22.
Dopo aver
sistemato attorno alla vita del figlio una pesante cintura di cuoio dalla
fibbia di ottone a forma di testa di lupo, Eikhe sorrise soddisfatta e annuì.
Con calma,
allacciò il fodero della piccola daga che Harm le aveva donato per An e disse:
“Stai davvero benissimo, tesoro.”
Ammirandosi con
aria eccitata, le braccia che si muovevano avanti e indietro veloci, mentre il
capo si voltava da parte a parte per scrutare la sua nuova, primissima arma da
taglio, Antalion esclamò: “Wow, ma è bellissima, ma’! Il nonno è un mito!”
Ridendo nel
vederlo così eccitato, nonostante sapesse che era infine giunto il tempo di
insegnargli a usare l’arma che aveva accettato di porre nella sua mano, Eikhe
si rialzò con un sorriso orgoglioso.
Poggiate le mani
sui fianchi, fissò quegli occhi in tutto simili ai suoi e disse con un sospiro:
“Sei proprio tutto tuo padre.”
Come sempre,
Antalion fu ben attento a non pronunciare la fatidica domanda che, ormai da
dieci anni, gli frullava nella testa.
L’unica volta
che aveva osato pronunciarla, aveva scatenato il pianto della madre, le ire di
zia Sendala e lo sguardo triste di zio Enok.
Era evidente dai
discorsi dei nonni e di zio Konis che loro, invece, di suo padre non sapevano
assolutamente nulla.
Chiedere di
nascosto a loro sarebbe stato perfettamente inutile, ma ormai gli sembrava di
essere abbastanza grande per sapere qualcosa del misterioso uomo che, a quanto
pareva, la mamma non aveva mai dimenticato.
E che, nelle
notti più fredde d’inverno, lei piangeva in silenzio nella sua stanza.
Mordendosi un
labbro con fare titubante, una mano leggermente tremante mentre si posava sul
gomito della madre, Antalion la fissò serio nei suoi occhi ambrati e chiese con
un filo di voce: “Mamma, posso sapere chi è mio padre?”
La sentì
immediatamente irrigidirsi, mentre gli occhi venivano momentaneamente oscurati
dalle palpebre, e un pallore evidente si manifestava sul suo viso perfetto e
bellissimo.
Subito, Antalion
si pentì di aver proferito parola ma Eikhe, prendendo un gran respiro nel
tentativo di prendere coraggio, sospirò e prese sottobraccio il figlio, che
ormai le giungeva quasi alla spalla.
“Andiamo a
sederci in casa, An.”
Storcendo il
naso nel sentire quel nomignolo che trovava assai infantile, Antalion preferì
non rimbeccare la madre per paura che perdesse la voglia di parlargli.
In silenzio,
entrarono nella baita, dove una pentola di minestrone stava ribollendo
tranquilla sulla stufa accesa.
Sul tavolo in
legno, un bel centrotavola di vimini era ricolmo di frutta fresca mentre, sul
camino, il palco dell’ultimo cervo catturato dalla madre faceva bella mostra di
sé con la sua imponente e ramificata struttura.
Negli anni, quel
rifugio era divenuto un’autentica casa per tutti loro.
Dopo tanti
sacrifici, ora potevano tranquillamente vivere senza il pensiero fisso sul
denaro utile per la loro sopravvivenza.
I lavori della
madre erano più che degnamente venduti nell’emporio locale di Marhna, mentre la
selvaggina che Sendala catturava, andava a rimpinguare la locanda della
cittadina, e alcune ville di nobili signori delle montagne.
Nel complesso,
vivevano più che dignitosamente.
Inoltre, nonna
Ildera, nonno Harm, zio Konis e zia Tyura non mancavano di mandare loro dei
regali, anche senza badare ai loro onomastici.
Quando Antalion
vide la madre accomodarsi sulla sedia a dondolo, che il nonno le aveva regalato
l’anno precedente, lui si sedette ai suoi piedi e la guardò pensieroso.
Non sapeva bene
se parlare o rimanere zitto, in attesa che fosse lei a riprendere le redini del
discorso.
Osservato il
figlio per un tempo che le parve interminabile, Eikhe gli sorrise leggermente prima
di dire: “Tuo padre è un guerriero. Un uomo delle pianure che conobbi tanto
tempo fa, ai tempi della grande guerra che venne combattuta contro Vartas.”
Spalancando gli
occhi per la sorpresa, Antalion si protese verso di lei come a cercare di farle
comprendere quanto ancora volesse sapere di lui ma lei, scrollando il capo, aggiunse
soltanto: “Non posso dirti chi è, poiché è di vitale importanza che la sua famiglia non sappia mai della tua
esistenza. Una sola parola sfuggita dalle tue labbra, potrebbe metterci in
pericolo. In un pericolo più serio di quanto tu possa soltanto immaginare.”
Sconcertato da
quelle parole, Antalion esalò: “Non mi vorrebbe?”
“Non pensarlo
mai!” esclamò Eikhe, sorprendendolo per la veemenza delle sue parole. “Lui ti
amerebbe con tutto se stesso, lo so, ma è la sua famiglia che potrebbe mettere
a rischio la tua stessa vita, oltre che la mia.”
Storcendo il
naso, Antalion replicò scocciato: “Come puoi saperlo, visto che non è mai
venuto a cercarti, da quando sono nato?”
“Lui non sa di
te, non gliel’ho mai detto” gli sorrise tristemente lei. “Per ragioni che non
posso spiegarti, non ho potuto menzionare nulla di te a tuo padre, perché non
potrebbe fare nulla per raggiungerci. Occupa un ruolo troppo importante,
all’interno della sua famiglia, perché gli possa essere permesso di averci al
suo fianco, così ho preferito non angustiarlo ulteriormente, facendogli sapere
di avere anche un figlio.”
“Come sai che ti
ama ancora?” chiese allora il figlio, non del tutto convinto.
“Ha mantenuto
una promessa che ci facemmo anni fa, quando dovemmo dividerci” sorrise
debolmente Eikhe, allungando una mano per carezzargli i morbidi e lunghi
capelli neri, che Antalion portava stretti in una coda di cavallo.
Proprio come il
padre.
“Gli somigli
davvero tantissimo.”
Abbozzando un
sorrisino timido, Antalion mormorò: “Allora, era molto bello.”
Scoppiando a
ridere, Eikhe annuì e disse: “Sì, tesoro mio, era molto bello. Ma non l’ho
amato per questo. Erano soprattutto il suo cuore e il suo animo, a essere
belli. Come il suo coraggio e il suo amore incondizionato verso coloro che
doveva difendere.”
“E non avrebbe
dovuto difendere anche noi?” chiese a quel punto Antalion, alzandosi in piedi
per fronteggiarla.
Lei lo imitò e,
stringendolo a sé in un abbraccio caloroso, gli sussurrò: “Gli dissi io di non
anteporre il nostro amore a ciò che doveva compiere. Prima di tutto, doveva
pensare a chi dipendeva da lui. Io sapevo difendermi benissimo da sola e,
all’epoca, non sapevo ancora di te. Una volta nato, sarebbe stato impossibile
fargli sapere di te, proprio a causa del suo ruolo, e della sua famiglia.”
“Ma… non è
cattivo, vero?” mormorò lui, cercando di non far tremare la propria voce.
“No. Spero
sempre che un giorno voi due vi possiate incontrare, perché so che lo ameresti
come l’ho amato io” ammise Eikhe prima di scostarlo da sé, sorridergli e
aggiungere: “Non odiarlo, se puoi.”
“Non lo odierò,
perché so che tu lo ami ancora. E so che non potresti amare una persona, se non
ne fosse meritevole. Ma è tanto difficile, mamma” sospirò Antalion, reclinando
il viso.
Dandogli un
buffetto sulla guancia, Eikhe gli sorrise benevola.
“Hevos lo
conobbe, e accettò ciò che ci univa. Puoi credere a un dio, se non a tua madre?”
gli svelò a quel punto lei, vedendolo sgranare gli occhi per la sorpresa.
Ammiccando,
preferì non proseguire oltre e, nel dargli una pacca sulla spalla, disse: “Torniamo
fuori. Voglio insegnarti a usare quel ferro che ti ho appeso addosso.”
Sempre serio in
viso, Antalion le gettò le braccia al collo e, stringendola con foga, esclamò:
“Ti voglio bene, mamma! Scusami se ti faccio soffrire, e se ti ho fatto soffrire. Per causa mia, non
puoi vivere con le tue sorelle e, forse, neppure con l’uomo che ami. Ma mi farò
perdonare, mamma, te lo giuro!”
“Non c’è nulla
da perdonare, tesoro. Sono orgogliosa di te, e non mi importa di crescerti
lontano da Nestar. Ti sto crescendo come io
ritengo giusto, e tanto mi basta. E ora fuori, guerriero. Ad allenarsi!”
esclamò la madre, scostandosi nuovamente da lui prima di puntare la porta con
un dito.
Lui le sorrise
con amore prima di correre fuori sulle sue gambette già muscolose ed Eikhe, annuendo
fiera, disse tra sé: “Sta crescendo forte e generoso come te, Aken.”
***
Stentoreo come
suo solito, Aken esclamò: “Meyor, per tutti gli dèi, vedi di non ammazzarti,
con quel cavallo!”
Ridendo
divertito dal tono severo del suo maestro di equitazione, e principe di Rajana
nei tempi morti, il ragazzino si fermò a pochi passi da lui ed esclamò: “Avevo
la situazione perfettamente sotto controllo!”
Storcendo il
naso, e nascondendo un sorriso dietro un’occhiata burbera, Aken replicò secco:
“Lo dirò io quando avrai la situazione sotto controllo, non certo tu,
sbarbatello.”
Meyor si limitò
a ghignare spudoratamente prima di fare un cenno di saluto a Kannor,
l’attendente del principe.
“Puoi calmare tu
il principe, Kannor, e dirgli che non volevo ammazzarmi, su quell’ostacolo?”
Sogghignando, l’uomo
fiancheggiò il suo principe e, nello strizzare l’occhio al ragazzino, chiosò a
suo beneficio: “In effetti, se la stava cavando bene.”
“Non ti ci
mettere pure tu, amico!” sbottò a quel punto Aken, intrecciando le braccia sul
petto con fare offeso. “Se il ragazzo si fa male, primo, me la vedrò con sua
madre, secondo, con suo padre. Ti pare poco? E, probabilmente, riceverei sonori
sganassoni anche da parte di mia madre, oltre che da quella fuori di testa di
mia cognata.”
“Parlavi di me,
cognatuccio?” esordì una voce squillante alle loro spalle.
Rabbrividendo in
maniera più che evidente, Aken si volse a mezzo e impallidì leggermente alla
vista della donna.
“Cara, carissima Renke. Dove te ne vai con quel
pancione enorme a farti da apripista?” esalò a quel punto, aprendosi in un
ghigno, seminascosto dalla barba di due settimane che ne copriva il viso.
Incinta del
terzogenito, e già all’ottavo mese di gravidanza, Renke non ne voleva sapere di
starsene tranquilla a palazzo, prediligendo le passeggiate nei giardini privati
della reggia.
O, come in quel
caso, le visite al campo di addestramento dei cavalieri del regno.
Da anni, ormai,
Aken si era preso il personale impegno di addestrare Meyor perché diventasse un
cavaliere degno di tale nome.
Con il consenso
di entrambi i genitori, lo aveva anche fatto iscrivere all’accademia militare
di Rajana.
Desiderando
essere pienamente partecipe della crescita culturale del ragazzino, che ormai aveva
preso sotto la propria ala, si era impuntato
fino a divenire l’insegnante di equitazione dei giovani virgulti della scuola.
Dopotutto, la
parte amministrativa del suo lavoro a palazzo lo impegnava talmente poco che insegnare
a così tanti giovani l’arte della cavalleria, gli era sembrato un ottimo modo
per non impazzire del tutto.
Sua madre si era
dichiarata pienamente d’accordo con lui.
Suo padre Arkan,
al contrario, aveva storto il naso, ma a lui era importato ben poco.
Se avesse anche
solo provato a proferire qualcosa di traverso, avrebbe messo subito in pratica
le sue minacce.
A onor del vero,
comunque, quel suo nuovo compito lo aveva riempito di insperata soddisfazione,
cancellando almeno in parte il senso di vuoto perenne che provava nei momenti
di solitudine.
Inoltre, Meyor
si era dimostrato non solo un bravo studente, ma anche un autentico asso nello
stare in sella.
Anche se non lo
avrebbe mai ammesso apertamente con il ragazzino, vederlo in sella lo rendeva
assai orgoglioso.
“Il nostro caro
Meyor sta diventando davvero bravissimo, da quanto ho visto dalla finestra”
commentò Renke non appena ebbe raggiunto i due uomini e il giovane cavaliere.
“Principessa
Renke, come sempre siete gentilissima” asserì il giovane cavaliere,
profondendosi in un inchino dalla sella.
Ridendo, la
donna assottigliò maliziosa le iridi di giada screziata d’oro e fissò Aken, celiando:
“Gli hai anche insegnato a essere un adulatore, mio caro?”
“Meyor è educato
di suo” replicò il principe, prima di aggiungere: “Non dicevo sul serio,
prima.”
Battendogli
affettuosamente una mano sul braccio, Renke tornò seria e gli disse: “So sempre
quando la gente mi vuole offendere, e tu non sei tra quelli. Ma hai ragione; se
Meyor si facesse male, ti ridurrei in poltiglia.”
“Buono a
sapersi” scrollò le spalle Aken, prima di rivolgersi all’allievo. “Hai sentito,
ragazzo? La mia vita dipende da te.”
“Starò attento,
promesso” annuì Meyor, dando un colpetto leggero ai fianchi dello stallone per
riprendere gli allenamenti sul campo.
Avvolgendo le
braccia attorno a quello possente del cognato, Renke mormorò con un sorriso:
“Quel ragazzino è un autentico toccasana, per te, Aken, te ne sei reso conto? E
non solo lui! Il lavoro che svolgi in Accademia è davvero un balsamo, per il
tuo umore altrimenti nero.”
Annuendo
gravemente, Aken disse: “Se non ci fossero loro, sarebbe davvero dura…
rimanere.”
Kannor sospirò
pesantemente, scrutando spiacente il principe senza avere il coraggio di
mettere a parole il proprio disappunto.
Conoscere i
motivi del suo dolore e non poter far nulla per alleviarlo, per un amico di
vecchia data come lui era, gli pesava come un macigno ben piantato sul cuore.
D’altra parte,
cos’avrebbe potuto fare?
Spingerlo a
cercare Eikhe per i monti, quando per anni la stessa figlia sacra non lo aveva
mai cercato?
Sapeva
perfettamente che le spie di re Arkan controllavano la posta in arrivo al
principe, così come quella in partenza, perciò era più che certo che nulla, di
lei, fosse giunto da Marhna.
Chissà cosa le
era successo, e cosa l’avesse spinta a un tale e lapidario silenzio?
Che sospettasse
un possibile pericolo? Era probabile. Eikhe, dopotutto, non era una
sprovveduta.
Conosceva i
doveri del principe, ma non era così ferrato su quelli di una donna-lupo,
perciò poteva solo fare delle vaghe ipotesi su ciò che l’aveva condotta a
questo assordante silenzio.
Ugualmente, Kannor
imprecò tra sé.
Se anche solo
uno dei due fosse stato meno ligio ai rispettivi doveri, a quest’ora non
avrebbe dovuto essere il muto spettatore del declino di un amico.
Per distogliere
l’attenzione di Renke dallo sguardo turbato di Aken, Kannor disse con
causalità: “Magari, se ci aggregassimo alla prossima missione che deve recarsi
ad Anok Fort, non sarebbe male. Comincio ad avere il disgusto di Rajana.”
Abbozzando una
risatina cattiva, il principe fissò l’amico con aria scocciata.
“Se tu provi
disgusto, io allora dovrei mettermi una corda al collo e tirare forte,
credimi.”
“Aken!” esclamò
Renke, impallidendo visibilmente a quelle crude parole.
“Perdonami,
cognata” mormorò subito lui, battendole una mano sulle quelle intrecciate di
lei. “Non dicevo sul serio.”
“Ma non
prenderai in considerazione l’offerta di Kannor, vero?” brontolò la principessa,
scrollando leggermente il suo braccio.
“No” asserì
lapidario, chiudendo una porta in faccia a entrambi gli amici con quella secca
risposta.
Sbuffando, Renke
scostò lo sguardo dal suo viso corrucciato al giovane Meyor che, abilmente,
stava balzando con il suo stallone oltre una staccionata.
Con voce resa
roca dalla rabbia, sibilò piano: “Sai essere più testardo di un mulo, quando ti
ci metti. Perché tanta ostinazione?!”
“Perché così
dev’essere” replicò semplicemente lui prima di scostarsi da lei e baciarle una
mano. “Con permesso, mia cara. Vado a insegnare qualche trucchetto ai nostri
giovani stambecchi.”
Imponendosi di
non sorridergli per pura ripicca, Renke non poté che scoppiare a ridere quando
Aken posò un bacio anche sulla sua enorme pancia, mormorando all’indirizzo del
bambino: “Preparati a quando uscirai. Tua madre è una vera strega.”
“Vattene,
malefico fratello!” sbottò lei, ridacchiando e scacciandolo via con ampi gesti
delle mani.
Lui ammiccò prima
di tornare al suo solito sguardo chiuso in se stesso e, nell’osservarlo
allontanarsi in direzione delle stalle, Renke sospirò e chiese: “Un’amante, o
un figlio?”
Kannor la guardò
con un sorriso ammirato, lodando silenzioso la sua perspicacia.
“Lo strazio che
prova è per un amore che ha dovuto abbandonare. Ma la sua volontà di
rinchiudersi qui per sempre, non oso dire da dove provenga.”
“Quale strega lo
ha lasciato a se stesso senza alcun ritegno?” protestò veemente Renke,
aggrottando le sopracciglia.
“Si sono
lasciati perché le esigenze lo imponevano, non perché ne avessero reale
desiderio” precisò l’attendente, osservando il principe uscire dalla stalla al
trotto leggero, fiero e imponente sulla sella e lo sguardo ombroso fisso sul
campo di addestramento.
“Una donna non
di nobile lignaggio, allora?” chiese la principessa, ora vagamente sorpresa.
Annuendo, Kannor
asserì: “Preferirei ne parlaste con lui, mia Signora. Sono affari suoi,
dopotutto.”
Con un modesto
sorriso, Renke annuì all’uomo e disse: “Hai ragione, Kannor, perdonami.
Ficcanaso perché non posso fare a meno di chiedermi da dove venga tutta la
tristezza che alberga nei suoi occhi.”
“Posso solo
dirvi che la donna che ama è degna di grande rispetto” mormorò l’uomo,
affondando la sua unica mano nella tasca del giustacuore che indossava.
“Non mi sarei
aspettata nulla di meno, da Aken” sorrise lei, prima di esclamare eccitata
quando lo vide balzare oltre una serie di doppi ostacoli, come se nulla fosse.
C’era ancora un
grande guerriero, sotto quella scorza apparentemente infrangibile di dolore e
orgoglio.
“Voglio il tuo
bacio in pegno, bel cavaliere!” esclamò a quel punto, salutandolo con ampi
gesti del braccio.
Aken scoppiò a
ridere sulla sella mentre, scartando con il cavallo per raggiungere una nuova
serie di ostacoli, lasciava andare le briglie sotto gli occhi sgomenti della
principessa.
“Dèi, ma che
fai?!”
Incurante del
suo grido, il principe si piegò in avanti per assecondare i movimenti
dell’animale e, dopo aver stretto maggiormente le gambe attorno alla cassa
toracica del cavallo, gli sussurrò all’orecchio: “Mi fido di te.”
Come una sola
creatura pulsante, animale e cavallo si librarono sopra due serie di ostacoli
prima di atterrare indenni sulla spianata di terriccio, acclamati dagli
applausi degli allievi e scrutati con autentico stupore da Renke.
Oltrepassato lo
steccato che delimitava l’area di allenamento, la principessa si avvicinò al
cognato e ringhiò furente: “Che ti è saltato in mente?! Vuoi farmi partorire
prima del tempo!?”
Smontando di
sella con un fluido movimento di gambe, Aken la ignorò per un momento per parlare
a Meyor, fermo a pochi passi da lui con la bocca ancora spalancata dalla
sorpresa.
“Devi fidarti
del tuo cavallo, e devi fare in modo che lui si fidi di te. Non è diverso da un
tuo compagno d’armi, ricordalo. Ti servirà bene, se tu servirai bene lui. Più
intenso sarà il vostro rapporto, maggiore sarà ciò che ne ritornerà a tempo
debito.”
“Sì, Aken” annuì
tutto sorridente Meyor prima di riprendere gli allenamenti.
Ancora ferma
accanto a lui, Renke lo schiaffeggiò su un braccio, strillando: “Mi hai fatto
prendere paura!”
Abbozzando una
risatina, Aken diede una pacca sul fianco del cavallo, che si incamminò accanto
a loro e, presa sottobraccio la cognata, lui le disse tranquillamente: “Non
ricordavo non mi avessi mai visto fare una cosa simile. Perdonami. Ma non
rischiavo nulla, davvero.”
“Come puoi
dirlo? Hai abbandonato le redini come se
nulla fosse!” sbottò Renke, ancora piccata.
Con una
scrollatina di spalle, lui replicò: “Non c’è bisogno delle redini per guidare
un cavallo. Basta che lui si fidi di te, e il resto non conta.”
“E da dove viene
fuori tutto questo grande sapere?” brontolò lei, ancora poco convinta.
Il suo sorriso
divenne misterioso e, mentre i suoi occhi tornavano a posarsi sul cavallo al
suo fianco, la voce di Aken si fece calda, persa nei ricordi.
“Una cara,
vecchia amica me lo insegnò, tanto tempo fa.”
“Doveva essere
un genio dell’equitazione, allora” commentò Renke, vagamente sorpresa da quella
confessione.
Una breve risata
lo accompagnò per alcuni attimi prima di dire: “Oh, direi proprio di sì.”
***
Rimboccate le
coperte ad Antalion, che stava dormendo della grossa dopo un giorno intero di
allenamenti con la daga, Eikhe chiuse alle sue spalle la porta della stanza.
Raggiunta
Sendala al tavolo del soggiorno, dove la donna aveva preparato le carte per
giocare a whist, le sorrise complice,
pronta a giovare.
Non ve ne fu il
tempo, però.
Eikhe sobbalzò
sorpresa al pari di Sendala, quando udì bussare alla porta di casa, in piena
notte, e senza che loro aspettassero alcuna visita.
Balzando in
piedi fulminea, Sendala afferrò la sua daga, poggiata contro un muro, mentre
Eikhe si avvicinava guardinga alla porta per chiedere: “Chi è?”
“Sono Kreathe di
Norfol. Spero ti ricorderai di me, giovane figlia sacra” esordì una voce oltre
la porta.
Sgranando gli
occhi per la sorpresa, Eikhe si affrettò a togliere la sbarra di ferro che
serrava il battente.
Aperta che ebbe
la porta, fissò basita la donna che, dieci anni addietro, aveva conosciuto
durante la seduta del Consiglio delle Anziane a Nestar.
Non l’aveva più
rivista, da quel giorno, ma rammentava perfettamente i suoi lineamenti
taglienti, da falco, e la sua voce possente e forte.
“Prego, entrate,
Madre. Siete la benvenuta” mormorò la padrona di casa, reclinando rispettosa il
capo mentre Sendala tornava a poggiare la daga contro la parete.
Osservando
l’interno della baita con ampi cenni del capo, la donna si accomodò al tavolo a
un cenno della sua ospite e disse: “Vi siete sistemate bene, a quanto pare.”
“Siamo state
aiutate” disse sinceramente Eikhe, chiedendosi nel contempo il perché di quella
visita a sorpresa.
“Non è stato
facile rintracciarti, figlia sacra” le confidò Kreathe, fissandola
curiosamente. “Ma possiamo anche dare la colpa al fatto che, in questi anni, ho
avuto un po’ troppe cose a cui pensare, per riuscire anche a scovarti in mezzo
alla foresta.”
“Perché mi
cercavate, Madre?” chiese cortesemente Eikhe, prima di aggiungere: “Posso
offrirvi qualcosa?”
Scuotendo il
capo con un gentile sorriso, Kreathe andò subito al punto.
“In questi anni,
io e altre figlie sacre abbiamo deciso di sganciarci completamente dalle nostre
tribù di appartenenza per creare un nuovo ordine, una nuova via, un nuovo
inizio. Poco alla volta, roccia dopo roccia, tronco dopo tronco, abbiamo
innalzato un nuovo villaggio, a due giorni di cammino da Marhna, che abbiamo
chiamato Hyo-den, la casa di Hyo, in
onore della nostra capostipite. Lì, la vita
scorre diversamente rispetto agli altri villaggi di donne-lupo. Abbiamo
ritenuto saggio seguire ciò che tu e poche altre figlie sacre avete fatto, e
cioè abbandonare l’odio per seguire solo il nostro cuore.”
“Parli di
Seletta?” chiese Eikhe, aggrottando la fronte.
Rammentava di
averne parlato a Kreathe poco prima della sua partenza ma, da quel lontano
giorno, non aveva più saputo nulla dell’amica e dei suoi figli.
Annuendo,
Kreathe la mise al corrente del suo destino.
“Siamo riuscite
a raggiungerla seguendo le tue indicazioni, e ora vive nel villaggio di Hyo-den
assieme a noi e i suoi figli.”
Timorosa di
stare solo sognando – davvero esisteva un luogo simile, per loro? – , Eikhe esalò:
“Ma… come avete potuto farlo? Le altre avranno sicuramente protestato!”
Scoppiando in
una risatina leggera, Kreathe replicò con malizia: “Pensi davvero che si
sarebbero messe contro quasi mille figlie sacre contemporaneamente?”
“Mille?!”
esclamò Eikhe prima di veder strabuzzare gli occhi di Sendala.
“Come si può
dire? Negli ultimi anni, c’è stata un’autentica fioritura, a quanto pare, e
molte figlie sacre di Vartas si sono unite a noi, una volta che la voce ha
raggiunto anche i loro villaggi” ridacchiò Kreathe, prima di aggiungere più
seriamente: “E’ un segno. Il segno
che stavamo aspettando. La nostra personale rivoluzione è iniziata e io,
assieme alle altre donne che compongono il Consiglio di Hyo-den, siamo partite
alla ricerca di coloro che ancora non avevano saputo di noi.”
“Incredibile”
sussurrò Eikhe, passandosi una mano sul volto, ancora basita di fronte a quella
notizia sconvolgente.
Aggrappata alla
tavola fino a farsi sbiancare le nocche, Sendala esclamò: “E’ una roba
portentosa!”
Con un risolino,
Kreathe proseguì nel racconto.
“Naturalmente,
l’accesso è libero anche alle normali donne-lupo. Non si vuole escludere
nessuna, ma le regole sono decisamente diverse, rispetto a un comune villaggio
di figlie del branco.”
“Oh” esalò
sorpresa Sendala, colta alla sprovvista dalla sua affermazione.
“Cosa vi ha
spinte a questa decisione, Kreathe?” chiese a quel punto Eikhe, turbata da un
dubbio che le faceva formicolare le mani.
Fattasi di colpo
ombrosa, la donna esalò un sospiro affranto, colmo di rabbia inespressa.
“Non ho potuto
impedire la morte di un figlio sacro, e questo mi ha spinta a muovermi una
volta per tutte.”
“Che intendi
dire?” sussurrò Eikhe, accigliandosi.
“La tragedia si
è ripetuta. Un altro figlio sacro è morto per la cecità delle donne-lupo. Non
si è ripetuto il Massacro di Eskit solo perché la madre è morta durante il
parto, non accudita e lasciata sola a morire nel suo stesso sangue” spiegò loro
Kreathe, stringendo i denti per la rabbia.
Un sospiro, e
proseguì nel suo tetro racconto.
“Niandre di
Margoth mi aveva mandata a cercare, avvisandomi che il parto sarebbe stato
imminente, ma giunsi con un giorno di ritardo al suo villaggio, troppo tardi
per lei e per il suo bambino. Mi dissi che non avrebbe mai dovuto ripetersi un
simile scempio, e così raccolsi attorno a me le donne che meglio conoscevo e
iniziammo la nostra opera di costruzione. Naturalmente, ho dovuto digerire
parecchi insulti ma, a conti fatti, nessuna ha mai realmente voluto mettersi
contro me e le altre, perché sapevano bene come sarebbe finita.”
Sbuffando, Eikhe
emise una risata altrettanto ruvida e commentò: “Certo! Non avrebbero mai
permesso che la freoha si
scatenasse.”
“Esatto” annuì
Kreathe, gelida.
“Quindi, ora
avete creato di sana pianta un villaggio dove portare avanti la vostra legge” riassunse Sendala,
annuendo lieta. “Beh, i miei complimenti.”
“Lo dirà il
tempo, se abbiamo fatto bene o male, ma per ora viviamo meglio così” asserì la
figlia sacra. “Unisciti a noi, Eikhe, assieme a tuo figlio e alla tua fidata
amica. Ne saremmo liete. Lietissime.”
“Anche se
Antalion è un maschio?” chiese titubante la giovane, indecisa se credere a quel
miracolo o meno.
Annuendo più
volte, Kreathe disse con orgoglio: “Mia figlia ha appena partorito un
maschietto, e anche lui è un figlio sacro. E il suo compagno ha deciso di
rimanere assieme a noi per vivere al villaggio. Inoltre, non dimenticarti i
maschietti di Seletta.”
Più che mai
sorpresa, non tanto dalla possibilità di tenere i figli maschi, ma di poter
vivere con gli uomini amati, Eikhe esalò: “Possono… gli uomini possono
realmente farlo? Rimanere accanto alle loro compagne?”
“Chi lo
desidera, può farlo, ma tutti sono perfettamente consapevoli che, al villaggio,
le regole sono diverse. Nessun uomo regnerà mai su noi donne-lupo. Potranno
vivere con noi, ma non elevarsi sopra di noi” dichiarò Kreathe con
orgoglio.
Levandosi in
piedi con un sorriso sulle labbra, Eikhe disse: “Allora, lo chiederò a mio
figlio.”
“Saggia
decisione, figlia sacra” annuì la donna, seguendola nella stanza del ragazzo
assieme a Sendala.
Armata di una
lanterna, Eikhe entrò nella stanza buia del figlio, illuminando dinanzi a sé
per non inciampare nei suoi giocattoli, sparsi disordinatamente a terra.
Accostandosi a
lui con un sorriso sulle labbra, sussurrò: “An, tesoro, svegliati.”
Occorsero due
richiami perché il bambino si svegliasse sonnacchioso, e fissasse i suoi occhi
velati sulle tre donne che, gaudenti, lo stavano osservando.
Passandosi
svogliatamente una mano dinanzi al viso per cancellare come un colpo di spugna
i segni del sonno, Antalion biascicò: “Che c’è, mamma? Va a fuoco la casa?”
Ridacchiando,
Eikhe si accomodò su un lato del letto, poggiando poi la lanterna sul comodino.
Scrutato il
figlio negli occhi con una nuova speranza nel cuore, disse: “La signora che
vedi si chiama Kreathe e sarebbe tanto felice se io, tu e Sendala andassimo ad
abitare nel suo villaggio.”
Accigliandosi
immediatamente, le residue tracce di sonno ora del tutto svanite, Antalion
fissò torvo Kreathe prima di borbottare: “Io sono un maschio. Nessun maschio
può vivere tra le donne-lupo, lo so fin troppo bene! Persino la zia Tyura non è
riuscita a convincere le sue compaesane a riammetterci a Nestar, sebbene ora
lei sia la loro Signora!”
Kreathe sorrise
comprensiva, di fronte al giusto nervosismo del ragazzino.
“Lo so,
figliolo. Certe volontà non si possono cancellare semplicemente volendolo. Ma
noi abbiamo costruito un villaggio dove le vecchie regole non valgono più. Saresti
ben accetto tra di noi, esattamente come tua madre e la tua madrina. Sei figlio
di Hevos, e a noi basta. Inoltre, avresti già compagnia maschile, visto che ho
un nipotino maschio.”
“Davvero,
mamma?” chiese dubbioso Antalion, fissandola ai limiti del terrore prima di
tornare a scrutare dubbioso la donna sconosciuta.
La speranza
galleggiava attorno a lui, ma era restio ad afferrarla, ed Eikhe ne comprendeva
benissimo i motivi.
In quegli anni
era cresciuto solo, lontano dai suoi coetanei, malvisto dalle donne-lupo e abituato
a vedere solo e unicamente adulti, che ben poco avevano a che fare con il suo
stile di vita.
Persino gli zii
Konis ed Enok, per quanto gli volessero bene, vivevano diversamente da lui, e
non potevano comprendere appieno cosa volesse dire essere un figlio sacro.
Lui era un’autentica
rarità, anche nel mondo delle figlie di Hevos.
Vivere in un
luogo in cui tutti e tutte avrebbero potuto comprenderlo, aiutarlo, amarlo, in cui altri bambini e bambine
avrebbero giocato con lui senza deriderlo, crescendo assieme a lui, sarebbe
stato stupendo.
Ma poteva cedere
al sogno, abbracciare quel sordo desiderio?
Abbracciando il
figlio, Eikhe diede voce alle sue speranze, dicendo: “Se tu sei d’accordo,
allora andremo.”
“Sì” sussurrò
lui, contro il suo petto. “Sì.”
***
Bloccandosi a
metà di un passo quando Sendala aprì bocca, Eikhe fissò l’amica a occhi
sgranati ed esalò: “Ho capito bene? Tu non verrai con noi?”
Arrossendo suo
malgrado, Sendala si morse imbarazzata un labbro prima di dire: “Beh, ecco,
vedi… mi piacerebbe, credimi. Ma insomma, io…”
Accigliandosi
leggermente, Eikhe strinse le braccia al petto e domandò severa: “Cosa non mi stai dicendo, Sendala?”
Reclinando il
capo perché l’amica non la fissasse con i suoi occhi inquisitori, Sendala disse
in un soffio: “Resto per Enok, ecco! L’ho detto!”
Spalancando
occhi e bocca in egual misura, Eikhe reclinò lentamente le braccia, basita suo
malgrado da quella notizia, prima di riuscire a dire: “Sii più chiara, per
favore.”
Ormai rossa in
volto oltre ogni ragionevole dubbio, Sendala parlò in fretta, gli occhi serrati
per l’imbarazzo.
“Per farla
breve, Enok mi piace, io piaccio a lui e alla sua famiglia e, visto che la sua
attività è qui a Marhna, sarebbe sciocco spostarci così tanto. Avevo già
pensato da tempo di chiederti il permesso di ampliare la baita, visto che è
tua, perché vorremo tanto…”
Sendala non fece
in tempo a terminare la frase che Eikhe, come un piccolo tornado, le si fiondò
addosso per abbracciarla con foga.
“Oh, dèi, non ci
posso credere! Oh, grazie, grazie!”
“Grazie, cosa?!”
esalò Sendala, cercando in qualche modo di respirare. “Eikhe, mi stai
strozzando…”
“Oh, scusa,
scusa!” esclamò l’amica, ridacchiando e lasciandola andare per guardarla in
viso. “Pensavo di essermi sbagliata, di aver interpretato male i vostri
sguardi, invece… oh, dèi, mi rendi così felice!”
“Ribadisco; felice
per cosa?! Perché non verrò con voi?” sbottò a quel punto Sendala, adombrandosi
in viso.
“Felice che due
delle persone che più amo al mondo si amino a loro volta” replicò Eikhe con
semplicità. “E ti capisco, non temere. Ha più senso rimanere qui, per voi due.
Ma tu che farai, a questo punto?”
Accigliandosi,
Sendala sbottò piccata: “Non penserai davvero che mi metterò dei vestiti come
quelli che porta Ildera o robe simili, spero?! Non se ne parla! Sono, e resto, una donna-lupo, e questo lui lo
sa benissimo. Lo accetta senza problemi. Persino sua madre è affascinata dalla
cosa, e suo padre è affascinato, quando mi vede maneggiare la daga come un
guerriero. No, non ci saranno problemi, da quel
punto di vista.”
“E da quale
punto di vista ci saranno dei problemi, allora?” chiese Eikhe, ora incuriosita.
Sospirando
afflitta, l’amica borbottò: “E’ dura ammettere che mi piaccia così tanto…”
Allo sguardo
accigliato di Eikhe, si corresse in fretta dicendo: “… d’accordo, che io ami così tanto un uomo quando, per anni,
li ho odiati, ma so che quel che sento per Enok non è semplice attrazione
fisica. Ne sono convinta.”
Sorridendo
all’amica, Eikhe annuì battendole una mano sulla spalla.
“Lo leggo nei
tuoi occhi. Stai facendo la cosa giusta. Unirete due culture, e questo non
potrà che essere un bene.”
“Oh, di certo i
suoi amici avranno da ridire, visto che non avrà una moglie convenzionale sotto
il tetto, o dentro il letto, ma lui ha detto che non
gliene importa nulla. Gli basta avere me” celiò Sendala, scrollando le spalle
prima di chiederle: “Pensi sia pazzo?”
“Enok? Forse, o
forse è solo uno spirito illuminato” asserì Eikhe prima di avvertire, assieme
all’amica, l’ululato solitario di un lupo tra le montagne.
Subito, Liar ed
Epos corsero come due forsennati fuori dalla baita, subito seguiti da Antalion
che, scrutando gli alti monti visibili dalla radura, esclamò: “Accidenti, che
ululato possente!”
Sia Eikhe che
Sendala sorrisero liete nell’udire quel suono struggente, e che portava con sé
un muto messaggio.
La giovane
figlia sacra, stringendo la mano dell’amica, chiosò: “Beh, direi che questo
chiude il cerchio.”
“E’ bello sapere
che Lui è d’accordo” esalò Sendala con reverenziale timore.
Eikhe assentì e,
nel darle una pacca sul braccio, corse fuori con lei ed esclamò al figlio e ai
lupi: “A chi arriva prima al ceppo?”
“Sììì” urlò
Antalion, mettendosi a correre verso la parte opposta della radura, dove si
trovava lo scheletro rinsecchito di un abete morto ormai da anni.
Eikhe restò nei
pressi della casa in silenzioso e assorto ascolto dell’ululato di Hevos,
sorridendo fiera e sentendosi libera di sperare, per la prima volta, dopo anni.
Certo, le
mancava ancora un pezzo importante del suo cuore, ma ora poteva scorgere un
avvenire migliore, per sé e il figlio. Sarebbero stati bene.
Hevos lo voleva.