Overboard
You taste like whiskey when you kiss me
I’ll give up anything again to be your baby doll
Yeah, this time I’m not leaving without you
You said sit back down where you belong
In the corner of my bar with your high heels on
Sit back down on the couch where we
made love for the first time
You and I – Lady Gaga
*****************
Dalla terrazza osservò il panorama, perdendosi nei suoi pensieri e
lasciando che la sua mente rimandasse flashback come quando aveva aspettato con
Julia l’alba sulla terrazza dell’ospedale; anche lì si era persa in ricordi
assurdi ed elucubrazioni mentali non indifferenti. Ma per cosa, poi?
Fu il suono di una voce conosciuta a farla sobbalzare; si sporse dalla
terrazza e, quando vide chi vide, per poco non si sentì mancare.
Che ci faceva lui lì?
Quel vestito di pizzo che aveva indosso
era elegante ma terribilmente scomodo, soprattutto se si dovevano percorrere
decine di rampe a piedi.
Non inciampando solo per essersi tenuta
al passamano, e reggendo la maschera veneziana che indossava sul viso, Mao
svolazzò sui gradini toccandoli appena. Aveva troppa fretta, il cuore le stava
battendo all’impazzata e l’unica cosa per lei sensata era, in quel momento,
andare in giardino.
Qualcuno stava discutendo con i
buttafuori che, appostati davanti il cancello, vietavano o acconsentivano
l’ingresso a seconda che il nome di una persona fosse sulla lista o meno.
Sentendo la persona di cui aveva udito
la voce cercare di farli ragionare, veleggiò verso la fine della villa, verso
le ringhiere che disegnavano motivi intrecciati e, verso dove voleva andare.
“Che ci fai qui?”
Avrebbe potuto scegliere una domanda
migliore, più accurata o elegante, ma le labbra le si erano dischiuse prima che
potesse pensare.
“Mao.”
Rei la fissò attonito, con occhi
sgranati, spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua intera figura.
Lanciandogli una breve occhiata, si
rivolse agli uomini vestiti di nero. “Potreste lasciarlo entrare?”
Uno dei due scosse la testa, categorico.
“Il suo nome non è sulla lista. Niente nome, niente festa.”
Capendo che quel buttafuori aveva
ricevuto ordini precisi fu lei ad uscire, ponendosi proprio di fronte al
ragazzo. “Che ci fai qui?”
La fissò negli occhi, poi prese un
grosso sospiro. “Ci ho pensato, e ho capito che ti amo.”
Sgranando gli occhi per la frase
inattesa, incrociò le braccia con fare omicida. “Beh, buongiorno.” Sibilò.
“No, fammi dire: l’avevo realizzato già
prima, ma quando te ne sei andata, giorni fa, ho capito quanto sono profondi i
miei sentimenti per te.” Spiegò, parlando veloce.
“Hai trascorso questo periodo lontana da
me, e io non voglio che accada mai più. Sono stato male, ho sofferto come non
mai, e non era perché sei importante per la tribù, per tuo fratello o chi
altri. Tu sei importante per me.” La
guardò negli occhi come se volesse farla sciogliere.
“Ti ho fatto soffrire in questi anni, e
mi detesto per questo, ma ho capito – tardi, lo so – che non potrei mai stare
senza di te. Non importa cosa tu abbia fatto in questi mesi, o quanto tu sia
cambiata. Non mi importa delle cose passate; ciò che voglio sapere è se ho un
posto nel tuo futuro.”
Non disse nulla per svariati secondi; si
limitò a fissarlo, ostile e contrariata nemmeno fosse il più vile tra gli
uomini. Lo guardò dall’alto in basso, imbronciata ed affilando lo sguardo,
facendogli temere il peggio.
“Mao?”
“Ecco, lo sapevo.” Sibilò. Il ragazzo
stava per domandarle cosa avesse senonché non intravide i suoi occhi lucidi e
le labbra piegate in una smorfia. “Sei un dannatissimo paraculo!” Sbottò,
scuotendo la testa. “Vieni qui, mi fai questo discorso e poi mi dici cosa
dovrei dire, io?” singhiozzò, sistemandosi la maschera veneziana che aveva sul
volto. “Ti aspetti che ti dica che ti amo? E invece ti odio, maledizione!” fece, scuotendo la testa.
“E non sai nemmeno quanto!”
Sorrise, avvicinandolesi
e prendendola tra le braccia. “Più o meno quanto io ti amo.” Le sussurrò, prima
di toglierle la maschera e baciarla.
…Tre giorni dopo…
Incuriosito dalle voci oltre la porta
della suite, dovette fare una faccia strana quando Sergey
gli aprì la porta, perché il compagno di squadra non appena lo vide sghignazzò.
Nella suite della Neoborg
Kai e Hilary erano seduti l’uno di fronte all’altra discutendo
animatamente di qualcosa inerente alla musica e, nel frattempo, Boris era
seduto quasi in disparte, sprofondato sul divano, intervenendo sporadicamente.
Da quando il russo di origini nipponiche
e la cantante delle Cloth Dolls avevano
annunciato di stare insieme non era raro vederli, come in quel frangente, tutti
e due, magari l’uno a casa dell’altra,.
“Dimmi come fanno a cambiare i
lineamenti.” Smanettò Hilary, scostandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
Tra i loro hobby preferiti vi era senza
dubbio parlare – o, meglio, la bruna giapponese parlava e Kai
rispondeva brevemente a tono – di tutto, dalla polvere nuova, alle noccioline,
all’universo; giocare a beyblade – e lì era il russo
a giocare e la ragazza a fare il tifo – e poi, senza dubbio, fare dei giri
sulla Kawasaki, magari portando anche il cagnolino di lei.
“Paul McCartney aveva palesemente il
naso dritto, era di altezza media per un uomo; dopo il ’65 il suo naso divenne
curvo e la sua altezza si impennò. Come?”
Kai inarcò le sopracciglia
quel tanto che bastava per far intendere cosa ne pensasse di tutto quello che
la ragazza aveva appena detto. “Le leggende metropolitane si fomentano con un
nonnulla; non è da escludere, poi che i Beatles abbiano giocato con la leggenda
che stava nascendo.”
La bruna scosse la testa. “Non ci credo:
se ascolti Eleanor Rigby
ti vengono i brividi, soprattutto se pensi al fatto che Padre McKenzie doveva chiamarsi Padre McCartney.”
Boris sogghignò. “Si chiama humor nero.”
La ragazza fece una smorfia. “O cattivo
gusto.”
Yuri prese a tossicchiare piuttosto
rumorosamente, dopodiché quando tutti si voltarono verso di lui, si diresse
verso il frigobar andando a prendere una birra. “E’ divertente lo humor nero.”
Commentò, stappando la lattina.
Hilary sospirò. “Stavamo parlando della
presunta leggenda Paul is Dead – PID, secondo la quale Paul McCartney dei
Beatles è morto nel pieno del suo successo con il gruppo.” Il russo annuì
brevemente, facendole intuire che comprendeva di cosa stava parlando. “Secondo
me non è una leggenda, secondo Kai è una stronzata,
Boris a grandi linee segue Kai, e Sergey
non è interessato, vero?” fece, rivolgendosi all’altro ragazzo che per tutta
risposta alzò il pollice verso l’alto, facendola ridere.
Capendo di essere stato indirettamente
interpellato, Yuri sbuffò, trangugiando sotto lo sguardo ammonitore di Boris la
birra e posando la lattina poi vuota sul frigobar. “Gli hanno dedicato una
puntata dei Simpson, mi pare.”
La bruna si illuminò, prendendo a
battere le mani. “Sì! Quello dove Paul versione Simpson dice: Oh, a proposito: sono vivo e ne sono
sorpreso.” Alla sua imitazione convincente i russi si lasciarono sfuggire
una breve risata, che terminò quando Sergey fece
occhio a Boris, ed insieme annunciarono di dover andare ad allenarsi in
palestra.
Yuri fu troppo impegnato ad andare a
prendere un’altra birra per accorgersi dello sguardo d’intesa che si
scambiarono Kai e Hilary. Quando tornò a sedersi sul
divano dove prima era stato spaparanzato Boris, notò a malapena la ragazza del
suo compagno di squadra alzarsi e dirigersi verso il bagno. Sentì su di lui gli
occhi dell’unico componente dei Neoborg che era
rimasto nella suite, e gli ci vollero uno o due secondi per capire che
probabilmente era stato tutto architettato.
“Non è quella la soluzione.” Buttò lì il
suo compagno di squadra. “È solo una birra.”
“Alla mia salute ci penso io.” Sibilò, irrigidendosi.
“Si vede.” Ribatté, sardonico. “Sai, non
pensavo tu potessi essere il tipo che si rifugia nell’alcool quando litiga con
la sua donna, ma evidentemente…”
Quando Yuri scattò in piedi, i riflessi
di Kai erano pronti. “Ripetilo un po’.”
“Cosa, la tua donna?” fece, ad un passo da lui, minaccioso ed ironico. “Se è
bastato questo per farti saltare su, sei messo malissimo, fattelo dire.”
Si irrigidì fino allo spasmo, arrivando
persino a digrignare i denti. “Non provo nulla per la Fernandéz.”
Sibilò con tono quasi minaccioso.
Lo fissò con aria divertita, inarcando
brevemente le sopracciglia. “Ah, stavamo parlando di lei?” chiese
distrattamente.
Vinto, sconfitto e definitivamente
deluso da se stesso, Yuri si lasciò andare sul divano, chiudendosi in un
mutismo ostinato che durò diversi minuti, fino a quando non fu di nuovo Kai ad intervenire. “Il campionato finirà tra dieci giorni:
devi parlarle.”
“Per dirle che cosa?”
“Lo
sai, che cosa.”
Alla frase del ragazzo, l’altro si
richiuse nuovamente in diversi secondi di silenzio, non sapendo cosa ribattere,
anche perché qualsiasi risposta sarebbe parsa inutile ed infantile.
Hilary uscì dal bagno con passetti
misurati, e Yuri alzò gli occhi solo quando si accorse che la ragazza gli si
era avvicinata impercettibilmente e che gli si era posta accanto.
“Sono passati tre giorni da quando avete
litigato. Tu sei in stato catatonico e Julia pare affetta da iperattività: non
si ferma un attimo, organizza le sue giornate in maniera da non avere tempo per
la minima cosa – a malapena di dormire.”
Yuri inarcò brevemente le sopracciglia, mantenendo
un’espressione gelida ma di colpo rischiarato in viso. “E’ sempre stata pazza.”
Lei sorrise. “Probabile, ma renditi
conto di una cosa: state sprecando tempo.
Siamo esseri mortali, gli attimi che viviamo non tornano indietro, ogni
lasciata è persa irrimediabilmente.”
Al sorgere del suo sguardo
sarcasticamente interrogativo intervenne Kai. “Tra
dieci giorni sarete in due continenti diversi; se vuoi perderla, padrone. Spero
che alla lunga lei non divenga un tuo rimpianto.”
Le parole dell’amico avevano fatto
sgranare gli occhi al rosso moscovita che, fino ad allora, non aveva nemmeno
realizzato quanto vicina potesse essere la fine del torneo che aveva visto
l’intrecciarsi della sua vita con quella di una certa spagnola dal carattere
focoso.
Il punto era: dopo tutto quello che
avevano passato, lei come avrebbe reagito di fronte a quella novità? “Non
posso.” Fece, scuotendo la testa. “Lei-”
Hilary inarcò furiosamente le
sopracciglia, avendone abbastanza. “Non puoi?” sbottò, irata. “Se vuoi, puoi. C’è poco da fare.”
La fissò brevemente, come se
osservandola potesse capire se valeva veramente la pena di dirle ciò che aveva
in mente. “Tra me e… Lei c’erano delle regole. Se io-”
La bruna si domandò se ucciderlo seduta
stante. “Fanculo le regole!” sbottò. “Se non insegui quello che vuoi, non lo
avrai mai. Se non chiedi, la risposta sarà sempre no. Se non fai un passo
avanti, sarai sempre nello stesso posto.”
Quelle parole parvero scuoterlo definitivamente;
d’un tratto divenne persino più colorato del solito. E dallo sguardo che le
rivolse, la giapponese capì che la stava ringraziando, e sorrise, soddisfatta.
Quando spalancò la porta fu travolto da
un ciclone in piena regola, e non capì né come né perché, ma ad un certo punto si
ritrovò con quattro sacchettini tra le mani e un tonfo dietro di lui che
indicava la porta chiusa da un brusco scatto.
Gli ci vollero uno o due istanti per
voltarsi e capire che era appena entrata sua sorella.
“¡Hola a todos!” trillò la ragazza, battendo le
mani ed andandosi a buttare sul letto matrimoniale della suite senza paura di
disfarlo. “Venite a vedere!” esclamò, tentando di rappresentare la gioia fatta
persona. “Mathi: ¡animo!”
“Ciao Julia.” L’europea sorrise a
fatica, ancora pallida e provata dalle nausee che quella mattina si erano
ripetute frequentemente. “Scusami, ma non mi sento bene, e-”
Con un sorriso soddisfatto, la madrilena
prese quella che aveva tutta l’aria di essere una busta di supermercato. “Ecco
qua! Fette biscottate contro la nausea: prova!”
I due fidanzati scambiarono un’occhiata,
perplessi, poi Mathilda si sciolse in un sorriso. “Ti
ringrazio davvero.” Sussurrò, prendendo il pacchetto, scartandolo e iniziando a
sgranocchiare qualche fetta. “Spero funzionino; ultimamente non riesco a tenere
più niente.”
“Ma sì che funziona!” Julia ostentò
un’espressione decisa che non ammetteva repliche. “Mentre mangi, guarda qui: le
sorprese mica sono finite!”
Dalle varie buste tirò fuori un abito
premaman con la scritta Greatest surprise is in here e la freccia
indicante il futuro pancione, che fece sorridere tutti; un ciuccio verde – si giustificò con il fatto che,
secondo lei, fosse un colore neutro, ma vi fu una disputa quando Raùl le chiese se fosse neutro per i cuccioli degli alieni
o per quelli delle lucertole. Dovette intervenire Mathilda
assicurando che verde era un colore assolutamente eclettico, originale e che il
loro bambino si sarebbe quantomeno
distinto dagli altri. – l’ultimo cd dei Lifehouse,
il gruppo preferito di Mathilda e Raùl
(“La musica fa bene al bimbo!”) e infine due vestitini: uno da piccolo cowboy e
uno da fatina.
Julia stava per spiegare che li aveva
comprati entrambi perché non sapeva quale fosse il sesso del bambino, quando il
pianto della ragazza la fece restare senza parole: Raùl
prese a fissarla malissimo, nemmeno volesse ucciderla, ma lei, senza curarsene,
si avvicinò alla coetanea.
“¿Qué tal, Mathi?” fece, piano. “Non volevo farti piangere. ”
La ragazza scosse la testa, prendendo il
fazzoletto e asciugandosi gli occhi. “E’ c-che hai tirato fuori tutte queste
cose… C-Ci sei tu tutta contenta di diventare zia, io che ho deluso la mia
squadra, che ho rovinato la vita a tuo fratello…” singhiozzò, riprendendo
nuovamente a piangere.
Raùl le fu subito
accanto. “Non dirlo nemmeno: ci è capitato e basta. E poi-”
“Te
dimentichi qué
por restare incinta bisogna essere dos.” Intervenne Julia, aggrottando la fronte nel tentativo
di raffazzonare un discorso decente che fosse meno spagnolo possibile. “Te è capitato a diciannove años, està bien; te è capitato nel bel mezzo de un torneo, vale.” proferì energicamente. “Ma hai due piatti della bilancia, e
non è detto che uno sia migliore dell’altro per forza.”
L’europea, gli occhi ancora rossi per il
pianto, la fissò confusa. “Che intendi?”
Julia la fissò serissima. “Por un lado
dovrai dire adios
ad alcolici, notti brave, parolacce, serate con le amiche e probabilmente sesso
per almeno tre anni.”
Le sopracciglia del ragazzo si
inarcarono talmente da finirgli nei capelli. “Non è detto.” Sbottò.
La gemella gli rivolse uno sguardo
sadico. “Chi era che fino a tre anni,
noche dopo noche, dormiva
nel lettone de nuestros
patres porqué aveva paura dei mostri e dei tuoni?” la frase lo
zittì, e un’espressione di puro panico si tinse sul viso dello spagnolo.
“Ingrasserai come una mongolfiera, toda la tu vida ruoterà
attorno ad un esserino di nemmeno cinquanta centimetri che dipenderà totalmente da ti.” Riprese, nella
direzione della ragazza.
Mathilda trattenne a
stento le lacrime e, mentre pensava alla sua vita da adolescente, tutta fatta
di uscite con le amiche, con qualche ragazzo di tanto in tanto e beyblade, si domandò che fare. “Ma tu non eri contenta di
star per diventare zia?”
“Voy una cuñada hermosa, feliz e alegre. Le casalinghe disperate voglio
stiano solo in televisiòn.”
Fece, stiracchiandosi brevemente. “Ma hai pensato ai lati positivi?”*
Raùl le lanciò
un’occhiataccia. “Io sto ancora pensando a dove vendono la cintura di castità.”
Mandandolo a quel paese con un gesto di
noncuranza, si rivolse a Mathilda, fissandola negli
occhi. “Non te dirò che avere un
bambino es facil:
non lo è. Pero creo qué
che una persona che rinuncia possa pentirsene, e amaramente. Un bambino è una
vita che porta moltissima gioia e alegria, è una parte di voi due, e se vi rinunciate
rinuncerete alle risate, alle prime paroline, alla prima camminata, al ciuccio,
ai biberon, e alle scommesse che farete tra qualche mese su chi assomiglierà di
più.” Raccontò, accorata.
“Stai per donare un’altra vita, e non
credo vi sia una cosa più bella: fare la madre non deve essere né un dovere né
un obbligo por una mujer,
ma un diritto.” Sillabò, convinta. “E
poi non hai pensato che tu e Raùl potreste andare a
convivere e che gli insegnereste il beyblade?”
A quella frase i due fidanzati si
fissarono come stralunati, dopodiché si sorrisero, parzialmente increduli.
“Potrebbe essere un blader…” biascicò Raùl, come se non riuscisse a realizzarlo.
Mathilda, invece,
osservò il suo addome ancora piatto con un sorriso. “Quindi è a causa sua che
mi verranno le smagliature e mi cadranno le tette?”
Julia scrollò le spalle con noncuranza.
“Te le rifarai. Sai como
la pienso yo: non credo
al matrimonio; ma il botox, quello funziona sempre.”
*. “Voglio una cognata bella, felice e
allegra. Le casalinghe disperate voglio che stiano solo in televisione!”
Sistemò per bene la pasta frolla nella
teglia, facendo in modo che l’impasto aderisse alla perfezione con la sua
superficie per non creare pieghe o dislivelli; una volta fattolo si voltò incontrando
irrimediabilmente con lo sguardo colui che la stava aiutando: insieme versarono
la crema al cioccolato sopra il primo livello del dolce per poi formare con
ritagli di pasta frolla perfetti quadrati tra la pasta e la crema.
Misero la crostata nel forno, mettendosi
d’accordo sul tempo e modalità di cottura, e quando la ragazza iniziò a
trafficare con il timer, posizionandolo affinché suonasse al momento opportuno,
sentì dei rumori sospetti provenire dietro.
Voltandosi, non poté che sorridere,
rassegnata, alla vista di lui che, con un cucchiaino, raccoglieva i rimasugli
di crema al cioccolato per poi mangiarla.
Avevano sempre cucinato insieme, sin da
piccoli; quello di preparare deliziose ricette e poi di mangiucchiare gli
avanzi era sempre stata una loro prerogativa, ma non poteva biasimarlo… Lo
faceva anche lei!
Gli si avvicinò sfilandogli dolcemente
il cucchiaino dalle labbra e posandolo sul tavolo lì vicino; gli cinse il collo
con le mani, lasciando che i loro nasi si sfiorassero e poi, una volta
affondata in quell’oceano d’oro, non riuscì a non trattenere il respiro: lo
baciò delicatamente, lasciando che quel tocco divenisse presto più profondo,
dolce, consapevole.
Si sciolse da quel contatto solo quando
udì il rumore della segreteria telefonica; allora, solo allora sorrise,
ricambiata, appoggiando la sua fronte su quella di lui.
“Sai di cioccolata.” Sussurrò,
mordendosi scherzosamente le labbra.
Il ragazzo le carezzò scherzosamente una
guancia. “Ed è un male perché..?”
“A me piace la cioccolata e piaci tu;
chi ha parlato di male?”
Ebbero il tempo di darsi un breve bacio
che qualcuno bussò alla porta; lei sbuffò impercettibilmente, chiedendosi se
fosse quella pazza della sua coinquilina, ma si ritrovò davanti, invece, Max e Mariam che, a giudicare
dall’enorme sacchetto che portava l’americano, erano appena stati in un negozio
di musica.
“Voi non avete fatto spese, eh?”
“Sì, più o meno quanto voi non avete
cucinato.” le rispose a tono l’irlandese, facendo sospirare il suo ragazzo. “Si
sente profumo di dolci su tutto il pianerottolo.”
Da brava padrona di casa li fece
accomodare in salotto dove poco dopo vi
giunse anche lui: Mariam
notò, divertita, come gli occhi dell’amica si illuminassero al sol vederlo.
“Dove sono le altre?” Max posò il
sacchetto contenente le casse da stereo sul pavimento, per poi stiracchiarsi.
“E’ raro che questo pianerottolo sia tranquillo.”
“Almeno qualcosa è successa.” Ribatté Mariam. “Se Rei e Mao sono tornati a cucinare insieme, il pianeta
ha ritrovato la sua asse di rotazione.” La cinese le tirò un fazzoletto
appallottolato, schivato prontamente.
“Hilary è fuori per una passeggiatina
con Freddie. Julia è in giro da qualche parte come al
solito.” Spiegò Mao, facendo una smorfia. “Sono preoccupata per lei: ho provato
a parlarle, a farla ragionare, ma è come impazzita.”
“Sta reagendo con la sua proverbiale
grinta, non si sta ripiegando su se stessa.” Osservò Max, inarcando un
sopracciglio.
“E’ una grinta fittizia.” Lo contraddì la sua ragazza, facendo annuire Rei. “Fa la parte
della ragazza solare e grintosa per non farci preoccupare, ma non capisce che
siamo suoi amici, le vogliamo bene, e lo capiamo se finge o meno.”
“La situazione di Raùl
e Mathilda pensavo l’avesse presa peggio, invece devo
dire che l’ha aiutata.” Rifletté Mao. “A questo punto deve solo risolvere
questa faccenda.”
“Come Hilary e Takao
devono risolvere la loro.” Intervenne Max,
visibilmente preoccupato, facendo ammutolire tutti.
Nonostante fossero un paio di settimane
che era con lei, si ritrovava ancora a ridere quando vedeva il suo cucciolo
girare in tondo ed alzare la zampetta posteriore con aria sospetta, nemmeno
fosse un detective privato che cerca indizi su qualcosa.
Era tornata dal Plaza
mezz’ora prima, trovando Mao e Rei intenti a cucinare e Freddie
pronto ad annusare qualsiasi cosa fosse succulenta – quant’era goloso, quel
cane! – così aveva deciso sia per svagarsi che per distrarsi dall’ansia di
quella sera, di portarlo fuori per lasciare un po’ da soli i due amici.
Da quando si erano messi insieme, giorni
prima, ad un occhio poco attento sarebbero sembrati sempre gli stessi, con la
solita routine eccezione fatta per il parlarsi e lo stare insieme, ma non era
così: da tre giorni a quella parte Mao e Rei erano la felicità consacrata
persona. Tutto pareva risplendere in loro: gli occhi, l’incarnato, il sorriso.
Vedere una delle sue amiche più care
trovarsi in uno stato di estasi così profonda non poteva farle che piacere,
ragion per cui Hilary aveva definito quel periodo uno dei più rosei della sua
vita, o quasi. La situazione di Julia
e quella di Takao veleggiavano su di lei come due
nuvoloni neri.
“¡Hola!, ¿qué hacemos, pis?” si voltò di scatto, ma non rimase sorpresa nel
vederla: fulgidi capelli ramati, pelle abbronzata, sorriso luminoso che
spiccava su tutto… Tutto pareva perfetto in lei.
“Sì, sì; facciamo proprio pipì.” Le
sorrise, conducendo Freddie verso l’altro lato del
marciapiede. “Finiti i tuoi giri?”
La spagnola sorrise, soddisfatta. “Sono
stata da mi hermano:
ho convinto Mathilda a farme diventare tia!” annunciò,
battendo le mani in segno di contentezza. “Era così a terra, pobreta, ma ho
saputo tirarla su.”
“Meno male, almeno questo.” Sospirò,
sinceramente sollevata. “Se eri al Plaza è stato
strano non incontrarci; io ero nella suite della Neoborg.”
Buttò lì con fare casuale, scrollando le spalle.
Julia si irrigidì impercettibilmente,
dopodiché tornò ad ostentare il solito umore allegro di sempre. “¿Por qué?
Eravamo in suite diverse, nemmeno nello stesso piano, mica è tanto strano.”
Fece, fissando ostinatamente un punto davanti a sé. “Sai che ho comprato un
vestito-”
Hilary la interruppe, decisa: in quei
giorni era stata anche troppe volte testimone di cambiamenti improvvisi di
umore, di discorso, tutto per una ragazza che non si decideva a prendere di
petto una situazione, e che la affrontava nella maniera sbagliata.
“Alle sei c’è la prova finale nel garage
di Kassie.” Sbottò bruscamente, fissandola in maniera
quasi torva. “Alle undici e mezza ci esibiremo e sai anche tu che sarà la
nostra ultima esibizione.”
Julia sbatté gli occhi, allucinata. “Porqué me stai dicendo questo?”
“Perché voglio che tu sia al massimo
della forma, stasera e stanotte. Non trincerarti dietro questa stupida
allegria, mi fai solo venire voglia di urlare.”
“¡Despacio, chica!” sbottò la spagnola, gli occhi
verdi fiammeggianti di rabbia. “¡Modera el lenguaje!”*
Hilary la trapassò con lo sguardo.
“Moderare il linguaggio? Non vedo perché, se ciò che sto dicendo è la verità.”
Sibilò, volutamente velenosa come un serpente. “Che c’è, basta una lite con il
tuo lui per metterti KO? Dov’è la Julia Fernandèz che
conosco?” sentendo un impennamento dei toni e la tensione aumentare, Freddie abbaiò, calmato da una breve carezza sul dorso.
“¡Tu
no sé nada!”
sputò fuori la madrilena, irata. “Kai te quieres, te amas, ed è
ampiamente ricambiato, si vede. Non lo sai com’è avere delle determinate idee
riguardo gli uomini e l’amore e poi ritrovarsi fregata da queste idee stesse!
Non lo sai com’è innamorarsi dell’ultimo ragazzo a cui pensavi che non fa altro
che provocarti, farti saltare in aria, eccitarti e farti disperare! ¡Non lo sé! E non lo sai com’è vederlo
completamente indifferente nei tuoi confronti e capire che tra dieci giorni
sarete a continenti di distanza l’uno dall’altra… E che per lui non sarai altro
che una delle tante..!”
Quando scoppiò a piangere, le braccia di
Hilary si mossero da sole: circondò le spalle dell’amica dolcemente,
accarezzandola con tutto l’affetto che provava.
Sapeva come si sentiva: si erano
conosciute al terzo campionato di bey ed avevano legato immediatamente. Insieme
erano sempre state i due cicloni, i due pericoli pubblici del gruppo, e la loro
amicizia si era consolidata con davvero poco.
“So come ti senti.” Le sussurrò. “La mia
Julia innamorata… Non c’è più mondo.” Disse melodrammaticamente, aspirando la J
e beccandosi un pizzicotto sul fianco che la fece ridere.
La spagnola tirò su con il naso,
rivolgendole un sorriso. “Me avevi
provocato de proposito.”
La giapponese annuì stancamente. “Sì;
qualcuno doveva pur farti reagire. E ora che ci sono riuscita ti invito nuovamente
ad essere più forte di prima sia alle prove che all’Avalon.”
Si fissarono negli occhi, sorridendo, e Hilary capì all’istante ciò che la sua
amica le stava comunicando: ci puoi
scommettere: sarò forte, forte come un leone. Talmente forte da farti essere
orgogliosa di me.
Quando Freddie
abbaiò, le due scoppiarono a ridere, abbracciandosi. Intrapresero la strada del
ritorno insieme, sorridenti, parlando del più e del meno, ma fu un sms giunto
all’improvviso sul cellulare della nipponica che le fece restare senza parole.
Hilary, ha telefonato Shannon:
suo padre è guarito e lei è pronta a tornare.
* “Con calma, tesoro. Modera il
linguaggio.”
“Vi licenziate davvero?” l’intero staff
dell’Avalon, Mitch in
testa, stava fissando in maniera contrita e dispiaciuta Mao e Mariam, che avevano appena sganciato la bomba.
La cinese fissò tutti con un pizzico di
nostalgia: pareva il giorno prima che era stata assunta per caso, solo per aver
preso al volo un vassoio, e invece proprio in quel momento si ritrovava in
quella situazione che ai tempi le era parsa lontanissima.
“Mi sa di sì…” fece, stringendosi nelle
spalle. “Tra pochi giorni dovremo ripartire, e…” osservando i volti di tutti i
suoi colleghi che la osservavano rammaricati, ricordò tutti i bei momenti
passati a servire ai tavoli, a ridere e scherzare tra un lavoro e un altro, e i
flashback la inondarono per rischiare di farla commuovere da un secondo
all’altro.
“Era provvisorio, e si sapeva.”
Intervenne Mariam, ferma, dando man forte all’amica.
“Sono stati dei bei mesi, ma tutto deve finire.” Fece, scrollando le spalle.
Mitch abbozzò un
sorriso, realizzando di aver capito alla perfezione la personalità di quelle
due collaboratrici tanto preziose. “Siete state parte integrante dello staff a
tutti gli effetti, anche se per poco.” Iniziò. “Ci mancherete; la vostra
scrupolosità, puntualità e meticolosità nel lavoro è stata notata, così come la
vostra personalità, che ormai era parte del gruppo. Sappiate che, qualora
decidiate di tornare da queste parti, avrete sempre un posto qui.”
A quelle parole, gli occhi di Mao si
bagnarono di lacrime, Mariam abbozzò un sorriso
sincero e gli altri, i colleghi con i quali avevano condiviso battute, risate,
avventure in quei mesi, annuirono, fecero dei gesti che le fecero ridacchiare
oppure si avvicinarono per abbracciarle.
Il padrone di quel locale stette cinque
minuti ad osservare la scena, sorridendo compiaciuto e, ancora una volta
complimentandosi con il suo fiuto di saper individuare brave persone ed
eccellenti collaboratori.
Dopo qualche secondo batté le mani per
richiamare l’attenzione di tutti, e solo quando fu sicuro che tutti lo stessero
guardando, parlò: “Oggi è Venerdì, ed è l’ultima giornata di lavoro di queste
due ragazze: lavoriamo sodo anche più degli altri giorni per renderla
indimenticabile. Ho la sensazione che stanotte accadranno un bel po’ di cose!”
Con il cuore in gola di fronte la stanza
dell’hotel, Hilary avrebbe volentieri gradito mangiarsi le mani. A volte non
capiva da dove le derivasse tutto quell’orgoglio misto a paura. Un po’ come in
quel momento.
Sospirando per l’ennesima volta, non
seppe se ringraziare o mandare al diavolo quella titana
della sua migliore amica, che l’aveva praticamente portata di peso di fronte al
Plaza.
“Vuoi
continuare così, chica? Tra un poquito
de tiempo lui partirà, e voi sarete con lo stesso
cuore spezzato a causa de una tontaria!”
Che Julia avesse ragione le ci era
voluto un istante per comprenderlo. Non parlava con Takao
da tanti giorni, troppi per quanto lei riuscisse a sopportare. Così con la loro
foto in una mano e il suo cuore nell’altra, si apprestava ad andargli a
parlare. Più o meno.
Che
cacasotto che sono!
Bussò in un impeto di coraggio che le
venne a mancare quando udì un gran fracasso al di là della porta. Sbattendo gli
occhi, si fece forza a bussare ancora, e fu svariati secondi dopo che udì
qualcuno avvicinarsi.
“Hilary!”
Prima che Takao
potesse aggiungere qualsiasi altra cosa, lo fissò un istante ed iniziò a
sproloquiare. “Mi dispiace, mi dispiace tanto!” esclamò, entrando nella suite.
“Sono stata esagerata, fin troppo, ne sono consapevole; ma improvvisamente mi
sono sentita come se per te non contassi più nulla, e era una sensazione più
che sgradevole, credimi.” Fece, sospirando. “Ci siamo stati l’uno per l’altra
praticamente tutta la vita, e ora che improvvisamente fuggi per fare chissà che
con-” cacciare un urlo le venne spontaneo quando vide ciò che vide.
Trisha era
praticamente nuda, e stava cercando di raffazzonare alla bell’e meglio i suoi
vestiti per indossarli. Solo allora si accorse che Takao
aveva una vestaglia stretta in vita alla men peggio e che lei doveva aver
interrotto qualcosa.
“Oddio, copriti!” sbottò nella direzione
del suo migliore amico, mettendo le mani davanti agli occhi. “Quella cosa non è
assolutamente della tua taglia!”
Il ragazzo parve corrucciarsi. “Lo so.” Borbottò,
andando in bagno e prendendo i suoi vestiti.
Trisha si era
praticamente vestita, anche se indossava il top al contrario. “Che palle,
sempre che ti lamenti!”
Nonostante lei e la chitarrista della
sua band non si parlassero da giorni, Hilary ridusse gli occhi a due fessure. “Sono
capitata tra capo e collo per venirmi a scusare, e voi-”
Il bacio che le arrivò sulla guancia la
lasciò di stucco. L’altra le stava sorridendo, contenta e con un sorrisetto sul
volto. “Mi sei mancata, stronza.”
La bruna sorrise, incapace di far altro.
“Senti chi parla.” Fece, ponendo le braccia conserte. “Ehi, signorino, hai
finito lì dentro?”
Il grugnito di Takao
si udì anche se vi era una porta di mezzo. “Sì, sì.” Sbottò. “Sai che sei una
palla anche quando devi scusarti?”
“Ma questa palla ti mancava.” Fece
notare con tono furbastro.
Il ragazzo annuì come se si trattasse di
una cosa di poco conto. “Beh, sì.”
Passarono due secondi prima che si
slanciassero l’uno contro l’altra per avvilupparsi reciprocamente in un
abbraccio di marca Kinomiya-Tachibana. “Sapessi
quanto mi sei mancata, stronzona.”
Hilary roteò gli occhi. “Ho capito che
sono stronza, ma potete smetterla di farmelo notare?”
Trisha sorrise. “No, è
decisamente divertente.”
La giapponese ridacchiò per poi porre le
mani sui fianchi. “Allora, non c’è nulla che mi dobbiate raccontare?”
I due interpellati si fissarono con un
cipiglio angelico. “Noi?”
“Voglio sapere come, dove, quando,
perché, e in che circostanza è scattato tutto.” Dichiarò, saltellando per
l’eccitazione.
“Ti pareva che non si metteva a fare il
terzo grado.” Borbottò Takao, inconsapevole della
ciabatta di spugna che gli sarebbe arrivata sulla nuca due istanti dopo.
“Niente da dire.” Trisha
scrollò le spalle. “Ci siamo incontrati per caso dopo il primo concerto a cui
lui ha assistito, e da lì è iniziato tutto.”
“Perché tenerlo segreto?”
“Perché all’inizio era solo sesso.”
Spiegò la ragazza con semplicità. “Quando si è tutto trasformato in qualcosa di
più, volevamo vedere dove ci avrebbe portato.”
Hilary sbuffò nella direzione di Takao. “Solo tu ti cacci in queste situazioni.”
“Ma sta’ zitta, signora Hiwatari.”
La bruna ridusse gli occhi a due
fessure. “Come mi hai chiamata?”
“Hilary e Kai!
Kai e Hilary! Hilary Tachibana
Hiwatari!” canticchiò Takao,
con un sorriso che sapeva di sfida. “A quando le presentazioni ufficiali? E le
nozze? E il banchetto? E i bambini?”
“Questo è troppo!”
Trisha rimase allibita
quando li vide rincorrersi per tutta la suite come gatto e topo, eppure, dopo
qualche secondo di sbigottimento colse le smorfie ironiche o fintamente
arrabbiate, e capì quanto fosse grande e forte il loro legame. Allora sorrise.
“Desiderate?”
Emily sorrise nel trovarsi davanti
l’amica in versione cameriera: sapeva che era la sua ultima serata lì al pub e
sapeva anche quanto ci tenesse e cosa significasse per lei; nell’uniforme
targata Avalon: Mao era più sorridente che mai, piena
di energie e pronta per quel Venerdì sera che pareva voler risucchiare l’anima
a tutti coloro che lavoravano lì, data l’affluenza anche maggiore degli altri
giorni.
“Un caipiroska.”
“Un malibù
alla fragola con ghiaccio.”
“Una birra.”
“Per noi tre Baileys. Mao, mi
raccomando, una spruzzata di cacao sopra, eh.”
La cinese ridacchiò, appuntandoselo:
eccoli là la squadra americana al completo più lui che le stava sorridendo. Onde evitare che il cervello le
andasse in pappa, e per rimanere concentrata sul suo lavoro evitò il suo
sguardo, focalizzando la concentrazione sul foglio. “Che rapidità, ragazzi: se
solo fosse stati così decisi anche le scorse settimane..!”
“E’ il nostro regalo per la tua pensione
anticipata.”
La battuta di Michael fece scoppiare a
ridere tutti, Mao in testa, che con una manata lo mandò a quel paese; Max, dopo
che le risate furono scemate, le fece cenno
di avvicinarsi e con un abile gesto le sottrasse il block-notes e la
penna per riconsegnarglielo poco dopo. La ragazza rimase basita, ma quando vide
ciò che aveva scritto sorrise.
Andò verso il bancone arrossendo quando
ricevette un caldo sorriso da parte sua,
ma dirottò immediatamente la traiettoria quando individuò due persone a lei
care prendere un aperitivo con il gruppo degli europei.
“Ehi, ragazzi, dovete ordinare?”
Ralph annuì, cominciando a comunicare le
ordinazioni per lui e per gli altri compagni della squadra, che Mao scrisse
velocemente, dopodiché la sua attenzione si focalizzò su Raùl
che ordinò una piña colada
e su Mathilda che prese una coca-cola.
“Tutto bene?” chiese, un sorriso dolce
sulle labbra; sapeva quanto i due stessero soffrendo all’idea di prendere una
decisione consona alla situazione che si sposasse con le idee di entrambe e che
facesse contenti entrambi, ma non era per niente facile, quindi quando tutti e
due si voltarono a sorriderle, contenti, Mao rimase incredula e felice.
“Lo teniamo.” Sussurrò Mathilda, felice.
Mao si voltò prima verso di lei, poi
verso il suo migliore amico che annuì, un sorrisone sulle labbra. “Non possiamo
mica perderci un piccolo blader, giusto?”
L’orientale sorrise loro di rimando,
felicissima. “Giustissimo.” Si morse le labbra per non urlare di gioia,
dopodiché li abbracciò brevemente entrambi. “Aggiornatemi minuto per minuto
tramite sms, e-mail, segnali di fumo… Tutto! Voglio sapere.”
Mathilda si carezzò la
pancia con fare spontaneo. “Ma certo. Nascerà a Novembre, e il presidente ci ha
detto che dopo Natale dell’anno prossimo è previsto un nuovo torneo: ti
immagini portarlo e fargli respirare l’aria di beyblade
già a pochi mesi?”
Mao e Raùl
risero alla sola idea, immaginandosi un frugoletto con il cappellino pronto a
tifare per la mamma e il papà che combattevano per il titolo mondiale.
“Ragazzi, sono così felice!” l’orientale
era estasiata. “Mitch mi sta fulminando con lo
sguardo, ma chi se ne frega: sapete che faccio? I drink ve li offro io!”
esclamò, veleggiando verso il bancone.
Al sol sentirlo Andrew si voltò verso il
compagno di squadra italiano inarcando un sopracciglio. “Hai sentito? Cocktail
gratis! E tu mai che fai qualcosa di buono mettendo nei guai una ragazza!”
“Serata assurda.” Mariam
si era legata i capelli e stava shakerando drink a tutta forza; quel giorno il
pub era stracolmo come mai lo era stato; non le era mai capitato di non avere
nemmeno il tempo di uscire a fumare una sigaretta.
“Già.” Fece Mao, ancora sorridente.
“Credo avremo un attimo di pausa tra una mezz’ora, quando arriveranno le
ragazze.” Fece, attaccandole i post-it sotto il naso.
L’altra annuì sbrigativamente,
mollandole tre vassoi con drink già pronti, e la cinese partì alla volta dei
tavoli ai quali consegnarli.
L’irlandese si scansò dal viso una
ciocca di capelli, aspettando che il ghiaccio si frullasse per bene, dopodiché
adocchiò distrattamente il foglietto che le aveva attaccato Mao, quando una
cosa attirò la sua attenzione.
Sai che un uomo beve più volentieri se la barista è
carina?
Max
Mariam ridacchiò,
strappando quel pezzetto di carta e conservandolo per sé, dopodiché tornò al
lavoro come rifocillata dopo una corsa enorme.
I buttafuori, come tutti i dipendenti
dell’Avalon, erano selezionati direttamente dal capo
del locale: Mitch. Erano dei ragazzoni alti con le
spalle larghe, vestiti rigorosamente di nero con l’auricolare e lo sguardo
minaccioso dietro gli occhiali da sole, pronto a far desistere i furbetti dal
compiere qualsiasi bravata.
I Neoborg, per
esempio, all’apparenza potevano avere l’aspetto di piantagrane, invece non vi
era alcun problema se si trattava di loro; prima di tutto perché erano clienti
fissi e ogni weekend erano lì, poi perché prenotavano sempre il privee più caro pagando in contanti, per non parlare delle
notevoli consumazioni ad personam, quindi era naturale che una volta che
giungevano lì, i buttafuori li lasciassero passare per la corsia preferenziale,
come fecero quella sera, quando si presentarono alle undici e venti passate.
Come al solito passarono in mezzo alla
folla del locale per poi raggiungere il loro privee:
non amavano la gente, il chiasso, la confusione.
Quel posto era il più congeniale solo
perché erano rispettati, gli alcolici erano preparati in maniera decente e la
musica era molto buona – sapevano bene di non poter trovare un posto migliore,
che rispecchiasse i loro canoni: a New York era impossibile star da soli.
Mao arrivò qualche secondo dopo,
avendoli visti già in lontananza. Li salutò con un sorriso, e non si perse in
chiacchiere, sapendo bene come fossero fatti: chiese semplicemente cosa volessero.
Scrisse sul taccuino una vodka liscia, un assenzio, un Jack Daniels
e un whiskey per l’Ivanov, dopodiché andò via,
promettendo che le ordinazioni sarebbero arrivate quanto prima.
Kai notò come Boris
e Sergey – che avevano notoriamente i ruoli di spartiacque
e di supervisori degli altri due, generalmente più a briglia sciolta – non
avessero detto alcunché di fronte alla decisione di Yuri di prendere
quell’alcolico, né avessero fatto alcuna faccia strana. Evidentemente c’era
qualcosa in ballo che lui non sapeva.
Pochi minuti dopo un’altra cameriera
portò le loro ordinazioni, che si accinsero immediatamente a smistare. Con il
suo assenzio in mano, Kai si guardò intorno, fissando
i suoi compagni di squadra sorseggiare i loro drink: sapeva benissimo quanto fossero
dediti a quei liquori che nelle gelide serate russe riscaldavano loro gola e
stomaco, e sapeva anche quanto fossero pignoli, visto che era raro trovare un
locale che li sapesse fare decenti, ed invece-
Le luci si spensero di colpo in tutto il
locale, facendo urlare tutti; Kai sogghignò
leggermente, prendendo nuovamente a sorseggiare il suo assenzio e preparandosi
interiormente a godere la scena che gli si sarebbe presentata dinnanzi.
Una luce blu vagò apparentemente
indisturbata per tutto il locale, facendo ululare tutti, e scontrandosi con una
luce bianca, divenendo improvvisamente azzurra ed illuminando di colpo l’intero
locale: le Cloth Dolls
erano lì.
Tra schiamazzi, urla ed applausi, il
pubblico si alzò in piedi, chi sorridendo chi saltando per la contentezza,
esuberante per quell’effetto particolare mai utilizzato prima.
Trisha e Kassie iniziarono immediatamente a suonare, e in un secondo
momento vi si immise Julia con la batteria: tutti riconobbero immediatamente la
canzone dalle prime note. Era Goin’ Down.
“Hey there Father, I don’t wanna bother you but I’ve got a sin to confess.” Cantò Hilary,
piena di energia e seducente nel suo top blu e pantaloni di pelle.
La canzone finì tre minuti e mezzo dopo,
tra le urla e gli applausi di tutti, e le Cloth Dolls si sorrisero, entusiaste. La cantante avanzò di
qualche passo, ravviandosi con un gesto delle mani i capelli per quella sera
resi liscissimi dalla piastra.
“Avalon, ci
siete mancati!” il consueto ‘yeah!’ risposta si fece sentire più delle altre volte,
facendo sorridere la ragazza. “Stasera non è uno dei soliti Venerdì sera, però.”
Iniziò, scrollando le spalle. “Si sa che le cose – belle o brutte che siano –
finiscono, e che nulla, nulla dura
per sempre. Fortunatamente, sfortunatamente? Decidetelo voi.” Disse, con un
sorriso. “Noi sappiamo solo che a breve la nostra bravissima batterista ci
lascerà per tornare in Spagna e che ci mancherà moltissimo. Vi prego: un
applauso enorme per Julia.”
Una scrosciante ovazione provenne dal
pubblico, talmente forte da ricordare un boato, e talmente commovente da fare
mordere le labbra alla madrilena.
Hilary andò vicino all’amica, cingendole
le spalle con un braccio per poi baciarle la fronte. “E ora godetevi un
concerto molto speciale!”
Le ragazze iniziarono a battere i piedi
a tempo, in un ritmo famosissimo che presto tutti riconobbero: era la cover con
la quale avevano aperto il torneo di Beyblade.
Dapprima suonò Trisha,
con dei movimenti precisi e meticolosi che fecero capire quanto avesse fatto
sua quella canzone, poi vi si unì Julia con la batteria ed infine anche Kassie prese parte: osservandole Hilary non poté non
realizzare quanto fosse orgogliosa di loro e quanto non avesse potuto ottenere
di meglio.
“Buddy you're a boy make a big noise, playin' in the street gonna be a big
man some day! You got mud on yo' face, you big disgrace, kickin' your can all over the place…Singin'…”
“We will, we will rock you!”
il pubblico lo cantò assieme a lei pieno di vitalità ed energia, e la bruna non
poté far altro che puntargli contro il microfono, e allora si sentì un boato: “We will, We will rock you!”
Si succedettero altre canzoni che fecero andare in delirio tutto
il pub: Zombie, Where did Jesus go?,
Just tonight,
My medicine, Miss Nothing – e qui Hilary strizzò
l’occhiolino a Kai che, per tutta risposta roteò gli
occhi – fino a quando non terminarono il loro repertorio, o quasi.
Ad un certo punto le luci si spensero per poi riaccendersi ad
intermittenza, segno che le Cloth Dolls
avevano una qualche sorpresa.
“E adesso, Avalon… Non potevamo assolutamente
salutare senza una nuova canzone.” Soffiò Hilary sul microfono, sorridendo
compiaciuta; fermò le urla e gli applausi nascenti con un gesto della mano. “Vi
sono tanti tipi di occhi; occhi che possono ammaliare, occhi che possono
stregare, lasciare indifferenti, inibire… Uccidere.
Intenda chi ha orecchie per comprendere.” Sussurrò, sensuale, scatenando
ulteriori applausi.
Le luci si
abbassarono per concentrarsi sulla batterista, infine si estesero a tutto il
gruppo: iniziò a suonare Trisha, esibendosi in un
lieve, misurato assolo, per poi venire seguita a ruota da Julia e da Kassie. Il sound era ritmato e decisamente rock, di marca
decisamente Cloth Dolls.
“Take me I'm
alive, never was a girl with a wicked
mind, but everything was better when sun
goes down.”
Anche il testo pareva
essere differente dal solito: mentre le altre canzoni solitamente parlavano di
amori finiti male, di flirt che duravano poco o tutt’al più della concezione
che avevano le ragazze della religione, questa sembrava parlare di tutto e di
niente.
“I had everything: opportunities for eternity, and I could belong to the
night…” La cantante chiuse gli occhi, abbandonandosi alla
fine della seconda strofa, che fu accompagnata da un lieve assolo di batteria,
e proseguì immediatamente con il ritornello che, sensuale e melodico, fece
drizzare le orecchie a molti.
“Your eyes, your eyes, I can see in your eyes, your eyes…”
Qui Hilary spalancò il suo sguardo su un
punto preciso del pubblico: il privee dei Neoborg.
“You make me wanna
die! I'll never be good enough, you make
me wanna die: and
everything you love will burn up in the light every time I look inside your
eyes… Make
me wanna die!”
Quando la canzone fu sul punto di
finire, la giapponese andò
verso Trisha, pose il microfono vicino la chitarra
elettrica, e la sua amica fece un assolo finale esemplare, che fece battere le
mani e urlare tutti. “Alla chitarra elettrica Trisha
Malone!”
Avvicinandosi al piano sorrise alla
bionda e fu per miracolo che non scoppiò a ridere quando la sentì intonare le
note di We are the Champions. “Al pianoforte Kassandra Neal!”
Le servirono pochi passi per raggiungere
la sua amica, la sua compagna di avventure e, scambiatosi uno sguardo, non
rimase sorpresa quando fece saltare in aria il pubblico con qualche colpo di batteria,
generando, poi, applausi scroscianti, ancora prima di poterla presentare. “E
alla batteria la nostra Julia Fernandéz!”
Fu a sorpresa che la spagnola tolse
dalle mani il microfono alla nipponica, facendo ridere tutto il pubblico e
lasciando sbalordita l’amica. “Alla voce Hilary Tachibana!”
esclamò, beccandosi uno schiaffetto sul braccio.
Posizionato il microfono sull’asta,
bastò uno sguardo per mettersi d’accordo: le ragazze lasciarono i loro
strumenti per avvicinarsi ed applaudire con il pubblico; si presero per mano,
inchinandosi come attrici alla loro prima teatrale, e tra sorrisi e qualche
lacrima di commozione salutarono tutti, guardando la gente che ora le stava
applaudendo.
“Ed erano le Cloth
Dolls!” era scontato che Mitch
dovesse chiudere il loro concerto, ma in quel frangente erano talmente
emozionate, prese dal momento che si ritrovarono a sobbalzare tutte e quattro,
ed in seguito a ridere di loro stesse. “Un applauso a questa band che ci ha
regalato weekend carichi di energia!”
Uno scroscio di urla, di applausi
assordò le ragazze che emozionate, salutarono nuovamente coloro che stavano
dimostrando loro così tanto affetto per poi iniziare a scendere dal palco
quando Mitch fece loro cenno.
“Ti sei imbambolato?” Mai come in quel
momento la frase di Sergey gli sembrò fuori luogo.
Era già confuso di suo, la gente e il chiasso in quel locale non contribuivano
in modo favorevole; vi erano troppe persone, troppa… Umanità.
A
proposito dell’essere misantropi.
Yuri scosse leggermente la testa focalizzando
l’attenzione sul palco, e sbattendo gli occhi si rese conto che colei che non
aveva smesso un secondo di fissare quella sera era sparita.
Non gliele dovevano fare queste cose:
già il locale era più affollato del solito – se non avessero avuto il loro privee sarebbe morto schiacciato – poi con quella maledetta
giarrettiera infilata alla coscia sinistra aveva passato mezzo concerto ad
elaborare pensieri molto poco casti su una certa persona, ed infine vi era una
canzone che gli dava da pensare.
Se ci si metteva pure Sergey, stava davvero a posto.
Grandioso.
“Allora?” si voltò a fissare Boris che,
come Sergey, pareva avercela proprio con lui.
“Che c’è?” sbottò, irritato.
“Presumo che il loro sia un modo per
chiederti che diamine ci stai a fare ancora qui.” intervenne Kai, osservando il fondo del suo bicchiere con fare
disinteressato.
Indeciso se irritarsi ulteriormente o
scuotere la testa rassegnato, Yuri scelse di alzarsi, posando sul tavolino la
bottiglia di birra. “Grazie per l’interessamento, mammine.” Sogghignò, facendo sbuffare
tutti e tre.
Uscendo dal privee
realizzò che in realtà sapeva di dover sbrigarsi per andare a parlare con una
certa persona – parlare; lui non era
affatto capace di parlare, interloquire con la gente et similia, non aveva la minima idea di
cosa avrebbe detto una volta che l’avrebbe avuta davanti, ma non era importante
– stava solo aspettando che la folla scemasse, anche se di poco. Infatti, come
notò imprecando e borbottando in tutte le lingue che conosceva quando rimase
più volte incastrato, la folla non si era diluita nemmeno un po’.
Dannazione
a te, Fernandéz. Questa me la paghi con gli
interessi.
La gente, le persone, si susseguivano
una dopo l’altra, parevano non finire mai: ritrovandosi in quella situazione
capì la ragione per cui preferiva non ritrovarsi per nessun motivo in
circostanze come quella.
E poi la vide.
Una pelle abbronzata che conosceva bene,
una chioma ramata, un paio di occhi verdi che osservavano l’ambiente
circostante con allegria e sicurezza, e un paio di gambe accavallate l’una
sull’altra che mostravano appena, in una circostanza di vedo-non-vedo molto sensuale, una fine giarrettiera che gli fece
venire voglia di allentarsi il colletto della camicia.
“Julia.” non ebbe bisogno di alzare
troppo la voce affinché lei lo sentisse.
La vide voltarsi nella sua direzione con
occhi sgranati: si trovava con le ragazze del suo gruppo e con altri bladers, pronti a festeggiare il bellissimo concerto che avevano
regalato al pub, ma quando i suoi occhi di ghiaccio affondarono nei suoi verde
prato, mormorò qualcosa a Hilary per poi alzarsi ed avvicinarsi a lui.
Si spostarono nel posto meno trafficato di
tutto il locale, e fissandolo Julia assunse un’espressione tremendamente seria.
“Non mi aspettavo de vederti.”
Il russo trattenne a stento l’istinto di
roteare gli occhi, anche perché capì perfettamente che quello era il suo
personalissimo modo di fargliela pagare. “In quel caso sarei stato un idiota.”
quando le sopracciglia di Julia si inarcarono, sospirò. “Okay, sono un idiota.” ammise. “Ma non sono
abituato a perdere ciò che voglio.”
Sentendo i battiti del suo cuore
accelerare, la ragazza si impose di non viaggiare con la mente e di rimanere
con i piedi per terra; ma come si faceva al sol sentire quelle parole?
“Cioè?” gracchiò, la gola secca e la
voce tremolante.
Lui inarcò un sopracciglio, facendo del
suo meglio per non sbuffare pesantemente; quando si avvicinò e lei lo vide
sogghignare in maniera sfrontata ma differente dalle altre volte – quasi dolce,
rassegnata, sconfitta e… Romantica? –
il cuore di Julia fece lo stesso doppio salto mortale che lei soleva fare
quando aiutava i genitori con il circo.
“Fernandéz, devo
farti un disegnino o lo capisci da sola?”
Per non urlare a causa della troppa
gioia che le stava esplodendo dentro fu costretta a mordersi le labbra,
esibendo poi un sorriso birichino. “Soy piuttosto tarda, ¿me
lo puedes explicar?”
Il russo sbuffò, scuotendo la testa e
avviluppandola in un abbraccio che gli riuscì alla bell’e meglio. Quando le
loro labbra si incontrarono, sentì solo il profumo che sapeva così tanto di lei
entrargli nelle narici, e allora per la prima volta poté dire di aver trovato
qualcosa che lo tenesse legato senza che gli desse fastidio. Julia era l’altra
parte di sé, quella che lo faceva ammattire, disperare, ma anche la sua
coscienza, quella che lo metteva di fronte alle realtà che lui non voleva
vedere. Sarebbe stata una bella sfida. Niente che lui non amasse.
Poco lontano, le Cloth
Dolls applaudirono fragorosamente assistendo alla scena,
e Hilary sospirò, innalzando il suo cosmopolitan alla
sua amica, bevendo alla sua salute.
Mao distribuì gli altri drink appena
portati ed adocchiò la giapponese, vedendo immediatamente i suoi occhi lucidi. “Tesoro,
va tutto bene?”
Quella sorrise, scuotendo la testa e mordendosi
le labbra. “Stavo solo rimuginando…”
La cinese mise il broncio. “Non lo fare,
per carità: il sol pensiero che tra un paio di giorni saremo tutte a continenti
di distanza e dovremo dirci addio mi strazia.” Ammise. “Questi mesi da un lato
sono volati, dall’altro mi sembra di essere approdata a New York ieri.”
“Sapevamo che dovevano finire.” La giapponese
accavallò le gambe e scrollò le spalle. “Ma non dire la parola ‘addio’: la nostra amicizia durerà fino a
quando lo vorremo e ci saremo l’una per l’altra, così come ci siamo state
sempre.” Mao annuì, completamente concorde con quelle parole e le sorrise dolcemente,
stringendole la mano con affetto.
Quando tornò al lavoro per forza di
causa, Hilary passò dal lungo bancone del pub e, vedendo Mariam
impegnatissima ne approfittò. “Tu tornerai in Irlanda prima, quindi approfitto
di questo tuo momento occupato per dirti che ti voglio bene… Tanto non puoi
replicare!”
La mora non smise di shakerare un drink
per lanciarle un’occhiata che la trapassò da parte a parte. “Anche io te ne
voglio, stronzona.” La giapponese scoppiò a ridere, dopodiché
le strizzò l’occhio.
Uscendo dal pub, sorrise nell’adocchiare
Yuri e Julia che si stavano già pizzicando come al loro solito, e scuotendo la
testa realizzò che non sarebbero mai cambiati.
Le bastò solo un’occhiata, un’occhiata
in una specifica direzione per essere compresa.
Fuori dal locale non vi erano molte
persone: erano entrate tutte. Cacciò fuori dalla pochette una delle sue vogue alla menta e la accese con non poca difficoltà, visto
il vento che tirava; quando buttò fuori il primo tiro, si sentì un pizzico più
leggera. Non aveva mai fumato tanto, ma quando lo faceva la nicotina aveva il
potere di estraniarla dal mondo.
Stava iniziando a pensare a che ore
fossero quando qualcuno, da dietro, le scippò la sigaretta dalle dita senza
tanti complimenti. Si voltò di scatto, e quando vide chi c’era, prese a
fissarlo a metà tra l’irritato e il divertito.
“Chiedermene una no, eh?”
Kai buttò fuori una
boccata di fumo e scrollò le spalle con fare noncurante. “Fregartela è meglio.”
Lei rise. “Vaffanculo.” Si sedette
sull’alto marciapiede, recuperando la sigaretta e sistemandosi i pantaloni di
pelle. “Quando partirete tu e i ragazzi?”
Le si sedette accanto. “Non appena
finirà il torneo. Devo battere Takao.”
Un’altra risata si fece largo tra sue
labbra e, mentre aspirava una boccata di sigaretta, non poté fare a meno di
pensare a quanto la vita potesse essere strana. “Questa frase l’ho già
sentita.”
Lui scrollò le spalle e con un abile
gesto le prese quello che aveva tra le dita per poi spegnerlo sull’asfalto
senza tanti complimenti. Lei non se ne fece un cruccio; osservò quella
sigaretta fumata a metà con disinteresse e sospirò. “Le compro, sai?”
Il suo viso era neutro come sempre, i
suoi occhi viola tradivano una serenità che non gli aveva mai visto. “Allora
non comprarle.”
Hilary fece qualcosa che non aveva mai
fatto: si appoggiò contro le sue spalle, accettando tacitamente la sua
richiesta, e sorridendo. Non poteva fare a meno di ripensare agli ultimi mesi e
dare la colpa al destino, o forse al fato, per tutto quello che era accaduto a
lei e alle sue amiche.
Trasgressioni. Avventure assurde.
Preoccupazioni. Patemi vissuti con il cuore in gola. Recriminazioni. Colpi di
scena degni delle soap opera argentine più bestiali. Riappacificazioni.
Innamoramenti segreti. Relazioni clandestine. Dichiarazioni d’amore. Punti di
vista che erano cambiati da così a così nell’arco di mesi.
Era davvero colpa del destino? Magari lo
si poteva chiamare fato..?
O
sei semplicemente tu, New York? Dì la verità…
Pochi mesi: erano bastati una manciata
di mesi, di settimane per far succedere quello che a gente comune sarebbe
accaduto un bel po’ d’anni. Ma era normale; a New York si aveva sempre
l’impressione che le cose avvenissero più velocemente che altrove.
All’inizio le sue amiche erano approdate
lì dai loro paesi quasi disperate, ciascuna con una storia complicata alle
spalle e con tanta voglia di crescere e maturare, ricordava perfettamente la
situazione iniziale di ciascuna di loro.
Mariam voleva
lasciarsi dietro la sua storia di un anno con Max, e aveva finito per capire
che, se consolidata, una relazione può riprendere con delle basi solide e
stabili; Julia era approdata a Manhattan con un carattere difficile e non solo
aveva recuperato il rapporto con il fratello, ma era pure riuscita a
comprendere l’altra metà di sé: Yuri.
Infine Mao era venuta via per fuggire da
una storia di vent’anni che la teneva accorata a se stessa, e aveva finito per
comprendere che scappare non serve a nulla quando il nostro cuore è sempre irrimediabilmente
da una parte.
E lei? Lei che si vantava di essere la
cosiddetta miss autonomy,
lei era invece quella che aveva imparato più di tutte che non serve
classificare le persone a blocchi per difendersi, e sfruttarle per recriminare
una vendetta contro qualcun altro.
In fondo, basta trovare un’unica
eccezione.
La propria.
Fine.
Okay, chiedo assolutamente perdono per
questo ritardo atroce che, lo sapete,
non è da me. Sapete quanto io sia puntuale e ci tenga alle cose fatte bene, ma
credetemi, in questi giorni me ne stanno capitando una dopo l’altra. .-.
Ma andiamo alle cose importanti: the
end, people.
Mi mancherà tanto questa storia, frutto
di lavoro persino sotto il sole – qualcuno ne sa qualcosa – e di tante
disperazioni e contentezze.
E mi mancherete voi.
Purtroppo non ho una storia da sfornare,
non subito almeno, quindi non posso dirvi con certezza che tornerò tipo tra due
settimane o roba simile… Diciamo che dopo quasi un anno passato a pubblicare
storie a random, mi prendo il mio periodo di pausa.
Una cosa devo dirla, però: è stato un
anno fantastico.
Ho conosciuto persone squisite, fatto
parte di questo mondo che credevo seppellito indietro nella mia infanzia, e…
Beh, non potrei desiderare di più.
Quindi, grazie.
Ma, aspettate, voglio ringraziarvi un
po’ meglio, come si deve, quindi facciamo le cose seriamente, perbacco! U___U
Grazie a…
…Alla
mia amica Avly per avermi ispirato questa fanfic.
Le
nostre chattate notturne sono costantemente foriere di novità e scleri, un po’
come questa trama che si è delineata a spezzoni procedendo, però, come un
missile.
Grazie,
Lula, per essermi rimasta accanto ed avermi tranquillizzata quando minacciavo
di esplodere.
Lexy
è colei che mi ha ispirato il personaggio di Kurt, che all’inizio voleva essere
una parodia del Kai di Leggero, ma che alla fine ha
preso simpaticamente parte del cast, almeno per un paio di capitoli. Visto che
la mia vendetta alla fine mi si è rivolta contro? U.U
Sarei
davvero un’ingrata se non citassi la divina persona che, con infinita pazienza,
ha sopportato tutte le mie lagne dandomi invece preziosi consigli. Lily è stata
preziosissima per la riuscita della fanfic, nonché la
supporter ideale per una trama intrecciata come questa. Ogni fanwriter dovrebbe avere una persona come lei al suo
fianco.
Infine,
un gigantesco grazie va alle mie lettrici, che con le loro recensioni, con il
loro supporto e le battute che mi fanno morire dal ridere, sanno ispirarmi più
di quanto loro possano pensare. Love you all, girls. ♥
Hiromi