Titolo: Drawn
into the past
Personaggi: Kotetsu,
Tomoe.
Pairing: Kotetsu/Tomoe.
Rating: Verde.
Genere: missing
moment, fluff, angst.
Avvertimenti: One-shot.
Note: Fanfic scritta prima che qui su EFP esistesse una sezione per t&b, prima ancora che finisse lo show... credo risalga a poco dopo la messa in onda dell'episodio 17. Bah.
Disclaimer: I personaggi non mi appartengono bla, bla, bla...
Drawn
into the past
Veder
comparire la sua foto sul cellulare che squillava lo fece sorridere:
aveva
proprio bisogno di parlarle, di sentirla e di dirle quanto desiderasse
tornare
a casa più spesso – da lei e da Kaede.
Fissò quell'immagine che aveva scattato
mesi prima ancora per qualche istante e poi, quasi fremendo, rispose a
quella
chiamata che gli parve d'aver aspettato così a lungo.
“Tomoe”,
il sorriso sulle labbra dell'uomo s'allargò mentre
pronunciava quel nome. E
quando sentì la sua voce – quando lei
chiamò il suo nome – le sue gambe smisero
di muoversi, lasciandolo impalato su quel marciapiedi a malapena
illuminato.
Abbassò il cappello per coprire gli occhi e
s'appoggiò al muro lì accanto, una
mano in tasca e una stretta saldamente al cellulare, la voce bassa
mentre
parlava concitato, raccontando la propria giornata alla moglie ora
così
distante. La sentiva ridere ogni tanto, e lui la immaginava seduta
accanto al
telefono con la mano davanti alla bocca per sopprimere un po' le risa
che
altrimenti avrebbero svegliato la piccola Kaede.
“...
E il signor Ben ha detto che se continuo così prima o poi lo
manderò in
bancarotta e sarà costretto a chiudere e cercarsi un altro
lavoro.”
“Ha
ragione però, Kotetsu. Dovresti stare un po' attento;
potresti ferire qualcuno
un giorno.”
“Naaah,
un eroe salva le persone, Tomoe! Le salva, non le ferisce!”,
gesticolava
parlando, muovendo avanti ed indietro l'indice, come se avesse avuto la
donna
di fronte e non le stesse parlando attraverso il telefono. E lei lo
sapeva.
Sapeva che suo marito gesticolava mentre parlava con lei attraverso
quell'apparecchio; l'aveva sempre fatto, sin da quando, più
giovani, avevano
appena iniziato a vedersi per uscire insieme.
“Comunque...”,
Kotetsu abbassò la voce, riprendendo a camminare verso casa,
“come stai adesso?
Meglio?”
Il
sorriso era completamente sparito dalle labbra dell'uomo ora, il capo
rivolto
verso il basso e gli occhi fissi sul marciapiedi che nemmeno vedeva,
immerso
com'era nei pensieri che quella voce dall'altro capo del telefono
riusciva in
qualche modo a guidare.
Ultimamente
Tomoe non si era sentita molto bene e Kotetsu, preoccupato, aveva
chiesto a sua
madre di aiutarla con Kaede – lui non poteva, troppo
impegnato con il lavoro,
troppo impegnato ad inseguire il suo sogno ed i suoi ideali, troppo
impegnato a
salvare tutti per potersi concentrare sulla sua famiglia. Si era detto
che,
infondo, sarebbe andato tutto bene: non era nulla di grave e quindi, di
conseguenza, lasciare la città per stare con Tomoe, lasciare
che le persone in
pericolo avessero un eroe in meno pronto a salvarle sarebbe stato un
errore da
parte sua. Ed era stata Tomoe stessa a dirglielo – 'sei
un eroe; proteggi
Stern Bild, com'è giusto che sia'.
“Sto
meglio, non preoccuparti.”
Quella
voce così leggera, quelle parole che aveva già
sentito così spesso – ogni volta
che la chiamava, in realtà; quando chiedeva come stesse, la
sua risposta non
cambiava. E Kotetsu si preoccupò come ogni volta precente,
registrando
quell'affermazione come un segnale di pericolo.
“E Kaede?”, domandò esitante.
“Sta
bene anche lei. Ora sta dormendo.”
“Bene”,
la voce tremante mentre saliva gli scalini e cercava le chiavi per
aprire la
porta di quell'appartamento così vuoto e privo di calore
– quel posto che non
avrebbe mai chiamato 'casa', perché casa sua era altrove.
“Kotetsu.”
“Mh?”
“Sto
davvero bene.”
L'uomo
– l'eroe lontano dalla propria casa e dalla propria famiglia
– non rispose
immediatamente. Non sapeva cosa dirle, quali parole pronunciare per
farle capire
quant'era preoccupato e quanto volesse stare con lei in quel momento.
Con lei e
con Kaede, che cresceva senza la sua presenza e che non vedeva da
così tanto
tempo...
“Voglio
tornarmene a casa”, sospirò stanco, lasciandosi
andare sul divano.
“Non
puoi”, la voce leggera ora aveva assunto un tono di
rimprovero, “un eroe non
può andare in vacanza quando gli pare. Devi salvare le
persone in pericolo.”
“Potresti
essere tu in pericolo.”
“Io
sto bene, Kotetsu.”
“Mmmh...”
La
sentì ridere debolmente, stanca.
Oh,
quanto avrebbe voluto esser là con lei.
Odiava
saperla così distante, soprattutto quando l'aveva vista
così debole e malata.
Non riusciva a fare a meno di preoccuparsi per lei e per quegli occhi
che aveva
visto così spenti e tristi l'ultima volta che le aveva
prestato visita a casa
loro. Aveva già pensato di portarla in un ospedali
lì a Stern Bild, ma lei
aveva rifiutato, dicendo di star bene, che sarebbe guarita, che non era
nulla
di grave.
…
Ma
forse era solo lui che si preoccupava per nulla, infondo. Poteva
benissimo
essere una semplice influenza quella che aveva colpito sua moglie,
proprio come
aveva affermato lei stessa qualche tempo prima. E Tomoe era sempre
stata così
forte, l'avrebbe superata di sicuro.
“Domani
ti chiamo dopo pranzo, va bene?”
“Sì,
così anche Kaede potrà salutarti. Oggi continuava
a chiedere di te.”
Un'altra
risata, e Kotetsu sorrise languidamente.
“A
domani allora... buonanotte, Tomoe.”
“Buonanotte,
Kotetsu.”
Sentiva
freddo ora in quella stanza vuota, quella leggera presenza di Tomoe
svanita nel
momento in cui aveva riagganciato.
Sarebbe
davvero voluto tornare a casa da lei; l'anello che aveva al dito gli
ricordava
perennemente la promessa che si erano fatti di passare
l'eternità insieme ma
non era abbastanza, non quando sentiva il desiderio di abbracciarla o
di
addormentarsi nel loro letto e di stringere il suo corpo
così morbido e caldo.
Sospirò,
attendendo un sorriso di conforto che non ricevette, perché
nessuno era lì con
lui in quel momento – era solo, com'era giusto che fosse un
eroe che non voleva
coinvolgere la propria famiglia nei suoi affari.
“Aaah,
mi manchi, Tomoe.”