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Autore: Lusty_Archivio    30/12/2011    18 recensioni
« Io sono qui per mio padre », mormorò, con un flebile tono di voce che pareva potersi estinguere da un momento all’altro, « Tu, invece? ».
Vegeta s’irrigidì. Fu solo per un fugace istante, ma sufficiente perché la maschera di perfezione e rigidezza dietro alla quale era solito nascondersi s’incrinasse visibilmente. Chi era realmente Goku, per lui? Solo un rivale? Un amico? Un fratello? Un compagno? Ora come ora, dinanzi a quel pezzo di pietra muto e freddo come la morte stessa, a Gohan sarebbe davvero piaciuto poter avere una risposta.
Nuovamente, Vegeta si voltò verso di lui. Il suo fu un vero e proprio scatto ferino che lo fece sobbalzare. Gli occhi dardeggianti di ira e frustrazione, le labbra strette e sottili pressate violentemente l’una contro l’altra, nel tentativo di celarne il tremore.

[Prima classificata al contest "Gohan and the Others" indetto da Lady Nazzumi]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gohan, Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Lusty

Titolo della storia: Lost.

Rating: Verde.

Avvertimenti: One-shot, Missing Moments.

Genere: Malinconico, triste, introspettivo.

Sfera evocata: Nera.

Prompt: Il figlio del nemico.

Personaggi: Gohan, Vegeta.

Blatereggiando: Dunque. Ho tipo passato due settimane immersa in un profondissimo dubbio amletico: scrivere una storia totalmente idiota come al mio solito o puntare a qualcosa di più serioso? Alla fine ho optato per la seconda cosa. Due erano le trame che avevo in mente e, escludendo quella stupida – che provvederò prima o poi ad obliare totalmente dal mio cervellino bacato, promesso – è spuntata fuori questa storia. Non ricordavo che scrivere cose malinconiche fosse così faticoso, ACCIDENTACCIO. Mi sono ascoltata a palla tutte le canzoni più deprimenti che ho nell’I-pod, è stato terribile. *piange* Beh. Allora. Questa storia è ambientata poco dopo il Cell Game. Due/Tre settimane o giù di lì. Periodo in cui, a mio parere, i personaggi non hanno ancora ben “digerito” la morte di Goku-chan, per intenderci. Per stendere questa fiction ho puntato a due fattori fondamentali: il possibile profondo turbamento di Gohan per aver perso il padre per via della sua eccessiva sicurezza e la frase di Vegeta “non combatterò mai più”, che secondo me è molto significativa. Non potendo scrivere shonen-ai per il contest, ho dovuto limitare molto il mio lato fangirlizzante Goku/Vegeta, ma vabbuò. Personalmente mi piace il Vegeta-terrestre, quello umanizzato carino e coccoloso, quindi così l’ho caratterizzato e sempre lo caratterizzerò. Gohan... beh, c’è da dire in verità che io non ho mai visto la saga di Cell. Eheh--*viene trucidata violentemente* Per scrivere del Gohan giovincello di questo periodo mi sono basata su alcuni capitoli del manga che ho appositamente scaricato e su alcune fan art. Incrocio le dita sperando che non sia saltato fuori un aborto di Gohan. *suda* Poooi, che altro dire. Ah, sì. L’ultima frase è estrapolata dalla puntata di Dragon Ball Kai in cui Goku si sacrifica. Significa “arrivederci, amici”. Capirete leggendo. Credo.

Questo è il primo contest a cui partecipo. Ed è pure la prima volta che scrivo una one shot seria. Ed è anche la prima volta che scrivo di Gohan, nonostante sia uno dei miei personaggi preferitissimi (?) di tutto Dragon Ball. Insomma, è una prima volta di molte cose. Ringraziamenti vari ed eventuali vanno a Lady Nazzumi che ha indetto il contest e ai baldi lettori che arriveranno alla fine di questa tortura fiction e lasceranno un commentino!

EDIT DEL 27/01/12: La one-shot si è classificata prima. Prima. PRIMA! SANTISSIMOSIGNOREBENEDETTONELL'ALTODEICIELIAMEN! Non mi sarei mai aspettata di finire in prima posizione. Quando ho letto i risultati, mi sono messa a saltare come una deficiente in giro per casa. I'm ssssooooo happy! QUI trovate la valutazione della giudiciA Lady Nazzumi! :3

 

Disclaimer » Dragon Ball © Akira Toriyama.


 

 

 

  

 

 Camminava piano, posando soffici passi sull’erba umida e verdeggiante. Tutt’attorno non si udiva alcun rumore, se non il ronzio soffuso di qualche insetto e lo scrosciante movimento delle fronde, mosse dal leggero venticello spirante. Il sole tramontava dietro ai monti, inondando di un opaco color arancione la radura sottostante, e gli alberi spiccavano maestosi verso l’alto, quasi a voler toccare il cielo.

Gohan proseguiva lentamente, osservando quel bucolico paesaggio senza realmente vederlo. Conosceva ormai a memoria il breve lasso di strada, tanto che probabilmente sarebbe stato in grado di percorrerlo persino ad occhi chiusi. Quercia. Masso. Stagno. Quercia. Quercia. Reggeva un fagotto in una mano ed un piccolo fascio di fiori appena colti nell’altra, entrambi trattenuti delicatamente tra le dita come se fatti di cristallo. Dentro al cartoccio, avvolto accuratamente in un fazzoletto blu scuro, sua madre aveva riposto una modesta porzione di cibo, come ormai di consuetudine. Era una piccola offerta da portare a Goku.

Da quando era morto, al termine dello scontro con Cell, la gradevole atmosfera familiare che permeava nella loro umile casa era scemata tutt’un tratto, lasciando spazio solo ad un greve senso di frustrazione e di mancanza. Chichi aveva iniziato a dedicarsi maniacalmente alle faccende domestiche, cercando disperatamente un modo per sopperire all’asfissiante senso di svuotamento che la pervadeva, mentre lui aveva avviato una feroce lotta contro se stesso, i sensi di colpa e l'impotenza che avevano preso a brulicargli famelicamente nello stomaco divorandolo dall’interno.

Si sentiva stanco, inaridito come un deserto, totalmente privo di quell’ingenua esuberanza che qualsiasi ragazzo della sua età sarebbe stato in diritto di possedere. Un’anima vecchia in un corpo giovane, e nient’altro.

Fissò la strada dinanzi a sé con sguardo apatico, lasciando che il proprio corpo si muovesse meccanicamente oltre il dedalo di vegetazione, verso la piccola, amena radura dove la lapide in memoria di suo padre era stata innalzata. Era l’unica traccia che ancora rimaneva di lui sulla Terra, oltre ad un paio di tute stropicciate abbandonate sul letto che sua madre non aveva avuto la forza di buttar via. Di lui, del suo papà, non restava null’altro: solo delle sporche divise sgualcite, una lastra di pietra ed un nome inciso sulla sua fredda superficie. Segni concreti e tangibili, eppure mostruosamente distanti.

Tirò sul col naso, raschiando nervosamente la morbida stoffa stretta in mano. Gli occhi erano lucidi e il paesaggio al di sotto della patina liquida che era la sua vista tremolava, ma Gohan non pianse. Si era ripromesso che non l’avrebbe mai più fatto, per sua madre e per se stesso, e così sarebbe stato. D’altronde, anche se avesse voluto, sembrava non avesse nemmeno più lacrime da versare; erano tutte affogate nella stoffa del suo cuscino, l’unico fautore in quelle notti dove la tristezza e lo sconforto lo avevano assalito come bestie voraci, intervallando in maniera straziante l’immagine sorridente di suo padre alla dolorosa consapevolezza che nulla, assolutamente nulla, gli avrebbe mai più riportato indietro quell’allegra espressione paterna che aveva sempre animato le sue giornate.

Oltrepassò un piccolo stuolo di margherite, girandoci attorno per evitare di calpestarle. Nella battaglia contro Cell aveva dato prova della propria incredibile potenza, della sua forza sopita, peculiare della razza da cui derivava, ma probabilmente ora sarebbe bastato solo un alito di vento per spezzarlo, proprio come un fragile stelo. Si sentiva debole, privo di forze e di qualsiasi stimolo. Anche gli allenamenti con Piccolo-san erano cessati, oramai senza alcun senso: volontariamente aveva smesso di schivare i pugni del suo maestro per lasciarsi colpire, nella malsana speranza che, in qualche modo, il dolore fisico potesse espiare la profonda colpa che sentiva dentro.

Suo padre era morto per causa sua? Per il suo orgoglio? Per la sua irresponsabilità? Per la sua debolezza?

Sì. Sì. È colpa tua. È colpa tua.

In un loop perverso, una sibilante vocina s’insinuava costantemente nei suoi pensieri, e glielo ripeteva, mordace: è solo colpa tua, Gohan.

Abbassò per un istante lo sguardo, per poi rialzarlo rapidamente verso l’orizzonte. Ormai era quasi arrivato. Le sagome degli alberi avevano preso a ridursi progressivamente, fino a lasciare spazio solo ad un piccolo ammucchio di grossi cespugli. Li valicò inoltrandosi faticosamente tra il fogliame, e fu allora che se ne accorse.

Esattamente al centro della radura tinteggiata d’arancio, dinanzi alla lapide commemorativa, vi era Vegeta. Stava in piedi, immobile, lo sguardo apatico fisso sulla stele di pietra e le mani mollemente chiuse in pugno, nascoste dai guanti lerci di terra. Pareva una statua di sabbia, in procinto di sgretolarsi da un momento all’altro.

Gohan strinse le labbra, così forte da farle sbiancare, decidendo di rimanere nascosto tra le fronde. L’incertezza e il disagio lo pietrificarono, formicolandogli i muscoli, il respiro prese a tumultuare nella cassa toracica con la stessa energia di un ciclone.

Perché Vegeta era lì? Cosa voleva?

In risposta alle sue domande vi fu solo un muto, torpido silenzio.

Una sgradevole sensazione rimescolante nello stomaco non fece che aumentare il suo profondo senso di nausea, divenuto ormai una costante in quelle abuliche giornate. Non voleva parlare con lui. Non voleva vederlo. Non voleva farsi vedere. Voleva solo poter stare con suo padre. O almeno con ciò che di lui rimaneva. Da solo.

La solitudine nella quale si immergeva era l’unica cosa che, in qualche modo, era in grado di dargli conforto. Necessitava di rimanere solo, di fuggire da quella realtà crudele che gli era stata imposta e di estraniarsi totalmente da essa. Era come desiderare di voler separarsi dalla propria ombra, nascondendosi scioccamente nel buio, e in quel momento Vegeta rappresentava la luce dalla quale tentava di scappare, ciò che rifletteva la sua ombra a terra: l’essere Saiyan, l’essere destinato a combattere e a possedere una natura ferina e bellicosa, capace solo di causare dolore e violenza. Quella natura lo spaventava, lo disgustava. La sentiva viscida dentro il suo corpo, come un germe infetto. Da essa era nato un malsano piacere nello scontro contro Cell, da essa era derivata la morte di suo padre. Avrebbe mai potuto non rinnegarla, forse?

Strinse il pacchetto tra le dita, trattenendo il fiato. Sentiva fracasso nella testa. Le tempie scoppiavano e pulsavano. Il cuore scalpitava, si accartocciava e si contorceva sofferente nel petto, come se fosse in procinto di schizzare via da un momento all’altro.

Vegeta era distante da lui, di spalle, e dalla posizione in cui si trovava poteva solo intravedergli parzialmente il volto. Era granitico, come sempre, avvolto in una spirale di ombre scure che gli ottenebravano gran parte dei lineamenti, rendendolo ancora più imperscrutabile di quanto già non fosse. Non lo capiva. Non l’avrebbe mai capito. Ora come ora, però, non gli importava nemmeno. Voleva solo che lo lasciasse solo.

Abbassò le ciglia, sentendole vagamente umide contro lo zigomo, e sospirò piano. Il respiro incespicò faticosamente tra le pareti della gola, raschiando e vibrando come un sibilo del vento. Ad un tratto, come se fosse bastato quell’inavvertibile rumore per palesare la sua presenza, Vegeta si voltò in sua direzione, gli occhi di pece affilati come coltelli. I riflessi delle sue iridi avevano la medesima, scura tonalità del sangue rappreso. Sotto quello sguardo austero ed impenetrabile Gohan si sentì piccolo ed insignificante, come l’essere umano dinanzi alla vastità dell’oceano o l’immensità dello spazio. Un brivido di disagio lo percosse da capo a piedi, facendolo barcollare. Trattenne il respiro e fulmineamente azzerò la propria aura, rimproverandosi mentalmente per non averlo fatto prima. Fu inutile.

« Credi di voler rimanere nascosto come un patetico topo di fogna ancora per molto, stupido moccioso? ». La voce austera del principe sferzò l’aria statica, provocando il medesimo effetto soffocante di un pugno scagliato in pieno stomaco. Sguardo superbo ed incaparbito, come sempre. Parole cattive, come sempre. Eppure vi era qualcosa di diverso. Come se al di sotto della pelle di pietra che lo avvolgeva vi fosse qualcos’altro, delicato ed appena intravedibile come una bianca patina di cartapesta,

Gohan si irrigidì, stringendo spasmodicamente le dita attorno la stoffa del suo pacchetto di cibo come se potesse da essa ricavarne l’energia per muoversi. Fu solo un istante, perché immediatamente, e nuovamente, l’apatia riprese possesso nel suo corpo. Era come se dentro di sé vi fosse una lotta costante tra opposti, tra voglia di riprendere a vivere e di lasciarsi andare definitivamente. Emerse dal fogliame con uno scrosciante fruscio sommesso, sospirando piano.

Raggiunse Vegeta lentamente, sbocconcellando a piccoli passi l’esigua distanza che s’interponeva tra loro. Si soffermò dinanzi alla lapide, posando su di essa uno sguardo malinconico e stanco. Poi si volse verso il principe e schiuse le labbra. La voce faticò a risalire lungo la gola. Era da tanto che non parlava.

« Volevo stare da solo », mormorò, flebilmente.

Vegeta gli scoccò uno sguardo indecifrabile, le braccia conserte al petto. « Che coincidenza. Anche io ». Il suo era un tono ironico, ma al contempo pieno di un’amara acredine che non pareva essere semplicemente finalizzata alla derisione.

Rimasero entrambi in silenzio, avvolgendosi all’interno di una bolla muta, estraniata dall’ambiente circostante. Un alito di vento spirò debolmente nella radura, accarezzando l’erba a terra e provocando un lento, assuefacente fruscio.

Gohan non poté fare a meno di pensare, ancora una volta, al fatto che in Vegeta vi fosse qualcosa di strano. Forse era la languida luce negli occhi, forse era l’espressione impercettibilmente frustrata dipinta sul volto, forse era il tono di voce apatico, o forse era semplicemente l’insieme di tutte e tre le cose. Era come se quel sottile strato bianco di cartapesta nascosto in lui stesse affiorando pian piano, portando con sé un’emotività e una vaga fragilità che non gli erano mai state peculiari. Risultava innaturale, eppure non così terribilmente stonante come avrebbe dovuto essere. Forse suo padre aveva scorto quell’atipico lato sin da subito, e forse per quello si era legato così tanto a lui, nonostante tutto.

« Perché sei qui? », domandò, debolmente.

Dalla battaglia contro Cell, Vegeta si era come volatilizzato. Era scomparso senza lasciare traccia, come un bruscolo di polvere al vento. L’unico ponte che in qualche modo li collegava era crollato, d’altronde. Non c’era davvero nulla che li legasse, all’infuori di Goku. Era una consapevolezza abbastanza triste.

Il Saiyan lo fissò, in silenzio. Avevo uno sguardo gelido come ghiaccio, e quel contatto visivo lo fece rabbrividire. C’era così tanta tristezza impressa e malcelata in quelle iridi scure da essere in grado schiacciarlo. Si guardarono per qualche istante, poi Vegeta volse lentamente lo sguardo dinanzi a sé, posandolo sulla lapide fredda.

« Che domanda stupida », disse, sprezzante. Poi nient’altro.

Gohan titubò per qualche istante, alzando gli occhi. Il cielo che si stendeva immenso sopra la testa pareva ora un ammasso informe di vapore soffuso e venato, tinto dei colori caldi del crepuscolo. Le nuvole erano grosse e compatte, incendiate di rosso. Nelle loro forme scorgeva la sua famiglia, e Piccolo-san, e ancora il suo papà, sorridente. Un’ulteriore ondata di malinconia lo avvolse.

« Io sono qui per mio padre », mormorò, con un flebile tono di voce che pareva potersi estinguere da un momento all’altro, « Tu, invece? ».

Vegeta s’irrigidì. Fu solo per un fugace istante, ma sufficiente perché la maschera di perfezione e rigidezza dietro alla quale era solito nascondersi s’incrinasse visibilmente. Chi era realmente Goku, per lui? Solo un rivale? Un amico? Un fratello? Un compagno? Ora come ora, dinanzi a quel pezzo di pietra muto e freddo come la morte stessa, a Gohan sarebbe davvero piaciuto poter avere una risposta.

Nuovamente, Vegeta si voltò verso di lui. Il suo fu un vero e proprio scatto ferino che lo fece sobbalzare. Gli occhi dardeggianti di ira e frustrazione, le labbra strette e sottili pressate violentemente l’una contro l’altra, nel tentativo di celarne il tremore.

« Per chi sono qui...? ». La sua voce tremava di rabbia, le mani serrate in pugno con essa. Era come se stesse disperatamente cercando di combattere contro ogni emozione che minacciava di traboccare dal suo corpo, battendo con forza contro il petto e sussultandogli in gola. « Sono qui a perdere il mio tempo per uno stupido, dannato idiota senza cervello! Per un’insulsa, patetica caricatura della sua razza che è andata a suicidarsi nel modo più idiota che esiste! Per niente! Niente! NIENTE! ».

Proruppe in un urlo tonante, che rimbombò come un tuono, propagandosi per ogni anfratto di quei monti estranei al mondo. L’aria satura di elettricità parve farsi ancora più soffocante, e tutto s’immobilizzò bruscamente. Il vento, il ronzio degli insetti, il fruscio dell’erba. Per qualche interminabile istante tutto ciò che si udì fu solo la sua voce echeggiante, che si propagò con la medesima intensità di un incendio fino ad estinguersi come una debole fiammella.

Gohan sussultò a quella reazione, e il fagotto fino a quel momento tenuto stretto tra le braccia scivolò lentamente dalla sua presa, cadendo sull’erba ai suoi piedi con un suono ovattato. Fissò Vegeta stordito e confuso, senza nemmeno accorgersi di stare trattenendo il fiato. Lo vide stringere spasmodicamente le labbra fino a sbiancarle, abbassare le palpebre e coprirsi rabbiosamente il volto con una mano. Era la prima volta che si ritrovava dinanzi ad un principe del genere, così totalmente, irriconoscibilmente stravolto. Non poteva vederla, né sentirla, ma era come se la maschera di pietra tenuta costantemente sul quel volto regale si fosse sfracellata a terra, esplodendo in mille pezzi e dimostrando la medesima fragilità di un cristallo. Non avrebbe mai creduto che anche lo spietato principe dei Saiyan potesse venire assoggettato dalle emozioni come un semplice, banale essere umano. Quella consapevolezza gli strinse il petto in una presa mordace.

Poi però, alla stessa velocità di un lampo, la sorpresa fece spazio alla rabbia.

« Non... NON PARLARE COSÍ DI MIO PADRE! », urlò, tanto forte da sentire la gola bruciare. Improvvisamente, come se quell’urlo liberatorio fosse stato il loro lasciapassare, nuove lacrime cominciarono a sgorgargli lungo le guance paonazze, pizzicandolo e accoltellandolo come tanti spilli acuminati. Il Saiyan lo fissò in un fascio di nervi tesi, sgranando degli occhi che parevano essere immersi in una dimensione distorta. « È stata colpa mia! È morto per causa mia! ». Gli si lanciò addosso, e pugni privi di reale forza presero ad affondare contro la liscia superficie della battle suit. « Smettila di offenderlo! Non te lo permetto! Se devi prendertela con qualcuno, prenditela con me! ».

Vegeta strabuzzò gli occhi. Rimase immobile, lasciandosi colpire. Sentiva il corpo di Gohan tremare da capo a piedi contro il suo, i muscoli vibrare e fremere senza alcun controllo come molle tese. Dentro la sua mentre, il vuoto. Attorno a sé, il nulla. Vi erano solo lui e il figlio del suo nemico in lacrime, gli occhi gonfi, il volto stravolto e i canini affondati disperatamente nel labbro tumefatto, nel vano tentativo di controllare i singhiozzi.

Perché? Che cos’era quella situazione? Cosa doveva fare?

Si sentì come un naufrago nel bel mezzo dell’oceano: privo di forze, disorientato, debole. Cos’era quell’ignominiosa fragilità che si sentiva addosso? Perché non riusciva a liberarsene? Perché non si sentiva disgustato come avrebbe dovuto essere? Perché non vi era nulla alla quale anche lui potesse appigliarsi?

Lentamente Gohan smise di colpirlo, abbandonandosi ad incontrollati ed affannati singhiozzi contro il suo petto. Lui non lo respinse. Era vivo, ma non respirava. Era in piedi, ma il corpo era a pezzi. Si sentiva inanimato come una bambola. Rimase rigido come una statua, le braccia molli lungo i fianchi e lo sguardo opaco posato apaticamente su quel SON GOKU inciso nella pietra. Qualcosa gli compresse violentemente il petto, facendogli male. Non era il solito dolore fisico, non era qualcosa di sopportabile come la sofferenza che il suo corpo pativa durante una battaglia. Era qualcosa che stava germinando internamente a sé, e che non poteva vedere né contrastare.

« È stata tutta colpa mia », singhiozzò Gohan, mordendosi il labbro con tanta foga da spaccarlo. Sentiva la frustrazione montargli dentro, assieme al sapore ferroso del sangue che iniziava ad invadergli pigramente la bocca. « Se solo l’avessi ascoltato, se solo fossi stato più forte... Ora lui non sarebbe morto ».

Vegeta abbassò lentamente le palpebre, respirando piano, in maniera quasi impercettibile. Provava rabbia, frustrazione, impotenza, disgusto, odio, rimorso, rimpianto. Forse provava tutto. O forse non provava niente. Lentamente, come squarci frammentati di una pellicola seppellita per anni e anni in mezzo alla polvere, stralci della battaglia con Cell presero a scorrere nella sua mente. Ogni immagine fu un pugno nello stomaco, ogni scena un colpo al suo orgoglio.

Rivide il volto tumefatto e sporco di terra di quel moccioso. Nonostante l’età, aveva dato tutto se stesso. Aveva combattuto ferocemente, andando contro la sua stessa natura così stupidamente docile e remissiva. La ferocia dello scontro aveva trasformato persino lui in una bestia, portandolo a desiderare la sofferenza del proprio nemico come solo un Saiyan purosangue avrebbe potuto volere. Era come se la sua reale persona fosse stata spezzata in due, tra libertà e costrizione.

Solo adesso, mentre sentiva le sue lacrime salate e i singulti spezzati contro il proprio petto, Vegeta si domandò quanto quel marmocchio avesse potuto soffrire. Non era poi così diverso da ciò che aveva provato lui, a suo tempo, quando a sì e no dieci anni sovrastava cataste di cadaveri come se fossero giocattoli. Quanto aveva potuto soffrire, il figlio del suo nemico?

 

E perché gli importava, dannazione?

 

« Non è stata colpa tua », sospirò. « Non è stata colpa tua », ripeté con rabbia, strizzando gli occhi.

È stata colpa mia. Sono debole.

Combattere e rafforzarsi, quello era il suo destino.

Combattere innalzandosi nella gloria o affondando nel disonore.

Combattere fino a sentire i nervi e i muscoli bruciare e crepitare come brace sul fuoco.

Combattere fino all’ultimo sprazzo d’energia in corpo.

Combattere fino alla morte.

Il desiderio di vittoria doveva essere il suo ossigeno, il sangue nemico la sua seconda pelle.

Combattere e rafforzarsi, era quello il suo destino.

Ma Kakaroth era morto, e lottare non aveva più senso.

Se chiudeva gli occhi, Vegeta poteva ancora sentire quel liquido rosso vermiglio, cicatrice invisibile delle infinite battaglie combattute, bagnargli caldo il corpo in un tocco viscoso, scivolandogli lungo i lineamenti e inzaccherandogli la pelle.

Si passò una mano lungo volto, infastidito.

Ciò che gli rigava la guancia in quel momento, però, non era sangue.

Era solo una lacrima.

 

 

“Bye bye, minna”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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