Capitolo
3
Dal buio alla luce
- Seconda parte -
“
Chi sei tu, dolce luce, che mi riempie e rischiara l'oscurità del mio cuore?
Tu mi guidi con mano materna, e se mi
abbandonassi, non saprei fare più nessun passo.
Tu sei lo spazio che circonda il mio essere e lo
racchiude in sé.
Da te lasciato, cadrebbe nell'abisso del nulla,
dal quale tu l'hai elevato alla luce ”.
Edith Stein (Santa Teresa
Benedetta della Croce)
Città di Fürstenberg/Havel, 23
maggio 1945
Nadine respirò profondamente e
subito fu invasa da un gradevole profumo di lavanda. Erano anni che non lo
sentiva. Un intenso calore avvolse il suo corpo e capì allora di trovarsi in un
letto, in un vero letto, ben coperta da lenzuola calde e pulite. L’odore e il
freddo della baracca erano scomparsi, così come quel dolore che prima avvertiva
in tutto il corpo e, confusa, si domandava dove fosse. Forse in un sogno, si
disse ma quella sensazione era troppo reale per esserlo. Aprì lentamente gli
occhi e una forte luce l’abbagliò: anche il buio era scomparso. Poi, pian
piano, quel bagliore andò diminuendo e vide il volto di un angelo chinato su di
lei. Per un istante, quella visione celestiale fece credere a Nadine di essere
passata a miglior vita. “ Buongiorno! ” udì a un tratto e capì che chi aveva di
fronte non era una visione ma un uomo in carne e ossa. Ne colse subito la
dolcezza della voce, la bellezza del sorriso, la perfezione dei lineamenti. “ Come ti senti? ” le domandò ma Nadine rispose con un’altra
domanda: “ Dove mi trovo? ” “ Questa è la mia casa … Io sono un medico, mi
chiamo Werner … Il campo di Ravensbrück è stato liberato, la guerra
è finita … ” A queste parole il cuore di Nadine fece un sussulto di gioia: dopo
cinque anni di prigionia era finalmente libera. “ … e adesso sei stata affidata
alle mie cure … Sai dirmi qual è il tuo nome? ” Nadine ci mise un po’ di tempo
per ricordarlo: per troppo tempo, infatti, il suo nome era stato un numero di
matricola. “ Mi chiamo Nadine. ” rispose in seguito e gli tese la mano,
mostrando un lieve sorriso. “ Piacere, Werner. ” Quel sorriso appena accennato,
di calma e fiducia, rasserenò il giovane: dopo due settimane, la ragazza si era
risvegliata dal coma e nel vederlo non si era spaventata. Il
suo cuore si riempì di un qualcosa mai provato prima, di una gioia che andava
ben oltre la soddisfazione per averla salvata dal tifo contratto nel lager, di
una pace che stranamente lo allontanava dalle preoccupazioni del dopoguerra.
D’altra parte, Nadine si domandava perché si fosse fidata subito di quell’uomo
– che in fondo era uno sconosciuto e di sicuro un tedesco – e perché il suo
cuore stesse battendo così forte guardando il verde dei suoi occhi. Era come se
lo conoscesse da sempre e la sua vicinanza la faceva sentire al sicuro.
Nadine cominciò pian piano a
riprendersi e a non aver più bisogno dell’alimentazione artificiale. Il suo
corpo e il suo aspetto ritornavano a essere quelli di una donna e, dentro di
lei, la speranza e la voglia di libertà si erano ridestate. Nadine stava pian
piano rinascendo e il merito era di Werner. Non erano soltanto le sue cure a
farla stare bene ma anche le sue attenzioni, il suo comportamento gentile e
rispettoso, la sua delicatezza nel domandarle del suo stato d’animo e di
salute, il suo trattarla da essere umano. Le prime volte la giovane se n’era
addirittura meravigliata, essendo abituata al disprezzo e all’umiliazione. Contemporaneamente,
anche la vita di Werner stava cambiando. Il suo prendersi cura di Nadine, il
suo starle vicino, vederla rifiorire e sorridere dopo tutto quello che aveva
passato nel lager, guardarla negli occhi e capire che in lei c’era qualcosa di
diverso, qualcosa di speciale, una luce che non aveva mai visto in nessun altro
sguardo, lo facevano sentire ogni giorno meglio e il suo cuore si apriva sempre
di più. Werner si stava innamorando di Nadine.
“ Oggi ho il turno di notte … ” disse
Werner, affacciandosi alla porta “ … Torno a casa alle sei. ” A queste parole,
il cuore di Nadine fu invaso da una strana tristezza. Avrebbe voluto dirgli di
restare con lei, di non andare via, di non lasciarla da sola ma non tentò
nemmeno di farglielo capire, con una parola o un gesto. E così Werner andò via
mentre Nadine cominciò a domandarsi cosa stesse succedendo al suo cuore, il
perché di quel suo turbamento, perché ogni volta che il giovane si allontanava
da lei ne sentisse la mancanza. Ben presto, girandosi e rigirandosi nel letto,
Nadine riuscì a dare una risposta alle sue domande e trovò nel suo cuore quella
verità che a se stessa stava nascondendo. Ciò che provava nei confronti di
Werner andava oltre la gratitudine e la riconoscenza, la stima e l’affetto: era
in realtà amore. La giovane non riusciva ad accettare questa verità e si diceva
di non poter permettersi – proprio adesso che il suo corpo e il suo spirito
cominciavano a riprendersi – di ricadere nella disperazione per un amore non
corrisposto e di ritrovarsi a un passo dalla morte … interiore. Il suo cuore
già martoriato dalla terribile esperienza di Ravensbrück non avrebbe mai sopportato un’altra delusione e
stavolta per lei sarebbe stata davvero finita. Non poteva confondere le cure
mediche di Werner e la sua umana sensibilità per un sentimento più profondo, i
suoi ampi sorrisi e i suoi sguardi lucenti per dei segnali d’amore, non poteva
crearsi l’amara illusione di essere contraccambiata. Ma, ogni giorno che
passava, Werner non faceva altro che confermare la sua sensazione e il suo
cuore cominciava a scalpitare, desideroso di aprirsi nuovamente all’amore. Il
suo cuore era pronto ma la sua mente era ancora frenata dai ricordi del lager e
delle persone che in quegli anni le avevano fatto del male. Nel frattempo,
anche Werner pensava che ciò che provava Nadine fosse soltanto riconoscenza per
averla portata via dal campo e ospitata nella sua casa e non voleva illudersi di
un amore che in realtà era a senso unico.
Seduta alla finestra della sua camera, Nadine scrutava la strada: un
cumulo di macerie faceva da tappeto alla città e nell’aria aleggiavano ancora
polvere e detriti. Di fronte, un palazzo sventrato dai bombardamenti sembrava
reggersi in piedi a malapena: forse sarebbe bastata una semplice pioggia per
farlo cadere e ridurre in mille pezzi. La ragazza guardò per l’ennesima volta
il tatuaggio inciso sul suo braccio, il numero 950 e pensò che il suo cuore
fosse proprio come quel palazzo che aveva dinanzi agli occhi. Distrutto e, se
anche Werner l’avesse abbandonata, non sarebbe rimasto più niente. Quell’amore
che provava le riempiva il cuore e la incoraggiava a riprendersi e ad andare
avanti dopo Ravensbrück ma, allo stesso tempo, le faceva paura. Nadine temeva,
infatti, che tutto ciò che stava vivendo fosse un sogno e che Werner fosse
un’illusione. Temeva di risvegliarsi da un momento all’altro e di ritrovarsi sola
nel fango del lager, sporca di disprezzo e disperazione. Temeva di essere
ingannata come nel suo arrivo a Ravensbrück quando, percorrendo quel bellissimo
viale fiorito di gerani colorati, aveva creduto che fosse un posto migliore
oppure come aveva fatto Kurt promettendole di salvarla dal campo. Nadine aveva
paura ma sentiva di potersi fidare di Werner, perché lui era diverso da tutti
gli altri e non le avrebbe mai fatto del male. Intanto, anche il giovane si
domandava se Nadine fosse soltanto un’illusione, un miraggio nel deserto della
sua vita e temeva che presto sarebbe svanito e lui risprofondato nella
solitudine e nel buio dell’antisemitismo. Ma ben presto le loro paure caddero
e, in un tiepido pomeriggio d’inizio estate, i due trovarono il coraggio di
dirsi i loro sentimenti.
Poi la mano di Werner si posò su quella di Nadine mentre i loro
visi si fecero sempre più vicini. Gli occhi negli occhi, i respiri all’unisono
e le loro labbra finalmente vicine per potersi sfiorare.
Tu, non sarai mica tu
una saponetta che
scivolando non c’è.
Dimmi che da un’ora tu
hai bisogno di me
che di ossigeno di più.
Dimmi che non sei tu
un miraggio, ma sei tu.
Umberto Tozzi, Tu