in bilico fra il resistere e il lasciarsi
andare.
Il fiume rompe gli argini, e mi ritrovo ad annaspare in quella che è una rapida
successione di immagini, di quelle immagini di cui ti restano solo pochi flash,
e che la tua mente rimuove quasi automaticamente, quasi volesse rendersene
inconsapevole. Quella maglietta profuma di donna. Una donna di cui non so
il nome, e di cui, a dirla tutta, il profumo è l’unica cosa che mi resta.
Lo sguardo che segue mi precipita addosso come uno sciame di meteoriti.
«Gary… quando. Dimmi quando.»
Mentre tu facevi il soundcheck delle mie chitarre al posto mio, Nathan.
«Prima… diciamo, poco prima. Le sette, credo. Forse le otto. Non lo so.»
Sono preparato al peggio; eppure non reagisce. Sposta lo sguardo sulla maglietta
e allenta immediatamente la presa, come se all’improvviso tutte le finestre del
mondo si fossero spalancate su di lui, lasciandolo scoperto nel suo privato
quotidiano; ha il volto della vergogna, e sono sicuro che le sue guance non
siano così colorite solo per il vino – lo stesso vino che ha cambiato il suo
umore infinite volte da quando ha varcato la porta a vetri.
«Non che mi crei problemi», farfuglia, «Ma non voglio che… non voglio che tu
finisca nei guai, ecco. Le nostre fan non sono tutte adulte e vaccinate. Cosa
succederebbe se…»
Non smette di parlare solo perché la mia mano preme sulla sua bocca,
togliendogliene fisicamente la capacità; smette di parlare e basta. E quel
silenzio vorrei riempirlo io.
Adesso basta, Nathan. Adesso basta. Sono stanco di sentire scuse.
Socchiudo la bocca, ma non ne esce alcun suono; forse ho paura di coprire il
rumore del suo respiro.
Non ti è mai interessato che cosa facevo a letto, e non ti riguarda neanche
ora. Sfioro il suo braccio con le punte delle dita; sembra, lo giuro, che il
tempo si sia fermato, per confluire solo nelle punte delle mie dita.
Quand’è che mi dirai la verità? Quand’è che smetterai di ostentare e fingere?
La pelle della sua nuca sussulta nel collidere con le mie labbra, e Dio solo sa
quanto è dolce il suo sapore; le sue braccia sono i tasselli mancanti delle
pieghe della mia schiena, le sue dita s’incastrano perfettamente nei miei ricci,
la sua bocca cerca la mia come se fosse il nutrimento, l’acqua, l’unica cosa di
cui ha bisogno per vivere. Vivi, Nathan. Vivi.
Amare non significa necessariamente trovare pezzi di sé.
Non necessariamente, ma a volte sì.