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Autore: OokamiSpirit    13/11/2011    3 recensioni
"Chi sei?”.
Joker sorrise divertito, e puntellandosi alla parte imbottita con la schiena si alzò in piedi “Io… sono l’animatore, il giocoliere…” parlò lentamente scandendo le parole “…il folle”
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harley Quinn aka Harleen Quinzel, Joker aka Jack Napier
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Joker&HarleyQuinn

 
 

Capitolo 1. Maschere

 
Finalmente era passato anche quel giorno. Harleen si lasciò cadere sul letto, la tracolla piena di scartoffie scivolò a terra con un tonfo soffocato.
Guardò il suo piccolo orologio da polso, erano già le 22.30. Stancamente si trascinò in cucina dove cominciò a mangiare svogliatamente degli avanzi del giorno prima “Questo lavoro si sta facendo sempre più pesante…” pensò tra sé e sé. L’occhio le cadde sul giornale comprato la mattina e non ancora aperto “Batman continua la sua veglia. Fuorilegge o alleato?” erano queste le parole a lettere cubitali stampate sulla prima pagina. La ragazza lo lanciò da una parte sbuffando. Con il Joker in prigione ora Gotham City dormiva sonni tranquilli, e Batman continuava ad agire nella notte con l’unica preoccupazione di sfuggire alla polizia.
Finito di mangiare mise nel lavello i piatti sporchi per poi tornare alla sua camera da letto, che ormai fungeva anche da studio. Harleen fece scorrere lo sguardo sulle pile di fascicoli accuratamente disposte per nome, e per un attimo fu presa dallo sconforto. Le persone a lei affidate in cura aumentavano sempre di più, e il lavoro che prima la entusiasmava tanto, ora le pareva solamente un noioso lavoro senza uno scopo preciso. La maggior parte dei criminali da lei visitati erano tutti accomunati da una mentalità uguale, con unico pensiero fisso la vendetta. Il suo lavoro consisteva nello studiare la psiche di pericolosi criminali, e, se possibile, curarli.
Ma in quel momento per la ragazza c’era solo un soggetto che poteva dimostrarsi completamente diverso da ogni altro caso capitatogli tra le mani. Il Joker.
Era da qualche mese ormai che lavorava nel carcere dove lui era rinchiuso, ma non gli era stato assegnato, e nessuno aveva l’autorizzazione ad avvicinarsi alla cella. Lasciò cadere quei inutili pensieri, e dopo essersi infilata una leggera vestaglia si coricò.
 
La mattina dopo si svegliò con una strana idea in mente. Scosse la testa e cercò di distrarsi facendo colazione in fretta e pensando a come vestirsi, cose che normalmente non la preoccupava minimamente. Si infilò una canotta blu e una gonna nera che le arrivava a metà coscia, mettendosi sulle spalle il solito camice bianco con il cartellino completo di nome e professione che le permetteva di girare indisturbata per il carcere. Prese la sua agendina per vedere chi avrebbe dovuto vedere quel giorno e vide con stupore che aveva solo due clienti. Inevitabilmente il pensiero che aveva cercato di evitare da quando era sveglia le tornò in mente. Si mordicchiò un labbro, poi velocemente si mise al computer. Aprì l’ultima mail ricevuta: il permesso di visitare un criminale abbastanza pericoloso. Cominciò a modificarla e al posto del nome dell’uomo a lei affidato ne inserì un altro. Joker. Stampò e senza neanche pensare a quello che stava facendo piegò il foglio e lo mise nella tracolla. Così prese la macchina e si avviò.
 
Una volta arrivata si dedicò ai due uomini che le toccavano quel giorno, anche se continuava ad essere preoccupata per quello che aveva fatto o che stava per fare. Mai aveva mentito sul lavoro e se l’avessero scoperta probabilmente non l’avrebbe passata liscia.
Guardò l’orologio da polso. Mezzogiorno. Si alzò dalla sedia, il carcerato seduto su una panca dall’altra parte della cella, un piede incatenato a terra per impedirgli di avvicinarsi a eventuali visitatori. Si congedò e con passo svelto percorse quei corridoi ormai imparati a memoria, finchè non ne raggiunse uno, con metà delle celle occupate lì presenti. Sul fondo si stagliava una porta completamente bianca, ai lati due guardie controllavano che nessuno si avvicinasse senza permesso.
Harleen si fermò un attimo, poi riprese a camminare con passo sicuro ma con il cuore in tumulto, deglutì nervosamente e allo stesso tempo il suo volto non mostrava alcuna emozione.
“Chi siete e cosa volete? In questa zona è interdetto il passaggio di chiunque!” avvertì una guardia abbassando la mano alla fodera della pistola attaccata alla cintura. La ragazza con voce inespressiva rispose: “ Mi chiamo Harleen Quinzel e molti dei detenuti in questo carcere sono stati affidati a me già da qualche mese. Il carcerato oltre quella porta mi è stato assegnato ieri sera, questo è l’attestato e l’autorizzazione ad entrare” detto questo frugò nella tracolla ed estrasse il foglio truccato porgendolo ai due. Le guardie lo esaminarono un attimo poi glielo restituirono. Una delle due prese un mazzo di chiave e cominciò a sbloccare la porta, dopo un minuto circa la aprì “Feccia, oggi hai visite…” poi rivolgendosi alla donna “Mi raccomando, faccia attenzione. Se è in una cella come questa c’è un motivo..”. Harleen ringraziò per l’avvertimento poi entrò. La stanza era completamente spoglia e bianca, le pareti imbottite e appoggiato al muro seduto a gambe incrociate per terra c’era lui, l’uomo che aveva fatto passare a Gotham City i giorni di peggiore paura nella storia della città. Ora si trovava davanti a lei, schiena ritta, gli arti superiori bloccati da una maglia di forza. La cosa che più la colpì però era il volto: non un accenno di rabbia, o della tipica disperazione dei pazzi carcerati intaccava quel viso dal trucco sfatto. Finalmente era faccia a faccia con lui. Con il Joker.
 
“Buongiorno…” la voce dell’uomo era pacata ma allo stesso tempo con una leggera venatura di ironia “… O buona sera, mi dispiace ma in questo posto è difficile capire che ore sono”.
Harleen fece qualche passo, sedendosi anche lei per terra senza distogliere lo sguardo dal suo, sentendosi come ipnotizzata. Si riscosse e prese un blocchetto dalla borsa poi si rivolse a Joker: “Il mio nome è Harleen Quinzel, e per qualche giorno dovrò venire a trovarla per scambiare due parole.
Lei cominciò a fargli le domande che faceva di solito ad ogni detenuto, tipo come si sentiva e cose simili, e rimase stupita nel vedere che il Joker rispondeva senza esitazione e anzi, sembrava quasi annoiato. “Perché continuare con queste domande da strizzacervelli? Tu non sei qui per questo. Tu sei qui per chiedermi altro…” La interruppe il Joker con voce seria, poi sistemandosi meglio sul posto muovendo un po’ le spalle continuò “…Forza tanto io conciato come sono non potrei farti comunque niente, neanche se volessi” poi come per sottolineare le sue parole si guardò le maglia di forza che gli impediva la maggior parte dei movimenti.
Era incredibile. Non solo riusciva a mantenere un comportamento al di sopra di tutti, ma dalle risposte che dava sembrava essere lui a stare studiando lei. Harleen si sentì per un attimo impaurita poi riprese il suo autocontrollo e disse: “Bene. Allora… Non si conosce nulla di te. Chi sei?”.
Joker sorrise divertito, e puntellandosi alla parte imbottita con la schiena si alzò in piedi “Io… sono l’animatore, il giocoliere…” parlò lentamente scandendo le parole “…il folle” Cominciò a camminare attorno a lei, senza tuttavia avvicinarsi troppo.
“Io sono tutto quello che gli altri negano di essere” poi goffamente si risedette di fronte e lei e umettandosi le labbra si sporse un po’ in avanti “Sono anche te”. Poi tornò ad appoggiarsi alla parete in attesa di un'altra domanda senza spostare lo sguardo dagli occhi di Harleen.
La ragazza prese nota di ogni singola parola anche se sapeva che non serviva, quelle parole sembravano incidersi a fuoco nella sua mente.
Continuò a fare domande cercando di capire cosa stesse passando per la mente del suo paziente. Era giusto chiamarlo così? Non credeva. Da quando aveva cominciato ad esaminarlo era lei a sentirsi osservata, studiata, valutata.
“Suvvia, c’è altro che volete chiedermi, ve lo si legge negli occhi,  sarò rinchiuso qui dentro ma non sono cieco…” aveva pronunciato le parole sicuro, ma con aria indifferente, inclinando appena il volto a destra.
La ragazza deglutì sentendosi la gola stranamente secca poi raddrizzando la schiena chiese: “Ricordate qualcosa della vostra infanzia?”.
Quella volta il Joker non rispose subito, un’ombra oscurò per un attimo gli occhi, ma sparì così come era apparsa.
Guardò il soffitto con aria pensierosa poi con voce strascicata disse: “Oh si che la ricordo. Ma in verità voi volete sapere delle cicatrici non è vero? Bene… queste… cicatrici” pronunciò l’ultima parola con un misto di disprezzo e soddisfazione “sono il frutto di una gentilezza fraintesa, sprecata. Sapete… Mia madre piangeva sempre, piangeva perché i soldi non bastavano, piangeva perché mio padre la picchiava. Oh si, la picchiava spesso, ma verso di me invece non alzava un dito. Diceva che… non ne valeva nemmeno la pena” fece una pausa un sorriso appena accennato sul volto che Harleen non riuscì ad interpretare “Così venne il giorno del mio compleanno, mia madre mi preparò una festa, ma nessun bambino volle venire, così eravamo io, lei e un clown… fece ridere entrambi. Ma la mattina dopo rividi mia madre dormire con la testa sul tavolo della cucina, in mano una bottiglia di liquore. Se lei non riusciva a ridere l’avrei fatto io per lei. Così presi un coltello e me lo misi in bocca” mentre parlava si mosse come per portare una mano al volto, ma la maglia di forza gli impedì il movimento. Guardò stizzito le cinghie che lo bloccavano poi tornò a fissare la sua interlocutrice “me lo mi si in bocca e bastarono due colpi veloci. E avrei sorriso per sempre. Ma non ottenni l’effetto sperato. Mia madre quando mi guardò in faccia non mi riconobbe, anzi gridò tirandomi contro la bottiglia. La vidi salire in macchina e non la vidi più tornare”.
Harleen sembrava sul punto di dire qualcosa ma l’uomo davanti a lei la precedette: “Oh no non dica che le dispiace. Io sono contento così. Ora continuo a sorridere… sempre” accompagnò quell’ultima frase con una leggera risata.
Rimasero entrambi in silenzio per qualche secondo poi si sentì aprire la finestrella della porta blindata “Il tempo è scaduto, signorina deve uscire”.
“Allora… arrivederci” la salutò il Joker poco prima che lei uscisse dalla cella.
 
Lui lo sapeva già. Sapeva che sarebbe tornata.
 
Tornò a casa che erano le 15.00 del pomeriggio, non aveva pranzato ma la fame era l’ultima cosa a cui pensava in quel momento. Con le mani tremanti impiegò qualche minuto ad aprire la porta di ingresso, chiudendola frettolosamente una volta entrata. Si sedette per terra cercando di placare il battito accelerato del cuore.
L’aveva visto. Ci aveva parlato. Aveva mentito per farlo.
Stranamente non si sentiva in colpa, anzi si sentiva soddisfatta e si promise che non sarebbe tornata nella sua cella. Così riacquistata la tranquillità si alzò e messi al proprio posto tracolla e appunti, si diresse verso la doccia.
L’acqua calda le scorreva addosso, premendo sui muscoli tesi. Dopotutto ascoltare il delirare dei pazzi era stressante.
 
Restò sotto la doccia per un’oretta buona, fino a quando lo squillo del telefono non la costrinse ad uscire dal bagno. Coperta solo da un asciugamano bianco saltellò in punta di piedi nel corridoio dell’appartamento, ma non fece in tempo a rispondere che il telefono smise di squillare. Imprecò a bassa voce poi tornò ad asciugarsi. Si pettinò e perse mezzora a provare ogni singolo vestito in suo possesso. Quella sera la attendeva una cena importante con l’uomo più ricco e conosciuto nel mondo. Bruce Wayne.
Quella cena era di fondamentale importanza per trovare i fondi necessari alle ricerche e studi della medicina.
Alla fine optò per un tailleur nero leggermente scollato e senza maniche.

  
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