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Autore: Vale11    19/12/2011    2 recensioni
“Ragazzino, ce l’hai un nome?”
Le sembrava abbastanza sveglio da essere in grado di rispondere, dopo essere riuscita a convincerlo a infilarsi qualcosa nello stomaco. Era magro, ma aveva un fisico decisamente tirato. Un fascio di muscoli e nervi, ecco cos’era.
“E questo che razza di accento sarebbe?”
“Un accento italiano, biondo. Ce l’hai un nome?”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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When you try your best but you don't succeed

when you get what you want but not what you need

when you feel so tired but you can't sleep

stuck in reverse

and the tears come streaming down your face

when you lose something you can't replace

when you love someone but it goes to waste

could it be worse?

Light will guide you home

and ignite your bones

 

"Che hai da cantare, testa rossa?"

 

And i will try 

to fix you

 

Hiruma continuò a guardarla per un po', con la faccia infilata in uno dei suoi mensili musicali italiani e le orecchie tappate da una cuffia da dj di un verde talmente acceso che faceva male guardarla, soprattutto sopra quel cespuglio di stoppie rosse.

"Testa rossa?"

 

Irma si concedeva raramente i Coldplay. Erano lenti, ok. Erano poco cattivi, ok. Ma avevano classe da vendere, o per lo meno ne avevano nei primi album. Quindi si, ok.

Smise di canticchiare quando un fazzoletto di carta appallottolato le atterrò in testa. Sorrise.

"Sei sveglio, biondo?"

"Dieci punti per la tua capacità di osservazione, complimenti"

Ghignò.

"Ti preferivo mentre dormivi"

 

Hiruma la vide alzarsi e avvicinarsi al letto, portandosi dietro la sedia. Piantò i gomiti sul materasso, iniziando a fissarlo. Era seria. E lo fissava. E la cosa lo innervosiva pesantemente. Fece finta di non avere mal di testa, finse perfino che la spalla destra non gli facesse il male d'inferno che faceva, ne che le costole rotte lo infastidissero. In effetti, non gli facevano male di continuo. Solo quando respirava. Finse pure che gli antidolorifici che gli facevano girare nel sangue tramite quella maledetta flebo piantata in una mano non l'avessero rincoglionito.

"Che cosa vuoi?"

Irma continuava a fissarlo. Seriamente, i suoi nervi minacciavano di cedere da un momento all'altro.

"Testa rossa, o mi dici cosa vuoi, o puoi andare tranquillamente a farti fottere"

L'unica reazione che ottenne, fu che il sopracciglio destro della sua presunta sorella si alzasse indipendentemente dal gemello sinistro. Vide rosso.

"Irma! Vuoi dirmi che cazzo vuoi?"

 

Aveva urlato. Yoichi Hiruma aveva urlato davvero. Non l'aveva mai visto perdere la calma in quel modo, nemmeno in campo. Era tranquillizzante, in un certo senso. Si passò la mano destra sulla tempia quando lo vide stringere gli occhi, cercando di nascondere le fitte dolorose che le costole gli stavano generosamente procurando.

"Non urlare, cretino. Ti fai male"

La risposta del biondo le arrivò con un sibilo velenoso.

"E tu piantala di fissarmi così"

Gli sorrise.

"E' servito a sbloccarti, no?"

Hiruma la guardò, praticamente a bocca aperta.

"Stai scherzando, si?"

 

Irma si lasciò andare contro lo schienale della sedia, le braccia incrociate sul petto e un ghigno sollevato sulla faccia.

"Per niente, Yoichi. Avevi bisogno di sfogarti un po', evidentemente. Ti si leggeva in faccia"

"Lieto di essere un libro aperto, per te. Ti faccio notare, inoltre, che sei un'emerita testa di cazzo"

Scoppiò a ridere.

"E questa dovrebbe essere una novità?"

 

Respirare stava diventando un inconveniente fastidioso, per quanto la situazione potesse essere paragonata all'ossimoro più riuscito della storia dell'umanità. Hiruma non osava passarsi una mano sulle costole rotte, sapendo che non sarebbe stato piacevole, ma avrebbe gradito se avessero smesso di farlo patire come un cane. Urlare, poi, non era stato affatto intelligente. Maledetta Irma e le sue cavolo di idee.

Anche se doveva ammettere che si sentiva lo stomaco un po' meno annodato, dopo aver reagito in quel modo. Gli somigliava, quella ragazza. Davvero. Riusciva a spingere la gente al limite per farla tornare normale. 

Roba che non sarebbe riuscita nemmeno a Woody Allen, forse.

Sentì il materasso piegarsi di nuovo, probabilmente Irma ci aveva appoggiato i gomiti un'altra volta.

"Hai qualcosa da chiedermi?"

Fece di tutto pur di non guardarla in faccia.

 

Di nuovo, teneva i suoi occhi tutti per sé. E di nuovo, a Irma parve più fragile che mai. Perché Hiruma poteva bruciare le persone, con gli occhi che si ritrovava, e quando li nascondeva era perché non voleva che le altre persone bruciassero lui. 

"Ho due domande, in realtà"

Registrò appena il fatto che Yoichi fosse affondato di nuovo nel cuscino. Sembrava stanco. Probabilmente lo era. Il suo giochino mentale di prima doveva a verso smontato un po', anche se non lo dava a vedere. Si sentiva quasi in colpa. Anzi, in colpa senza quasi. 

Ti prego di tenere a bada il sarcasmo, sono convalescente.

Sembrava passato poco tempo da quando gliel'aveva detto, e invece erano passati due anni. Lei aveva venticinque anni adesso, quindi Yoichi doveva averne…diciassette o diciotto. Dipendeva dalla data di nascita. Non l'aveva mai saputa.

 

"Spara"

La vide scuotersi, dopo essere affogata per venti secondi buoni nei suoi pensieri su chi cavolo sapeva cosa. Sperava che non fosse niente di troppo impegnativo, per lo meno per il suo cervello. Non si sentiva in grado di rispondere a domande sui perché della vita, o sui perché della sua vita. In realtà non si sentiva in grado in generale. Non si sentiva e basta, ecco.

"Ok, ok. Scusami. Come stai, Yoichi?"

Se la domanda si fosse conclusa con la parola "stai", Hiruma avrebbe potuto anche cavarsela con un "bene", e morta li. Ma il fatto che Irma avesse aggiunto il suo nome e non un qualche soprannome a caso gli faceva capire che era seria, e pretendeva una risposta seria. Non era il tipo da confidarsi, però. Non l'aveva mai fatto, o quasi. Musashi e quella tizia rossa erano gli unici due con cui era mai riuscito a parlare di qualcosa di mortalmente serio, anche se non molto spesso. Chiuse gli occhi, tenendoli di nuovo per se. Cosa c'era, la dentro, erano fatti suoi. Almeno quelli.

"Sdraiato, testa rossa. Con un gran mal di testa, un giramento d'anima direttamente proporzionale, una spalla mezza andata e le costole che mi fanno male ogni volta che oso respirare. Spesso, come puoi immaginare." 

Tentò un ghigno, affatto convincente.

 

Irma si spaventò a morte. Quel ghigno, quel tentativo di ghigno, somigliava dolorosamente a una smorfia disperata. Si costrinse a non reagire.

"Posso andare con la seconda domanda?"

Lo sentì sbuffare, gli occhi ancora chiusi.

"Non che ci sia molto altro da fare, qui"

"Che è successo?"

 

Oh no, tutto ma non quello. Non aveva voglia di pensarci, di parlarne, di accettare che quello che era successo fosse effettivamente successo. E più di una volta. Significava ammettere di aver perso, perché quello che stava succedendo non prevedeva vie d'uscita facili. Non ne prevedeva e basta. Parlarne significava dover tornare indietro di anni. E raccontare tutto significava ammettere la sconfitta. E lui non perdeva, mai.

Aprì gli occhi, fissando il soffitto. Non voleva guardarla, non voleva guardare nessuno. E nessuno doveva guardare lui. Si voltò verso Irma involontariamente, però, quando si accorse che gli stava stringendo la mano libera dalla steccatura, attenta all'ago della flebo. Non l'aveva mai fatto. L'unico gesto simile che c'era stato, era stato quell'abbraccio all'aeroporto, due anni fa. Se ci pensava bene, era la prima volta che qualcuno gli teneva una mano in quel modo. Era una presa quasi disperata. Forse avrebbe potuto essere utile, se fosse stata piazzata in ricezione. Soppresse un ghigno, temendo che gli sarebbe uscito fuori solo un sorriso patetico. Avrebbe voluto dirle di farsi i fatti suoi, che quella roba non la riguardava. Invece quello che gli uscì di bocca fu altra roba.

"Mia madre se n'è andata che avevo tredici anni. Considerando tutto, direi che ha resistito abbastanza."

 

Irma rimase zitta, quasi senza respirare. Non voleva interromperlo, aveva paura che si sarebbe bloccato. Parlare, forse, gli avrebbe fatto bene. Anche se non sapeva cosa le stava per dire. E comunque, perdono e riperdono, era curiosa di sapere cos'è che aveva fatto in modo che Yoichi fosse Yoichi. Persona affatto comune, in realtà. Continuò a tenergli la mano, pur sapendo che la situazione era strana tanto per lei quanto per lui. 

"E' partita mentre ero a scuola, quando sono tornato era già sparita. Senza dire niente, nemmeno un post it. Non come hai fatto tu, testa rossa"

Le sorrise, quasi, indicando il foglietto che si era attaccata al cappuccio con la testa. Irma non riuscì a fare altrettanto, preoccupata per quel ragazzino fuori di testa che le stava raccontando roba affatto piacevole.

"Io me ne sono andato quasi due anni dopo, all'ultimo anno delle medie, qualche mese prima di averti conosciuto. Manca il tassello in mezzo, mh?"

Quando si girò verso di lei, le prese un colpo. Quella faccia da schiaffi non era più una faccia da schiaffi. Dimostrava molti più anni della sua età reale, era un adulto nel corpo di un ragazzino di appena diciassette anni. E, di nuovo, faceva di tutto pur di non guardarla negli occhi.

"Mio padre ha vissuto negli Stati Uniti, da giovane. Con regolare Carta Verde. Erano gli anni '60. C'era il Vietnam. Ce lo spedirono. Vivi qui? Allora devi servire questo paese. Aveva diciannove anni, solo uno più di me"

Irma dovette correggersi. Yoichi aveva diciotto anni, allora. Sempre troppo giovane per quell'espressione fredda che gli si era dipinta in faccia.

 

Hiruma iniziò seriamente a pensare di avere due personalità. Una che parlava, e l'altra che si chiedeva perché lo stesse facendo.

"Quando tornò, sembrava tutto normale. iniziò a dare di matto quando avevo nove anni. La chiamano sindrome del Vietnam. Ne hai sentito parlare?"

La vide annuire, grato del fatto che non l'avesse mai interrotto. Una parola, e si sarebbe fermato. E non sarebbe riuscito a ripartire. 

"Gli scattò qualcosa nel cervello, non so cosa. Nessuno sa cosa. Di notte faceva incubi, urlava, spaccava cose. Finchè non iniziò a picchiare mia madre, senza rendersene conto"

A Irma tornò in mente la faccia del padre di Yoichi, persa come non mai, mentre ripeteva le sue scuse al figlio come un mantra. Deglutì.

"Il giorno dopo non si ricordava niente, e si disperava. Sul serio, è arrivato a un passo dal farsi fuori. Andò da medici, psichiatri, psicologi, specialisti. Niente. Prendeva pillole, gocce, qualsiasi cosa. Niente. Mia madre finì più volte in ospedale, finchè non se ne andò senza dire mezza parola. Forse fu uno shock bello pesante, perché mio padre sembrò riprendersi. Non ha mai alzato un dito su di me, finchè non ho compiuto quattordici anni. Ha distrutto mezza casa. Ha distrutto pure me."

Rise, per quanto le costole rotte glielo permettevano.

 

Irma continuava a fissarlo scena riuscire a distogliere lo sguardo, senza riuscire a lasciargli la mano. Era panico puro, quello. Rabbrividì quando lo sentì ridere.

"Il giorno dopo, tutto da capo. Non si rendeva conto, si è scusato migliaia di volte, io sono finito in ospedale altrettante. Si svegliava di notte, apriva la porta di camera mia a calci e impazziva del tutto. Chiudere a chiave era inutile, avrebbe sfondato comunque tutto lo sfondabile"

Lo vide prendere fiato.

"Quando ho conosciuto te, ero andato via da poco. Ero scappato, possiamo dire così. Musashi aveva appena mollato la squadra, e il mio hobby era fare a botte con tutti quelli che incrociavo per strada. Divertente, mh?"

Irma non seppe trattenersi.

"Ma controproducente"

"Già. Il fatto che tu mi abbia beccato abbracciato a un muro ne è la prova provata. Ad ogni modo, scappai. Non ne avevo più. Ma ogni tanto sono costretto a tornare a casa, per prendere qualcosa o, quando finisco i soldi, per dormire. Quando vivevi qui venivo da te, e non mi succedeva niente. Stavo tranquillo, riuscivo pure a dormire"

 

Si tappò la bocca quando si rese conto di stare scoprendosi troppo. Sbuffò fra i denti. "Pochi giorni fa sono tornato a casa a prendere qualche maglietta da portarmi nel mio appartamento, e mio padre dormiva. So che smatta quando si sveglia, quindi ho cercato di evitarlo. Evidentemente, non è servito. Amen, fine della storia. Applausi prego"

 

Sena, Monta, Musashi e Mamori stavano per entrare nella stanza del quarterback, quando si resero conto della conversazione che si stava svolgendo la dentro. Si sedettero fuori dalla porta, preferendo non interrompere.

 

Hiruma si voltò verso Irma, rendendosi conto che stava fissando una statua di sale. Era immobile, lo fissava come se l'avesse visto per la prima volta. Avrebbe potuto dire un sacco di cazzate, in quel momento. Roba tipo: mi dispiace. Non te lo meritavi. Spero tu stia bene. E a lui sarebbe venuta voglia di mandarla a quel paese seduta stante. Per fortuna, non lo fece.

"Yoichi, perché non hai detto niente a nessuno?"

Avrebbe preferito una delle cazzate sopracitate, a quella domanda malefica.

 

Lo vide trattenere il fiato rumorosamente, guadagnandosi una nuova fitta al costato. Lo costrinse a stendersi di nuovo sul letto inclinato. Non si aspettava che rispondesse.

"Perché era troppo patetico per fare qualsiasi cosa. Quando impazzisce, quando mi picchia, quello che provo è odio puro. Perché non si sa controllare, non sa bloccare nemmeno il suo cervello. Ma quando torna in se è talmente patetico che mi toglie la voglia di reagire, anche se finisco in ospedale"

Si piazzò una mano davanti agli occhi, non ghignava più. Teneva le labbra strette, come a trattenere qualsiasi suono possibile.

"E il fatto di non riuscire a reagire mi fa una tale rabbia che quando ne parlo ho quasi voglia di vomitare"

Irma decise di sdrammatizzare.

"Non su di me, grazie"

Il sorriso che si vide rivolgere era uno di quelli veri, senza ghigni o canini sporgenti. Un sorriso talmente vuoto da essere del tutto, spaventosamente, vero. E orribilmente triste. Se fosse stata qualcun'altra si sarebbe messa a piangere, poco ma sicuro. Ma era lei, e sapeva mantenere il controllo quasi sempre. Gli indicò il cuscino con un cenno della testa.

"Dormi, biondo. Ne hai bisogno. Io resto qui. Niente brutti sogni, a questo giro. Controllo io."

 

Quando Irma uscì dalla stanza per andare a prendere qualcosa da bere, una ventina di minuti dopo che Yoichi si era addormentato, si ritrovò davanti un Musashi mortalmente serio, due ragazzini alti praticamente come lei nel panico e una bella ragazza con le lacrime agli occhi. 

Ecco, sono finita sul set di una fiction.

"Irma, questi sono Taro Raimon e Sena Kobayakawa, e questa è Mamori Anezaki."

La voce del kicker la riportò sul pianeta terra. Li aveva siti più volte alle partite in streaming, il fatto che non li avesse riconosciuti attestava quanto la confessione di Yoichi l'avesse scombussolata. L'unica cosa che riuscì a balbettare, dopo aver stretto la mano a tutti ed essersi presentata, fu una raccomandazione quasi disperata.

"Ragazzi, niente di tutto quello che avete sentito deve uscire di qui. Giusto?"

"Giusto. Ma non faremo finta di non sapere niente, almeno"

Si sforzò di sorridere a Mamori. Quella ragazza già le piaceva.

 

 

  
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