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Autore: l_s    20/01/2012    1 recensioni
Aurelio è partito dalla sua città due anni or sono, in fuga dalla sofferenza, prendendo a vagabondare senza meta e senza pensieri. Ora ci torna, deciso ad affrontare i ricordi e le persone che l'hanno condizionato e segnato, per "imparare a coccolare il suo dolore", a conviverci.
Per poi, forse, andare avanti.
Ho capito di essere inadeguato.
La prima volta è stato quando ho mosso gli occhi.
La seconda quando ho scoperto di volere ciò che non avrei dovuto.

[Partecipante al Challenge "Dal nome alla storia" indetto da NonnaPapera]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ho capito di essere inadeguato.
La prima volta è stato quando ho mosso gli occhi.
La seconda quando tu mi hai rifiutato.

Capitolo IV | Amore

Mentre camminavo verso casa, mi sentivo più piatto che mai. Mi sembrava che nulla potesse avvicinarsi al mio corpo, che tutti mi girassero alla larga, che la mia mente si fosse richiusa, e non cantasse più, nemmeno tra sé, da sola, a se stessa.
Fu il buio denso di casa a risvegliarmi; la voce di mia madre che canticchiava una canzone triste dal bagno giunse fino a me, tanto che inspirai e qualcosa entrò nei miei polmoni, finalmente. Allora, tutto ricominciò a funzionare più o meno normalmente, e mi accorsi della cosa più banale: avevo fame.
Arrivai con facilità in cucina, accesi la luce e aprii uno sportello in alto, sopra i fornelli: solo pentole. Dopo diversi tentativi, che comprendevano l'apertura di una serie di cassettoni e ante misteriose, aprii la dispensa verde (che aveva, per giunta, cambiato posto), e trovai una serie di zuppe di legumi. Mi venne da sorridere. Mia madre amava, di tanto in tanto, spostare e cambiare di posto pentole, cibi, mobili; persino scambiare lo zucchero con il sale, in modo da non cedere mai all'abitudine e non diventare mai passiva, neppure in cucina.
Scelsi una zuppa di farro e legumi e la misi a cuocere.
Poi mi sedetti su una sedia, e percorsi con lo sguardo l'ambiente. Subito, notai una bella pianta imponente che avvizziva. Mi stupii: mia madre era sempre stata molto attenta a quella in particolare. Riempii una caraffa di acqua corrente e mi apprestavo ad innaffiarla, quando sentii la porta del bagno aprirsi, e mi voltai verso mia madre che entrava nella stanza.
Indossava un morbido vestito viola scuro, che accoglieva caldamente il suo corpicino sottile. Mi sorrise piano.
-Mamma, Philippe sta appassendo!- strillai quasi, e in quella cucina mi sembrò di tornare bambino.
Tante volte avevo reagito in modo analogo alla scoperta di qualcuna delle tante stranezze di mia madre, e lei me le aveva sempre, pazientemente spiegate subito, accarezzandomi il capo con una mano, e chinandosi per sussurrarmi con voce dolce le sue parole sottilli.
Anche allora, mi si avvicinò con un sorriso mesto, e mi scompigliò delicatamente i capelli, mentre io mi abbassavo istintivamente affinché le sue labbra potessero raggiungere il mio orecchio.
-Philippe è morto l'anno scorso.
Spalancai gli occhi, colpito dalla notizia, ma non mi mossi, grazie all'ascendente che lei sapeva avere su di me.
Philippe. Il caro, vecchio Philippe, che quando ero piccolo mi era sempre sembrato un po' Babbo Natale. Lo chiamavo "nonno", e il buon professore di Filosofia si inalberava e si preoccupava troppo.
-Com'è successo?
Mia madre sorrise, nel ricordarlo.
-Era malato da tempo: lo sai, fumava troppo.
Già lo ricordavo. Chissà se nell'ultimo periodo aveva pensato a quel ragazzino che gli ordinava sempre di smettere di fumare, o per lo meno di smettere di affumicare sua madre...
Lei, d'altra parte, era stata senza dubbio il suo più grande amore. Le diceva spesso che era nata per la Filosofia, anche se lei si ostinava a "far volare gli aquiloni", che lei era la strega della vita e la fata della morte.
Forse lui l'aveva davvero compresa.
Mia madre, dal canto suo, l'aveva lasciato proprio perché lui "non sapeva far volare gli aquiloni", ma non si era mai del tutto distaccata da lui, e gli aveva dedicato quella pianta che ora periva.
Da allora, aveva preso la strana abitudine di dare alle piante i nomi dei suoi amanti: quando ne scoprivo una nuova in casa, sapevo che c'era amore nell'aria, non ne comprava in nessun'altra circostanza.
Al ricordo delle piante, ne cercai con gli occhi una grassa, relativamente giovane, che mia madre aveva avuto il coraggio di comprare solo molto tempo dopo la relazione che essa commemorava. Mi commosse il trovarla sul davanzale della cucina, polverosa, dove e come era sempre stata. In quella casa, dove tutto cambiava e si muoveva, quell'unico, miserrimo essere restava immutato e immobile, sembrava il solo punto fermo in uno strabiliante vortice creativo.
Mia madre intercettò il mio sguardo e mi parlò con voce dolce:
-Dovresti chiamare tuo padre.
A quelle parole, mi irrigidii di colpo. Mio padre si rifiutava di avere a che fare con me da quando avevo dodici anni; da quando, cioè, avevo scoperto e palesato la mia omosessualità. Era andato via di casa, s'era costruito la sua bella famigliola e non avevamo avuto in seguito che qualche incontro sporadico, volto ad una formale conservazione del rapporto.
-Perché mai dovrei farlo?
-Vorrebbe sapere che sei tornato.- fece lei con tenera noncuranza.
A quelle parole scattai, alzando il tono della voce:
-L'hai incontrato?
Lei rise dolce e mi passò piano piano una mano tra i capelli.
-Tesoro mio, io non vedo Arnoldo da dodici anni; gli ho solo parlato per telefono. E non giudicarlo così severamente, non lo merita.
Non era da mia madre farsi maltrattare in quel modo, e questo mi fece adirare, al punto tale che non riuscivo ad articolare bene le frasi.
-Lui non... merita... cosa?
Mia madre non rispose, e io continuai, alzando il tono della voce:
-Dopo tutte quelle cazzo di chiacchiere sul fatto che ci avrebbe protetti e stronzate varie, alla prima occasione ci abbandona, vola via come la fottuta aquila che pretendeva di essere?! Cosa stai dicendo?
Lei sospirò, guardandomi ansimare.
-Lascia che ti racconti la verità, su tuo padre...
-Non chiamarlo in quel modo.- la interruppi, brusco.
Mi osservò attentamente per un po', con aria critica, e alla fine parlò con voce più chiara, misurando le parole.
-Siediti, figlio mio, e calmati. Sentirai per la prima volta la storia triste di chi ti ha dato al mondo, e so che finirai col capire.
Scostai una sedia dal tavolo e obbedii confuso, ma senza obiettare, all'autorità materna. Sapevo quanto fossero preziosi quei momenti: mia madre non parlava molto, e le risultava particolarmente penoso raccontare episodi del suo passato, a meno che essi non riguardassero me. Assumeva quindi un tono sempre favolistico, dolce, lo stesso con cui, nell'infanzia, soleva raccontarmi storie per incantarmi o per farmi dormire.
-Era l'estate dei miei diciannove anni, quando decisi che non bastavo più a me stessa, che avevo troppo amore da dare, troppe storie da raccontare, troppi silenzi da spendere. Non mi sono mai fidata di nessuno, lo sai, non al punto tale da potergli donare tutto questo, non al punto tale da rivelargli il segreto della mia vita intera, il punto intorno al quale si avvolgeva la mia anima. Allora capii che l'unico modo per farlo era generare un essere che avrei amato incondizionatamente; se questi si fosse dimostrato speciale, gli avrei consegnato tutta me stessa. Come poi ho fatto. Sono ridicoli, tesoro mio, i motivi per cui si sceglie di riprodursi: sembrano tutti squallidi, tutti vani. Spesso mi chiedo se ci debba essere davvero un motivo valido per generare un figlio; a volte credo che sia stato crudele da parte mia crearti, così triste, così simile a me.
Si interruppe, e mi guardò con uno sguardo lungo, mesto.
-Per questa idea di bizzarra condivisione, non esitai ad immolare tutto. Così scelsi quell'uomo grande e forte quasi per caso. Era stato attratto da me, era rimasto incantato dai miei occhi, dai miei silenzi e non so cos'altro, ma mi aveva detto "Ti amo" e io l'avevo accettato. So che si aspettava qualcosa da me. Che gli rispondessi, sicuramente. Ma io lo lasciavo avvicinare senza spiegargli niente (me lo ha rinfacciato tempo dopo), e lui non capiva cosa io volessi. Quando rimasi incinta, non mostrai stupore; lui si offrì di sposarmi, e io acconsentii, per placare il turbine delle sue preoccupazioni. Era di buona famiglia, Arnoldo, lo sai, voleva fare le cose per bene, diceva, mi avrebbe mantenuta, se solo lo avessi lasciato fare. Chiedeva pochi soldi ai suoi genitori e lavorava moltissimo, per dare a quella ragazza misteriosa di cui era innamorato tutto ciò  di cui ella abbisognava. Io mi iscrissi all'Università e partecipai a quel concorso che mi avrebbe poi garantito un impiego piuttosto remunerativo per tutta la vita, per non pesare troppo su di lui: sapevo che non sarebbe durata, che prima o poi sarei stata autonoma.
-Quando nascesti, io cominciai ad allontanarlo, ad allontanare tutti. Tuttavia, non ero mai stata troppo socievole e Arnoldo pensò erroneamente che un sopraggiunto istinto materno mi avesse inaspettatamente spinta ad accettare i ruoli tradizionali: lui avrebbe portato il pane a casa, e io ti avrei accudito. Andò avanti così per diversi anni. Tu eri un bimbetto irrequieto che strillava "mamma" di continuo, ed accoglieva allegramente il proprio padre quando tornava dal lavoro. La sera, mentre cucinavo i miei piatti fantasiosi (lo facevo per distrarmi, lo ammetto), spiavo tuo padre che ti faceva giocare. Quasi non sopportavo di essere nella stessa stanza; venivo colta da moti di disapprovazione e gelosia: tu eri mio. Tu sei mio. Sei sempre stato il mio uomo, frutto per lui di un incidente, per me di un desiderio potente e radicato. Chi era lui per te? Mi confortava sempre vederti tornare trotterellando da me, quando l'odore dei pasti ti sfiorava le narici, per implorarmi di raccontarti una storia prima di cena. Io ne inventavo una diversa ogni volta, e tuo padre ascoltava sempre inquieto, dritto sulla soglia della cucina. È una di quelle immagini che non si dimenticano: dritto, immobile e oscuro come una vecchia statua di marmo. Era del tutto succube delle mie storie, che lo affascinavano e lo spaventavano allo stesso tempo; si domandava, di certo, se il mio metodo di educazione non fosse sbagliato, ma non osava discuterlo apertamente. Credo che si sentisse in soggezione, quando io ero presente, credo che capisse bene (o almeno che lo percepisse inconsciamente) che tra noi c'era un legame segreto, privato, che lo estrometteva del tutto. Probabilmente, pensava che, quando si sarebbe trattato di farti diventare uomo, gli avrei lasciato spazio. Non fu mai così, lo sai.
-Lui lo intuì quando avevi sei anni. Un giorno, mentre stavi giocando nel corridoio, ti fermasti all'improvviso, come colto da un pensiero languido e misterioso. Rimanesti per diversi minuti immobile, fissando un punto indefinito della parete, del tutto assorto. Arnoldo si spaventò, e corse a prenderti per le spalle, scuotendoti e chiamandoti a gran voce, facendomi accorrere dalla cucina. Tu, lentamente, come svegliandoti da un sogno dolce e melanconico, ti voltasti a fissarlo con uno sguardo vasto e irrequieto. Con il tuo sguardo consueto, Aurelio. Lui ti lasciò di scatto e balzò all'indietro, come scottato dalla tua pelle, o forse dai tuoi occhi.
-Dopo quell'episodio, gli fu chiaro che saresti diventato come me. Che dunque non sarebbe mai riuscito a capirti, per quanto ci avesse provato. E tu non hai idea di quanto duramente ci provasse, e di quanto ardentemente ci amasse. Arnoldo è una creatura capace di un amore appassionato e sconfinato, diverso da quello che posso provare io. Più ampio, più positivo...
-Così, quando non potè più fare a meno di ammettere che eri troppo diverso da lui perché potesse insegnarti i suoi valori, reinventò il suo ruolo. Ricordi? Ripeteva spesso che sarebbe stato per noi un'aquila protettrice, che avrebbe scrutato di lontano i nostri nemici, e con le sue grandi ali ci avrebbe riparati dai pericoli. Seppure non potessi amarlo, non potei fare a meno di ammirare l'ostinazione all'amore di quell'uomo, e tentai di farvi avvicinare, con un po' di rimorso perché non avevo concesso che lo faceste prima. Fu allora che gli consigliai di insegnarti a giocare a calcio, a condizione che non ti rendesse un tifoso o chissà cos'altro. Lui accettò con una gioia enorme... e il resto lo sai. Immagina quanto fu triste, per lui, scoprire che l'ultima e la "maggiore" delle tue stranezze fosse nata da ciò che lui stesso ti aveva insegnato... Perdonalo, tesoro mio, e tenta di amarlo, così come lui ha tentato di fare con te!

-Tira, Aurelio, calcia forte la palla! Non ti preoccupare, il tuo papà non si fa male!
-Così?- chiedo, prendendo la rincorsa.
-Sì, bravissimo!
Guardo il pallone bianco e nero, che lui mi ha regalato. Mi fa un po' paura, sembra duro e temo che le nuove scarpette blu che mi ha comprato mamma si rompano. Però, papà è sorridente e io voglio farlo sorridere ancora di più.
Osservo di nuovo la palla, poi lui, fermo tra due rami infilzati nel terreno, stringo i pugni, corro e dò un calcio deciso al pallone.
Chiudo gli occhi, timoroso, ma subito cambio idea e ne apro uno, giusto in tempo per vedere la palla passare in mezzo ai pali, accanto a lui.
-Goal!- urla mio padre, festoso, allungando di molto la 'o' della parola.
Mi ha spiegato cosa vuol dire, quindi gli sorrido sdentato e felice mentre mi guarda soddisfatto.
-Sai cosa si fa adesso?- mi chiede poi.
Io scuoto la testa.
-Si esulta.
Mi prende per mano e mi insegna a correre per il campo con le braccia aperte, gridando di gioia, e io mi ritrovo a ridere per quel modo di fare così buffo, che non ho ancora capito bene.

La mia testa era invasa da un turbine di ricordi che non riuscivo a controllare, da moti frenetici e pressanti di sentimenti che dovevo allora mettere in discussione. Non riuscivo a dare ai pensieri  un ordine, un filo logico, un senso, persino...

-Non è male il ragazzo, eh? Mi sa che per la prossima stagione potrebbe esserci utile.
Mio padre guarda tutto fiero il suo amico, gonfia il petto e mi passa la mano sulla testa. Io non posso fare a meno di sorridere.
-Sì, credo che potrebbe andare...- dice papà con finta indecisione, e i suoi occhi si illuminano mentre mi guarda.
-Dì un po', Aurelio- l'allenatore si rivolge direttamente a me, -quest'anno ti piacerebbe giocare a calcio con i ragazzi della tua età?
Sono felice della sua proposta, e rispondo seriamente, come mamma mi ha insegnato: -Ne sarei onorato, signore.
I due cominciano a ridere e, anche se non capisco bene perché, ne sono contento.

-Mamma, mamma! Papà!
Entro in casa correndo di gioia, dirigendomi verso lo studio dove lei si trova di solito, a quell'ora della sera. Infatti, mi vede entrare e solleva il suo sguardo rarefatto dalle pagine di un libro. La guardo, raggiante, e i suoi occhi si concretizzano caldi sulla mia immagine. Subito dopo, arriva anche mio padre, che mi abbraccia, distogliendomi per un attimo da mamma.
-Deduco che sia andato bene l'allenamento- indovina con il suo vocione.
Faccio cenno di sì con la testa e, avvicinandomi a mia madre, prorompo: -Mi sono innamorato!
Le sue labbra si inclinano in un lieve sorriso di approvazione, e apre subito le braccia verso di me. Io colmo la distanza tra di noi e mi lascio accarezzare dalle sue mani dolci.
Dopo un po', mi ricordo di papà e lo guardo, per ricevere anche i suoi complimenti. Lui è imbarazzato e commosso dalla scena che gli si para davanti, e non parla subito.
-C'erano degli spettatori alla partita di oggi?
Io capisco ciò che vuole dire, e rispondo: -No, è in squadra con me.
-Ci sono anche ragazze in squadra?- è stupito, -Gigi non me l'aveva detto.
Contemporaneamente, le braccia che mi circondano rafforzano la loro stretta; io mi volto di nuovo e continuo: -Mamma, devi vederlo! Ti piacerebbe tanto perché è bellissimo! Ha i capelli neri neri e dei piedi giganteschi!
Mia madre ridacchia come poche volte l'ho vista fare, mi incanto a guardarla. Ad un certo punto, guarda dietro di me e smette di ridere. È come se si mangiasse le labbra, non ce le ha più tanto è stretta la bocca. Non l'ho mai vista fare così. Mi volto a guardare mio padre e lo vedo fermo, rigido, con la bocca piegata all'ingiù e la faccia scura. Mi fa quasi paura.

-A volte mi chiedo- soggiunse, a voce molto bassa, -se io non abbia profondamente errato nell'allontanarlo da te. Come madre, ho fallito nella cosa più importante, o quella che dicono sia la più importante. Io nell'amore non ho mai confidato. L'ho sognato come tutti, un'amore sconfinato e totale come i tuoi occhi, ma i sogni dell'infanzia restano spesso confinati negli aquiloni. Sei l'unico essere, infine, che io abbia saputo amare in tal modo. E, per il tuo amore, ti ho lasciato odiare Arnoldo: come avrei potuto- la sua  voce si fece bassissima, -sottrarti la speranza dell'amore? Insegnarti che i tuoi genitori non si erano mai amati, che tu eri figlio d'un moto di egoismo?

Le sue spalle sono larghe e forti, proprio come dovrebbero essere quelle di un papà. Mamma è seduta in cucina, non lo saluta, mentre lui si avvicina tetro alla porta d'ingresso
.
-Papà- lo chiamo.
Lui sospira e si volta lentamente. Si abbassa un po' verso di me, portando la testa alla mia altezza. Vedo che si sforza di sorridermi, ma non ci riesce. Non dice niente, si alza e se ne va.
Non era mai stato così alto.

-Sai, sono fiera che tu abbia imparato questo da tuo padre, era la cosa migliore che potesse insegnarti: tu sai amare, difficilmente, profondamente, col corpo e con l'anima, e non ne hai paura. Tu hai avuto Alfio, e qualunque cosa succeda, tutta la tua vita può considerarsi satolla.
L'ennesima fitta allo stomaco, pugno al cuore, stretta al cervello, che spremette il succo dei ricordi: essi lottavano per riversarsi come bufere in me, combattendo tra di loro. Per trattenerli, urlai, ruggii forte come un animale ferito, e tutto passò in secondo piano, mentre solo un'immagine occupava la mia mente.

...la tua pelle liscia come la neve leccata dai bambini la domenica mattina...















Note dell'autrice:
Dopo così tanto tempo, questa storia è tornata da me.
È un capitolo piuttosto lungo, lento e pesante. E sì, lo amo.
Arnoldo: "aquila protettrice".
   
 
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