16.
Il secondo giorno di lotta
non fu differente dal precedente, e fiumi di sangue si mescolarono alla terra e
all’erba schiacciata dal passaggio dei soldati, o falciata dai colpi degli
zoccoli dei cavalli.
Le fauci dei lupi giungevano
laddove il braccio delle donne-lupo non poteva, mentre le spade di Enerios
fendevano l’aria ricca dei profumi del bosco in fioritura.
Nargan, racchiuso da una
bolla protettiva offertagli dai suoi migliori soldati, osservava inquieto e
nervoso l’evolversi della battaglia.
Nella sua mente non aveva
ancora chiaro come procedere di fronte a quello schieramento così eterogeneo di
forze ma che, a conti fatti, lo stava tenendo sotto scacco con indubbia
bravura.
Con il duplice apporto delle
donne-lupo e delle figlie sacre, Aken aveva annullato il vantaggio di Nargan,
offertogli dai suoi cavalieri e dalla sacra stirpe di Hevos, su cui lui aveva contato
per eliminare alla radice qualsiasi resistenza da parte di coloro che aveva
deciso di conquistare.
Per colpa di Aken, invece,
ora doveva fronteggiare un esercito esperto e agguerrito, non sparute squadre
di guardie forestali di confine.
Scioccamente, il Re di
Vartas lo aveva creduto morto tra le acque del Fenar, invece la piccola lupa
dai capelli d’oro che viaggiava con lui era riuscita in qualche modo a
salvarlo, consentendogli di predisporre quel nutrito esercito per fermarlo, ed
ora non sapeva come procedere.
Invece di una guerra-lampo,
vinta con facilità e pochissimo dispendio di energia, ora si prospettava una
snervante quanto incerta lotta senza esclusione di colpi, di cui non poteva
prevedere l’esito finale.
Avrebbe dovuto eliminarlo di
persona a suo tempo, nel Cono del Silenzio, invece di giocare al gatto col topo
contro il nemico sbagliato.
Irritato, Nargan fissò il
campo di battaglia gremito di soldati mescolati tra loro in un miasma purulento
di corpi aggrovigliati tra loro e, parlando al suo aiutante di campo senza mai
distogliere lo sguardo dalla lotta, disse: “Dovete uccidere il principe Aken a
tutti i costi. Ucciso lui, l’esercito si sfalderà come un castello di carte.”
“Non è facile, sire. Due
figlie sacre sono sempre accanto a lui e, anche se così non fosse, il principe
è abile, con la spada” replicò l’ufficiale, timoroso di incorrere nelle ire del
proprio re.
Digrignando i denti, Nargan
ringhiò: “Quel maledetto ha stretto patti con tutte le figlie sacre della
montagna, forse?! Uccidetelo! Non mi interessa come, ma voglio il suo sangue su
quella radura!”
“Parlerò coi comandanti
delle coorti” annuì l’uomo, allontanandosi da Nargan con passo lesto e a testa
bassa.
Stringendo le redini del
cavallo su cui sedeva con piglio rigido, Nargan sibilò tra i denti: “Avrò il
tuo sangue, in un modo o nell’altro, Aken. Non ti permetterò di vanificare così
i miei sforzi!”
***
Accorrendo nella strada
principale del villaggio, quando videro arrivare un paio di carri su cui si
trovavano le donne di ritorno dal fronte, Eikhe e le sue compagne osservarono
sgomente le pesanti ferite delle loro sorelle.
Avanzando velocemente – per
quanto glielo consentisse la gravidanza – si affiancò al carro ed esalò
sgomenta: “Cos’è successo?”
La donna che guidava il
carro, una guerriera di circa cinquant’anni, le disse stancamente: “Ci hanno
attaccate sul fianco sinistro dell’esercito con frecce incendiarie. Sono stati
dei veri pazzi, a usarle in mezzo a un bosco. Ne hanno bruciato diversi acri.”
“Che idioti” esalò Eikhe,
aiutando a scendere dal carro una donna ferita a una gamba. “Le fasciature
vanno cambiate. Sono zuppe di sangue.”
“Beh, di certo non me le
cambierai tu, razza di animale!” le ringhiò contro la donna, scostandola di
malagrazia.
Impreparata a quella spinta,
Eikhe caracollò all’indietro fino ad aggrapparsi al carro con espressione
turbata e sgomenta insieme e, senza capire, esalò: “Ma cosa ti ho fatto?”
“Sei una bestia come le altre, e io non voglio avere
niente a che fare con te!” esclamò la figlia del branco, andandosene
claudicante insieme a una sua compagna.
Fissando senza capire la
guidatrice del carro, la sentì dire a mo’ di spiegazione: “E’ stata ferita da
una delle figlie sacre che combattono per Vartas.”
“Figlie sacre!” le ritorse
contro la donna in questione, voltandosi a mezzo per fissare Eikhe con
disprezzo. “E’ uno spregio, degnarle di un titolo simile! Sono solo belve
sanguinarie! Le Guardiane dovrebbero avere il potere di ucciderle appena nate,
come era stato proposto ai tempi del Massacro di Eskit!”
“Smettila, Evena! Non devi
permetterti di parlare a questo modo! Sai benissimo che la legge parla chiaro!”
le ritorse contro la conduttrice del carro.
“Kilana, non venirmi a dire
cosa dice la legge, perché lo so benissimo!” sbuffò Evena, accigliandosi
ulteriormente. “Quel che non concepisco è che quella ragazzina se ne stia lì,
col suo pancione in bella vista, senza aver ricevuto la punizione dovuta a chi
infrange le regole!”
Reclinando il capo, Eikhe
cercò di non dire nulla ma Evena, di tutt’altro avviso, le si avvicinò rabbiosa
e le sputò in faccia con rabbia: “Perché nessuna di noi sa chi è il padre del
tuo bastardo?! Cos’hai da nascondere?!”
Spalancando gli occhi a
quelle parole, Eikhe assottigliò le iridi dorate e, puntandole sul volto aggrottato
di Evena, sibilò: “Non ti permetto di parlare a questo modo della mia creatura,
né di offendere suo padre. Le ragioni per cui taccio devono interessare solo a
me e, quanto alla punizione di cui vai blaterando, penso che queste siano più
che sufficienti a placare il tuo bisogno di sangue!”
Detto ciò, mise mano agli
alamari della tunica che indossava e, dopo averla fatta scivolare dalle spalle,
si volse per mostrare la sua schiena alla donna.
Sollevato l’orlo della
camiciola di lino, mostrò con orgoglio ciò che essa nascondeva.
Rosse striature rigonfie e grandi
come un dito segnavano la pelle come corde sigillate nella carne, dodici
nerbate fresche e pulsanti che dichiaravano senza bisogno di parole quanto la legge fosse stata rispettata.
Con voce resa tesa dall’odio
malcelato che provava, Eikhe sbottò aspra: “Ti sembrano abbastanza, o devono
farmene delle altre?”
Evena non parlò, fissando
con mani tremanti quei segni scarlatti sulla sua giovane pelle.
Scendendo d’un balzo dal
carro, Kilana sistemò in silenzio la camiciola di Eikhe, mentre lei aggrottava
la fronte al passaggio del lino sulle ferite ancora fresche e doloranti.
Guardando con cupo cipiglio
le donne presenti, Kilana dichiarò a gran voce: “Chi di voi vuole infierire
ancora sulla figlia sacra, sappia che avrà da ridire con me. A voi, forse, non
interessa che Eikhe sia innanzitutto una ragazza in procinto di diventare
madre, ma a me sì. E la prima che troverò a ingiuriarla, assaggerà la mia spada!”
“Kilana!” ansò sorpresa
Eikhe, fissandola a occhi sgranati.
Sfiorandole una guancia con la
mano irruvidita da anni di lavoro con la spada, la donna si limitò a chiederle:
“Chi te le ha fatte, Eikhe? Non può essere stata Kaihle. Sono troppo recenti, e
lei manca da casa da più di un mese e mezzo.”
Scuotendo il capo, Eikhe replicò
mesta: “Non importa, Kilana. Se è il prezzo da pagare per non perdere il
bambino, lo accetto volentieri.”
Arcuando un sopracciglio,
Kilana borbottò contrariata: “Avrebbe voluto farti abortire… così avanti con la gravidanza?”
Sospirando, Eikhe scosse nuovamente
il capo, preferendo non parlarne in mezzo alla strada, sotto lo sguardo di
tutte.
“Non ne parliamo, ti prego.”
Aggrottando pericolosamente
la fronte, Kilana la rispedì a casa con la promessa che avrebbero parlato in
privato.
A quel punto, si volse per
occuparsi delle donne ferite e disse aspramente: “Ora vediamo di sistemarvi, e
non una parola su Eikhe, o finirò il lavoro dell’esercito di Vartas.”
Nessuna ebbe il coraggio di
contraddirla.
Kilana impiegò più di tre
ore per curare tutte le donne di ritorno dal fronte, prima di poter uscire
dall’ultima casa dove aveva prestato il suo servizio di medico.
A passo lento, quindi, si
diresse verso la capanna di Eikhe con il chiaro intento di parlarle.
Non le era affatto piaciuto quello
che era venuta a sapere, e doveva andare a fondo della questione per poter
avvisare chi di dovere.
Dopo aver bussato, Kilana
trovò Eikhe semidistesa su un divano coperto di pellicce, il ventre reso evidente
dalla tunica aperta sul davanti.
Sorridendo, le disse con un
risolino: “Sembri una palla.”
Ridacchiando, Eikhe smise un
momento di passare un unguento ammorbidente sulla pelle tesa del ventre.
“Accomodati pure, Kilana. Finisco
e sono da te.”
“Fai pure con comodo. Non mi
disturba vederti mentre ti prendi cura del tuo corpo” dichiarò Kilana,
sedendosi su una poltrona accanto al divano.
Ammiccando, Eikhe proseguì
passando l’unguento sulla pancia con mano gentile, prima di interrompersi
quando il bambino le calciò in corrispondenza dell’ombelico.
Ridendo sommessamente, la
ragazza fece cenno a Kilana di avvicinarsi e, piano, disse: “Senti come tira
calci.”
Sfiorando il ventre caldo
della ragazza, Kilana ridacchiò all’ennesimo colpetto sottopelle.
“Potrebbe sfondarti la
pancia, di questo passo.”
“Spero di no!” esalò Eikhe,
canticchiando piano e avvicinando il viso al suo ventre prominente.
Subito, il bambino smise di
calciare ed Eikhe, sospirando, mormorò: “Ama questa canzone. Si calma sempre,
quando la canto, anche se parla di guerre e di uccisioni. Valli a capire, i
bambini.”
“Dalla sua forza, e dalla
forma della pancia, direi che è un maschio” mormorò Kilana, aggrottando la
fonte preoccupata. “E anche bello grosso. Tu, invece, hai fianchi così snelli
che...”
“Non mi interessa” sbottò
bonariamente Eikhe, bloccando le sue preoccupazioni con un gesto della mano. “E’
mio figlio, non devo sapere nient’altro. Vedrai che in qualche modo faremo, io
e lui. E, visto che non posso mandarlo dal padre, lo crescerò io. Anche senza
il consenso di mia madre, o della tribù. Ho la benedizione di Hevos, e non mi
interessa altro.”
Impallidendo, Kilana esalò:
“L’hai … incontrato?”
Annuendo, Eikhe ripensò a
quei momenti nella foresta, quando le era sembrato possibile persino rimanere
per sempre al fianco di Aken.
“Sì, e ha visto il padre di
mio figlio, benedicendo anche lui. A me non occorre sapere altro.”
Sospirando, Kilana tornò a
chiederle: “Chi ti ha fatto quelle ferite? Spero non Tyura.”
“No, lei non ne sapeva
niente. Me le ha fatte Narhu, quando mia sorella si è recata a Marnha per alcune
commissioni. Mia madre le disse di occuparsene, mentre lei era impegnata al
fronte” spiegò Eikhe, tranquilla, le dita che tamburellavano ritmicamente sulla
pelle tirata dell’addome rotondo.
“E tu non ti sei rifiutata?”
esalò Kilana, vagamente sorpresa.
“Che dovevo fare? Mettere
nei guai Narhu, e solo perché eseguiva un ordine?” replicò Eikhe, scuotendo il
capo. “Kilana, posso sopportare più dolore di quanto voi tutte non crediate,
quando ho qualcosa da difendere. Certo, dopo ho pianto per ore, quando
l’effetto dei poteri di Hevos è svanito, e Tyura ha piagnucolato come una
fontana, quando mi ha dovuto curare le ferite, ma ho ancora mio figlio, e tanto
mi basta.”
Sospirando, Kilana scosse il
capo, dispiaciuta e irritata.
“Un episodio isolato non può
costarvi così tanto. Meritate a pieno titolo la nomea di figlie sacre, anche
solo per il dono che portate nel vostro sangue. Ciò che successe a Eskit fu una
disgrazia, ma la colpa non avrebbe dovuto ricadere unicamente su Luesrea.
Uccidere il suo bambino fu un errore delle sue sorelle.”
“Kilana, la maggior parte
delle donne ha paura di noi. E la paura genera odio. Loro ricordano solo la
furia di Luesrea, non ciò che la generò, quindi io e le altre rimaniamo, e
rimarremo, solo bestie, ai loro occhi” replicò fatalista Eikhe, sorridendo un
attimo dopo, quando Liar si mise a strusciare il muso contro la sua pancia.
“Pare gli piaccia” sorrise
Kilana, osservando il lupo mentre, con gesti teneri, accarezzava il ventre della
padrona con il musetto morbido.
“Piace a tutto il branco. Se
non avessi il loro appoggio e quello delle mie amiche, non so come farei ad
arrivare alla fine della gravidanza” sospirò Eikhe. “Ormai ho la schiena a
pezzi, e non sono ancora entrata nel settimo mese di gravidanza. Non fosse per
le ragazze, che mi danno una mano in tutto, a quest’ora avrei già abortito
spontaneamente, temo.”
“Beh, io ora sono qui, e
avrai anche me, al fianco” asserì con veemenza Kilana. “Per almeno un mese non
dovrò più presentarmi sul fronte, perciò mi avrai a tua completa disposizione.”
“Come procede la battaglia?”
chiese a quel punto Eikhe, fissandola turbata.
“Direi bene. Sono settimane che
continuiamo a rintuzzare gli attacchi di Vartas e, tra le loro fila, serpeggia
già il malumore. Nessuno di loro si aspettava che fossimo così preparati a
combatterli, e Nargan pare alquanto disgustato dalla faccenda” spiegò Kilana,
con un sogghigno.
Liar abbaiò soddisfatto,
scodinzolando giulivo mentre osservava Kilana con interesse.
“I principi stanno bene?” si
informò Eikhe, tentando di non mettere troppa enfasi nella sua voce.
Era più che sicura che
avrebbe avvertito un dolore al cuore, se ad Aken fosse accaduto qualcosa, ma
preferiva saperlo dalla bocca di una persona fidata.
L’intuito, spesso, poteva
essere foriero di falsi presagi di sventura.
“Sì, sono entrambi in salute”
annuì Kilana. “Combattono sempre uno a fianco dell’altro, e non si mollano un
secondo. Una decina di giorni fa, quando siamo partite per venire qui, avevano
quasi accerchiato la guardia privata di Nargan.”
“Non mi stupirebbe se il
principe Aken volesse tagliargli la testa personalmente. L’ultima volta che lo
abbiamo incontrato, non è stato la quintessenza della cortesia” dichiarò Eikhe,
con un sogghigno.
Si immaginò Aken in sella al
suo stallone da guerra, la spada levata sopra il capo fiero, e il suo urlo
possente librarsi nell’aria a dichiarare i suoi intenti bellicosi.
“Posso crederci! E, forse, è
proprio per questo che il principe sembra così determinato ad ammazzarlo di sua
mano” commentò Kilana, ridacchiando.
“Ha visto i suoi uomini
venire massacrati sotto gli occhi, senza poter far nulla per salvarli…” mormorò
Eikhe, rammentando con l’amaro in bocca quella battaglia impari. “… lo farei
anch’io, onestamente.”
Aggrottando la fronte,
Kilana le chiese: “Cos’è successo, quella volta?”
“Fui costretta a trascinarlo
via a forza, per salvarlo, e ci gettammo nel fiume per sfuggire a Nargan. Non
fu davvero un bel momento” spiegò succintamente Eikhe, reclinando il capo a
fissare il suo ventre prominente.
Immediatamente, il suo cuore
si chetò, liberando in tutto il suo corpo pace e tranquillità. Ne aveva così
bisogno!
“Immagino…” annuì torva
Kilana, prima di aggiungere: “… se continuano così, riusciranno a sconfiggere
Vartas prima della nascita del bambino.”
Impallidendo leggermente,
Eikhe asserì: “Da un certo punto di vista, preferirei di no. Se mia madre non
ci fosse, sarei più tranquilla.”
“In ogni caso, lei tornerà. Ha
già dato disposizioni in merito, qualora le cose si prolungassero più del
dovuto” la avvertì Kilana, accigliandosi.
“Lo temevo…” sospirò Eikhe.
“… mi assisterai, durante il parto?”
“Sì, figlia sacra. Sarò la
tua spalla” annuì Kilana, con un elegante gesto del capo.
“Grazie” sussurrò la ragazza,
allungando una mano per stringerla nella propria.
Sperava davvero di non
averne bisogno ma, con sua madre, non poteva davvero sapere.
L’importante, per il
momento, era avere la certezza che sia Aken che Ruak stavano bene. Null’altro
le interessava.
***
Una pioggia scrosciante si
era abbattuta sulla piana dei combattimenti, e il fango ora ricopriva i prati
calpestati dai soldati, insieme al sangue mescolato con l’acqua melmosa.
Tuoni fragorosi rimbombavano
funesti sulle loro teste mentre, a fasi alterne, scoppi di grandine crollavano
su di loro costringendoli a ritirarsi tra il fitto del bosco.
Anche il tempo infernale ci
si metteva a complicare, e allungare, quella maledetta guerra!
Combattere con simili
condizioni meteorologiche era pressoché impossibile, sia per loro che per
Vartas.
Fermo accanto al fratello,
al riparo degli abeti della foresta, in trepidante attesa che quel maledetto
temporale scemasse a sufficienza per far riprendere i combattimenti, Aken mormorò
fosco: “Ci mancava solo questo tempo allucinante. Quando smetterà, sarà come
cercare di camminare nella melassa.”
“Non ci tengo proprio a
ricominciare in quel macello” storse il naso Ruak, dondolando le braccia con
aria indolente mentre, con lo sguardo, osservava irritato il campo di battaglia.
Il tutto era ormai ridotto a
uno sfacelo indistinguibile di terra, fango, pietre e corpi martoriati.
Guardandolo curiosamente, e
cercando nel contempo di non pensare a ciò che li avrebbe aspettati una volta
terminato quel fortunale, Aken abbozzò un sorrisino prima di dire: “Sembri
annoiato.”
“Non proprio; sono stanco di
ruzzolarmi nel fango, nella polvere, nella melma, in mezzo ai cadaveri, e solo
perché quell’idiota di Nargan non si rende ancora conto di avere già perso. Le
sue forze sono ormai decimate, gli uomini demoralizzati, eppure lui non vuole
cedere” sbottò Ruak, disgustato.
“Che vuoi che ti dica?
Nargan non ha mai brillato per intelligenza” replicò il fratello maggiore,
prima di scrutare le nuvole in cielo.
Ribollendo nel cielo, come
smosse da enormi mani demoniache, si stavano allontanando da loro, spostandosi
verso sud.
Nel giro di poche ore, forse
già nel primo pomeriggio, avrebbero potuto riprendere i combattimenti, ma non
sapeva se gioirne o meno.
Anche lui era stanco di
quella guerra assurda, stanco di veder morire compagni e animali, stanco di
sentire il cozzare delle spade e lo sfrigolare dei fuochi delle frecce
incendiarie, stanco di non poter dire la parola ‘fine’ a quel delirio.
Sospirando, Aken si volse a
mezzo per richiamare l’attenzione delle due figlie sacre che, come ombre, li
avevano seguiti fin da quando avevano stretto un patto con Kreathe ed Esteria.
Non appena Liase e Vesthe
furono accanto a loro, disse: “Dite alle vostre compagne di tenersi pronte. Nel
giro di poche ore, il fronte della tempesta si sarà spostato a sufficienza
perché quelli di Vartas ricomincino a menar le mani, perciò vi voglio già
pronte e inferocite.”
Vesthe ridacchiò e dichiarò
divertita: “Oh, non abbiamo bisogno che tu ce lo dica, principe. Siamo
inferocite a priori. Per colpa di quel folle di Nargan, abbiamo perso un sacco di tempo, e di
compagne. Non passerà di qui neppure tra un secolo.”
Abbozzando una risatina,
Aken commentò: “Lieta di sentirtelo dire, Vesthe.”
Ammiccando, la donna scrutò
il cielo e disse: “Hai letto bene il cielo, principe. Chi ti ha insegnato così
bene?”
“Una tua sorella” sorrise il
principe.
“Oh, allora è per questo che
sei così esperto! Le farò i miei complimenti, quando la vedrò. Il suo nome?”
chiese allora Vesthe, curiosa.
“Si chiama Eikhe, ed è del
villaggio di Nestar” le spiegò Aken, prima di aggiungere: “Qualora dovessi
incontrarla, le daresti un messaggio da parte mia?”
“Quel che vuoi, principe”
scrollò le spalle Vesthe.
“Dille che le auguro ogni
bene, e la ringrazio per ciò che ha fatto per Enerios” si limitò a dire Aken,
sperando che Eikhe potesse capire quanto
non poteva dirle.
Annuendo, la donna si mise
sull’attenti e dichiarò: “Ricevuto, principe. Fai conto io gliel’abbia già
detto. Ora, andiamo dalle nostre compagne a riferire il messaggio. Voi due non
muovetevi da qui.”
Ruak non poté che scoppiare
a ridere.
“Adoro farmi dare degli
ordini da una donna così affascinante!”
A quel punto intervenne
Liase, rimasta in silenzio fino a quel momento, e celiò ilare: “E io adoro gli
uomini che si fanno comandare a bacchetta!”
Aken scoppiò a ridere
assieme al fratello, mentre le due figlie sacre si allontanavano di corsa,
quasi galleggiando sull’erba bagnata.
Era impossibile non notare
la loro leggiadria, davvero impossibile.
Ammiccando al fratello, Ruak
domandò: “Chi l’avrebbe mai detto che mi sarebbe piaciuto avere le spalle
coperte da una donna?”
“E’ più piacevole di quanto
tu non immaginassi, eh?” chiosò Aken, osservando le loro due guardie del corpo
mentre, con ampi gesti e gran parlare, spargevano la voce tra le sorelle del
loro esercito.
Tornando serio, Ruak si
guardò intorno, scrutando i soldati, l’accampamento, gli animali da tiro e i
cavalli da guerra.
“Mi sono fatto un’idea molto
romantica della guerra, negli anni e, quando ho saputo che avrei potuto
partecipare alla campagna contro Vartas, ne ero felice, in fondo al cuore.”
Aken si volse a guardarlo, cercando
di comprendere dove volesse andare a parare il fratello.
“Ora, so di aver non solo
sbagliato, ma di essere stato superficiale. Non c’è nulla di poetico nello
stroncare una vita, né niente di appassionante nel partecipare a una battaglia.
I cantori ne decantano le bellezze eroiche solo perché non l’hanno mai vissuta
sulla pelle, ma ora ho compreso quello che le canzoni non dicono mai.”
Scrutando le sue mani libere
dai guanti, Ruak scorse solo piaghe, vesciche da poco guarite, tagli e lividi
violacei, davvero nulla di poetico.
Battendogli una mano sulla
spalla, Aken gli sorrise orgoglioso e disse: “Pensavo fosse troppo presto, per
te, partecipare a una guerra, ma sbagliavo. Sei maturato tantissimo, e in breve
tempo, e io sono fiero di averti al mio fianco, fratello mio.”
Aprendosi in un sorriso,
Ruak si limitò ad annuire, forse troppo imbarazzato per mettere a parole
quanto, ciò che il fratello maggiore gli aveva appena detto, lo rendesse
felice.
Lui era sempre stato il suo
modello da imitare, molto più del padre, che gli aveva dispensato ben poco
affetto, e molti più ordini di quanti avesse mai amato seguire.
Non che re Arkan non amasse
i suoi figli, Ruak non lo aveva mai pensato ma, semplicemente, non era mai
stato un uomo amorevole, o una persona cui piacesse esternare i propri
sentimenti.
Il governo del Regno aveva
la sua piena attenzione, tutto il resto veniva sempre e comunque dopo, sua moglie
e i figli compresi.
Non era del tutto sicuro che
sua madre Anladi fosse lieta di quell’unione, giunta in fretta e furia subito
dopo la morte della precedente regina e madre di Aken.
Il suo corpo non era stato
tumulato, e le esequie terminate, che la madre era stata data in moglie ad
Arkan.
La discendenza del Regno non
poteva contare su un unico erede di poco meno di otto anni, avevano detto all’epoca.
Questo aveva condotto la sua
giovane madre, poco più che sedicenne, a sposare un uomo già maturo e duro di
carattere.
Loro erano nati a distanza
di un anno l’uno dall’altra. Ruak il primo, Melantha la seconda.
La discendenza era salva, la
speranza di alleanze future rese più sicure dalla presenza di una fanciulla di
nobile lignaggio da dare in sposa a un principe straniero.
Non faceva mistero di mal
sopportare la petulante sorella, ma non le invidiava il ruolo di pedina che, in
quanto principessa, le spettava.
Era ingiusto e crudele ma,
in quanto figlia di Re, questo le spettava per ‘diritto di nascita’.
Sospirando, Ruak si passò
una mano tra i capelli umidi per scrollare via le goccioline d’acqua che li
inzuppavano.
“A volte, vorrei tanto
essere nato in mezzo ai boschi.”
Aken si limitò ad annuire,
preferendo non mettere a voce i suoi desideri, ma comprendendo ampiamente
quelli del fratello.
Portare il peso della corona
potenziale che gli spettava di diritto, era un lusso a cui avrebbe volentieri rinunciato,
anche se in cambio gli avessero dato una vanga o un badile.
Si doveva essere portati per
ogni cosa, anche per fare il principe ereditario e lui, evidentemente, era
negato.
Certo, amava il suo popolo
più di se stesso, questo era evidente – non si sarebbe trovato lì, altrimenti –
ma non desiderava vivere tra le mura di Rajana a sfornare figli da una perfetta
sconosciuta, e solo ‘per il bene della
corona’.
Lui voleva Eikhe, punto e
basta. Ma era esattamente l’unica cosa che non avrebbe mai potuto avere.
Quando Vesthe e Liase
tornarono di corsa, le belle chiome bionde e intrecciate sul capo, Aken sospirò
e disse: “Manca poco.”
Ruak annuì e, non appena la
corsa delle due giovani donne terminò loro accanto, domandò: “Avete avvisato
tutte?”
“Come ordinato” annuirono in
coppia le due ragazze.
“Bene” annuì Aken, lanciando
uno sguardo a uno dei suoi ufficiali che, con un inchino, si avviò verso le
coorti per rendere noto agli uomini di prepararsi per la ripresa delle
ostilità.
“Kreathe vi manda a dire
che, dal colle a nord-ovest, uno dei lupi ha visto sopraggiungere un nuovo
contingente di fanteria da Anarsis. Forse, lo avevano tenuto oltreconfine per
ogni evenienza, per tenere uomini freschi per la battaglia” asserì Liase,
accigliata.
Imprecando senza tanti
complimenti – aveva sentito dire ben altre oscenità dalle donne, per sapere che
la sua non avrebbe sortito alcun effetto sulle figlie sacre – Aken ringhiò:
“Quel maledetto bastardo! Ma di quanti uomini dispone?”
“Figliano come conigli, per
caso, a Vartas?” brontolò Vesthe, cupa in viso.
Ridendo nervosamente, Ruak
lanciò un’occhiata alla collina, dove erano appostate le forze di Vartas, e borbottò:
“Magari fossero anche conigli.”
“No, sono muli. Muli duri
come macigni” sbuffò Aken, prima di guardare le due donne e chiedere: “Qualche
idea?”
Le due ragazze si guardarono
sorprese per un attimo e il principe, abbozzando una risatina, celiò: “Ehi, più
consigli mi giungono, meglio è.”
“Beh, principe, non siamo
abituate ad avere un rapporto così paritario
con gli uomini, come tu ben potrai immaginare…” replicò Liase, fissandolo con
aperta ironia. “… ma la cosa mi piace alquanto. Non è che, finita questa
pazzia, ti andrebbe di passare un po’ di tempo con me? Non mi spiacerebbe avere
un figlio con la tua testa.”
Aken strabuzzò gli occhi,
sconvolto da quella proposta, mentre Ruak scoppiava in una frenetica risata e
Vesthe scuoteva il capo con aria divertita.
“Beh, che ho detto? Mica
voglio diventare Regina. Mi serve solo il suo seme!” protestò Liase, prima di
scoppiare a ridere con loro.
Passandosi una mano sul
viso, su cui spiccava la sua bocca spalancata per il gran ridere, Aken esalò a
un passo dalle lacrime: “Oh, cielo! Di tutte le cose che potevo aspettarmi… giuro,
questa proprio mi ha sconvolto a morte!”
“Hai sentito, Aken? E’ forse
la prima donna che non ti vuole per la corona che porterai. Perché non ne approfitti?”
rise ancora più forte Ruak, dandogli sonore pacche sulle spalle.
Vesthe, che aveva ascoltato
le loro battute a metà tra il risolino e disappunto, sollevò interessata un
sopracciglio e chiosò: “Dopotutto, Liase non ha avuto una cattiva idea. Sei un po’ giovane, per i
miei gusti, ma anche la tua testa è buona, principe Ruak, perciò non avrei
problemi ad aggirare il piccolo particolare dell’età, per una volta.”
A quel punto fu Ruak a
sgranare gli occhi, fissando poi la figlia sacra con aria smarrita e un copioso
rossore a incipriargli le gote e le orecchie, ora scarlatte come rubini.
Aken lo fissò solo per un
attimo, e fu sufficiente per farlo tornare a ridere di gusto, mentre
tutt’intorno a loro il campo riprendeva vita in attesa del proseguo della battaglia.
Quella dorata spontaneità
gli era sempre piaciuta, e Aken non poté che trovare idilliaco quel breve
momento di ilarità, strappato alle maglie di una guerra che sembrava non volere
dare loro tregua.
Eikhe lo aveva sconvolto in
tutti i sensi, con il suo modo di fare, facendo sì che lui si innamorasse
perdutamente di lei e del suo spirito libero e privo di freni inibitori.
Ora, quelle due fanciulle
che, come Eikhe, condividevano il dono di Hevos, gli avevano restituito un
attimo di pace, di serenità, di libertà.
Allungandosi per abbracciare
entrambe le ragazze, che sobbalzarono sorprese, Aken baciò entrambe sulle
guance prima di dire: “Guai a voi se vi farete male, durante la lotta. Non mi
interessa un accidente se Kreathe vi ha detto diversamente. Io vi ordino di
vivere, qualora io mi trovassi in un pericolo tale da non poter essere salvato.
E’ chiaro?”
Ruak fu lesto a aggiungere:
“E lo stesso vale per me.”
Liase e Vesthe si guardarono
in viso dubbiose, prima di annuire e dichiarare: “Ve lo promettiamo.”
“Allora, andate. E
preparatevi a dar battaglia. Ci fidiamo di voi, e combatteremo più tranquilli,
sapendovi al nostro fianco” decretò Aken, sorridendo loro con orgoglio.
Le due ragazze si aprirono
in larghi sorrisi e, annuendo, corsero via mentre Ruak, tornato serio, fissò il
fratello e mormorò mesto: “Pensavi a Eikhe?”
“Già” annuì lui, prima di
dargli una pacca sulla spalla. “Andiamo a prepararci anche noi, fratellino.
Oggi ho davvero voglia di menar le mani.”
“Ottimo. Ti seguo a ruota!”
esclamò il fratello, lanciando un ultimo sguardo al cielo.
I primi lembi di azzurro
cominciavano a intravedersi, tra il nero delle nubi temporalesche.
Sì, mancava davvero poco,
alla ripresa della lotta. Ma loro erano pronti.
“Va bene… ricominciamo”
sbuffò Ruak, sguainando la spada.
“Calmati, testa calda…
passerà ancora un po’, prima che qualcuno si muova in quel guazzabuglio”
ridacchiò Aken, sorpreso dalla veemenza del fratello.
“Voglio finire questa cosa
il prima possibile… sono stufo marcio di starmene qui a fare i comodi di quel
pazzo” borbottò il fratello minore, aggrottando la fronte.
“Hai ragione… gli abbiamo
concesso fin troppo, del nostro tempo” annuì ombroso Aken, sfoderando
lentamente la spada, con aria sinistra.
Sogghignando, Ruak gli diede
una pacca sulla spalla e assentì convinto.
“Finiamola oggi.”
Annuendo, Aken guardò per un
momento i suoi uomini, sparsi per tutto il bosco e in attesa come loro che
quella pioggia cessasse.
Nessuno di loro voleva
protrarre quella guerra più del necessario, e avrebbe fatto il tutto e per
tutto perché quella follia avesse termine quel giorno stesso.
Nargan sarebbe penzolato da
una picca entro sera.
Lanciato uno sguardo al
campo delle donne-lupo, Aken si chiese per l’ennesima volta perché Kaihle se ne
fosse andata prima della fine della guerra.
Si impose comunque di non
dare spazio alle sue paure, per non perdere la concentrazione.
Chiedendo a Esteria, aveva
solo saputo che aveva passato il comando a un’altra capo-tribù ma, sul motivo
del suo allontanamento, nessuno sapeva nulla.
A peggiorare il tutto, anche
Sendala era andata via con lei, quindi non aveva potuto domandare neppure
all’unica altra donna-lupo che conosceva.
Non gradiva l’idea che se ne
fosse andata via su due piedi, tirandosi dietro l’amica del cuore di Eikhe.
Doveva credere che Eikhe
stesse bene, e che quell’allontanamento improvviso non avesse nulla a che fare
con la donna del suo cuore.
Non doveva deconcentrarsi
proprio in quel momento. Eikhe doveva
stare bene.
Scuotendo il capo per il
fastidio, Aken cercò di non perdersi in quei lugubri pensieri per non essere
distratto in battaglia e, quando finalmente vide muoversi i primi soldati nel
campo nemico, disse: “Bene… si comincia.”