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Autore: rolly too    23/01/2012    3 recensioni
«Ehi!» lo chiamai ad alta voce, cercando di sovrastare il rumore della pioggia. La voce mi uscì più roca e vibrante di quanto avessi immaginato, ma non ci feci caso. Lui non rispose. Non si mosse, e non diede nessun segno di avermi sentito. «Ehi!» ripetei più forte, e solo allora si voltò verso di me. Una macchia di sangue scuro gli copriva la parte sinistra della fronte e il liquido scarlatto, unito alla pioggia, gli era colato sul volto e sulla maglietta inzuppata di acqua. Rabbrividii, mentre il cuore iniziava a rimbalzarmi in bocca e mi coglieva un fortissimo senso di nausea. Mi si offuscò per un attimo la vista, mentre il fischio nelle orecchie si faceva insopportabile. Che cosa avevo fatto?
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Venerdì 28 Novembre

Il giorno prima Gioele aveva rotto tanto che alla fine, stanco delle sue lamentele e delle occhiate che mi rivolgeva, suo padre mi aveva pregato di tornare a casa. Si offrì di riaccompagnarmi, ma rifiutai. Per smaltire tutta quella rabbia avrei dovuto come minimo tornare a casa di corsa.
All'inizio, dopo ciò che Gio' aveva detto e fatto, il mio primo istinto era stato quello di scoppiare a piangere e farmi prendere dalla desolazione. Ma no, non potevo più permettermi di agire così. L'avevo fatto con Gabriele, ma dall'altra parte avevo Gioele che mi consolava e mi supportava. Adesso il problema era Gioele, e io non avevo nessuno a cui chiedere aiuto.
C'erano Ines e Francesca, ma sentivo che dovevo tenerle fuori. Quella era una cosa che riguardava solo me. Adesso basta, non ero più disposta a lasciarmi sconfiggere così.
Tornai a casa da sola. Camminai fino alla stazione, nonostante fossero quasi dieci chilometri e Mauro avesse insistito tanto per portarmi almeno fin lì. Ci misi un'ora e mezza, e ogni passo scioglieva la rabbia che sentivo nello stomaco.
Se Gioele voleva giocare a fare il crudele, bene, poteva farlo.
Se Gabriele voleva di nuovo tentare di vendicarsi, con il rischio di perdere anche i denti che gli erano rimasti, non sarei stata certo io a fermarlo.
Se quei due avevano un problema potevano risolverlo per conto loro. Io non c'entravo nulla. Quella storia non mi riguardava fin dall'inizio, avevo sbagliato a intervenire. E loro avevano sbagliato a tirarmi in mezzo.
Ero andata a letto presto, quella sera, decisa a lasciar perdere.
Ma il mattino, quando mi alzai, capii che non potevo lasciar perdere. Dovevo parlare con Gioele. Volevo capire che cosa gli passasse per la testa.
Sapevo già che non ci sarebbe stato, a scuola, e non ci andai nemmeno io. Ma presi l'autobus, andai in stazione. Presi il primo treno in partenza e quando arrivai al paese di Gioele capii di aver fatto la mossa giusta.
Camminai, di nuovo, fino alla sua casa. Questa volta ci misi due ore. Mi facevano male i piedi per il freddo, pensavo a quello che avrei dovuto dire. Poi rinunciai. Mi sarebbe venuto in mente una volta che me lo fossi trovato davanti. Con un po' di fortuna saremmo stati soli in casa.
I suoi genitori lavoravano, no? E Nguyet doveva essere a scuola. Non ci sarebbero stati filtri.
Suonai il campanello quattro volte prima che Gioele si decidesse ad aprire. Quando comparve sulla soglia mi guardò per qualche istante, muto. Sbatté le palpebre un paio di volte, poi si fece da parte per lasciarmi passare.
Teneva di nuovo le mani affondate nelle tasche, lo sguardo basso. Camminava a testa china, con le spalle curve.
«Non mi aspettavo che saresti venuta.» mormorò. Di nuovo quel suo tono inudibile.
La metamorfosi era già finita? Era già tornato quello di prima?
«Pensavo che non volessi più vedermi.» continuò.
«Non ti libererai di me così facilmente.» replicai, stizzita. «Mi hai trattata male, sono venuta qui perché voglio capire che cosa diavolo hai in quella testa.»
Spostò il peso da un piede all'altro, a disagio, si morse il labbro inferiore e distorse lo sguardo. Senza dire una parola salì le scale, e io gli andai dietro. Ma non si diresse verso la propria camera. Invece che proseguire dritto per il corridoio aprì una porta alla sua sinistra, e scoprii che lì dietro c'era un altro atrio, molto piccolo, con un tappeto scuro e pareti dipinte di un verde pesante, cupo.
Anche lì c'erano due porte chiuse, una alla nostra destra e l'altra alla sinistra. Gioele aprì quella di destra ed entrò in una piccola stanza con le pareti viola, lunga appena un paio di metri, senza finestre. Era freddissimo, lì dentro. Non c'era nemmeno un termosifone, e con la porta chiusa il calore rimaneva fuori. All'interno c'era la più grande confusione che avessi mai visto. In quei due metri la famiglia Spampinato era riuscita a far stare una libreria, una scrivania con due sedie e un piccolo mobile scuro. Ma poi, a terra, c'era di più. C'era la custodia di una chitarra, un numero spropositato di cuscini, fazzoletti usati, una bambola e delle scarpe di Gioele, una da una parte e una dall'altra. Una delle sue camicie di flanella era appesa in malo modo su una delle due sedie.
Capii che era quella la sua vera stanza. Era lì che Gioele passava le sue giornate, non nella camera ariosa e chiara che mi aveva mostrato l'altra volta. Ma lì dentro non c'era nemmeno un letto. Dormiva per terra?
«Gio', che significa tutto questo?» gli chiesi. Non capivo dove volesse andare a parare.
«Niente.» replicò. «Non significa proprio niente.»
E di nuovo capii. Aveva parlato a voce alta, senza balbettare, senza esitazioni. Mi guardava negli occhi. Quello lì era il suo mondo, e lì dentro si sentiva tranquillo. Poteva lasciar cadere la maschera.
«Perché sei stato così cattivo, ieri?» gli chiesi.
«Non lo so.» ammise lui. Si sedette su uno dei cuscini, allungò una mano e raccolse un paio di fazzoletti. Li gettò in un cestino che non avevo visto, quando ero entrata.
«Ma come fai a non saperlo?» sbottai.
«Non lo so e basta.» Mi guardò mentre anch'io mi sedevo su uno di quei cuscini. Mi sistemai accanto a lui. Volevo averlo vicino, cogliere tutti i suoi movimenti. Non potevo lasciarmi sfuggire nessuna reazione. Intendevo capirlo, e non me ne sarei andata prima di essere riuscita a farlo.
«Ho perso la testa.» spiegò. Nonostante il suo tono fosse piuttosto alto, per i suoi standard, continuava a parlare lento, come se stesse cercando di riordinare le parole nella sua mente prima di riferirle a me. «Voleva picchiarmi, o forse no, non lo so.»
Ricordai il suo sguardo freddo, il suo compiacimento davanti al sangue di Gabriele.
«A me sembravi piuttosto lucido.»
Mi guardò per un solo istante negli occhi. Ebbi paura che mi avrebbe picchiata, ma alla fine abbozzò un minuscolo sorriso, piegando appena un angolo della bocca, chiuse gli occhi e si lasciò cadere tra i cuscini.
«Che cosa vuoi che ti dica?» mi chiese con un tono sconsolato.
«La verità, Gio'. Non voglio che mi dici balle.»
«Fammi una domanda, allora.»
«Ti piaceva? Picchiarlo, voglio dire.» Feci appena in tempo a finire di parlare che mi resi conto che non volevo conoscere la risposta. Ti prego, Gio', mi dissi, non rispondere. Ma sapevo bene che non sarebbe andata così. L'avevo imparato fin da subito, me l'aveva detto anche Gabriele. Gioele non mentiva mai.
«Sì.»
Rabbrividii a quelle parole.
«Ma Gio', perché? Sei tanto buono!»
Scattò in piedi tanto in fretta che non me ne resi quasi conto finché non me lo trovai davanti, furioso, che mi sovrastava.
«No!» esclamò. Era la prima volta che lo sentivo parlare con un tono di voce così alto. Era stato molto vicino a un urlo, e non riuscii a capire se era disperato o furibondo. O forse, e sarebbe stato peggio, entrambe le cose. «No, no, no!» ripeté. La sua voce si incrinò e lui crollò in ginocchio, con le mani tra i capelli e la testa china.
Rimase in silenzio, immobile, per qualche istante, e io non feci nulla, spaventata dalle sue reazioni. Poi sollevò su di me uno sguardo implorante, gli occhi azzurri umidi di lacrime. Non sapevo che si sarebbe messo a piangere, probabilmente no. Ma di quel passo, mi sarei messa a piangere io.
«Io non sono buono.» pigolò. «Tutti non fanno altro che dirmi che sono buono, che sono questo e sono quello, che non sono capace di fare del male a nessuno, queste cose qui. Non è vero, Carlotta, non è vero!»
Avanzando carponi gli andai più vicino, mi inginocchiai di fronte a lui e gli scostai i capelli da davanti agli occhi. Non dissi nulla e attesi che proseguisse. Si alzò di nuovo in piedi e prese ad andare su e giù per la stanza. Mi sembrava un cucciolo di tigre in una gabbia. Non avevo più paura. Era innocuo, almeno per ora. Non ce l'aveva con me. Parlava come se non fossi stata lì.
«Io... non voglio fare del male a nessuno. Sono buono? Non lo so. Ma so che se voglio sono in grado di essere crudele, posso ferire le persone, a volte voglio farlo. A volte vedo una persona che cammina per strada e mi chiedo che effetto farebbe rompergli una bottiglia in testa, o pugnalarla. Sono cose che non farei mai, so cosa è giusto e cosa è sbagliato, so che la fantasia è diversa dalla realtà. Ma, Carlotta,» si chinò davanti a me, mi prese per le spalle, fissò i suoi occhi chiari nei miei «ci sono dei momenti in cui non riesco più a controllarmi. Quando Gabriele è venuto da me, all'inizio pensavo che sarebbe stato tutto come al solito. Mi avrebbe picchiato, insultato e detto e fatto le solite cose. Mi avrebbe chiamato, di sera, per dirmi che gli dispiaceva.»
«Ti avrebbe...?» mormorai, sconvolta, a quelle parole.
Gioele si morse un labbro, consapevole d'aver detto qualcosa che avrebbe dovuto tenere per sé, ma alla fine annuì.
«Sempre.» disse. «Ogni volta che mi ha picchiato, poi mi ha chiamato per scusarsi. Mi chiedeva di perdonarlo.»
«E tu l'hai fatto?» sussurrai.
«Mai.» Sospirò, scosse la testa e mi guardò di nuovo. «Carlotta, avrei voluto che le cose andassero così. Ma poi... Poi ho sentito qualcosa, non lo so, non era una voce, era una sensazione. Mi sono chiesto Perché devo essere sempre io? Perché devo sempre essere quello che ci rimette? Sono stanco di fare la parte di quello che non si sa difendere, quello a cui puoi fare qualsiasi cosa. All'inizio volevo soltanto dargli un pugno, che ne so, qualcosa di piccolo, di simbolico.»
Fece una lunga pausa, riprese fiato. Si allontanò da me, si sedette a distanza, prese un cuscino e se lo rigirò per un po' tra le mani pallide e ossute.
«Quando me lo sono trovato davanti... Non... non ci sono riuscito. L'ho colpito una volta, e poi... poi ho continuato... Io... A me... » Piaceva. Era quella la parola che completava la frase. Gli era piaciuto.
Ma lui non proseguì e io non dissi nulla.
Ero venuta a cercare risposte dalla persona sbagliata. Nemmeno Gioele sapeva perché aveva agito così. L'aveva fatto, e basta. Se mi aveva accolta, se mi aveva condotto in quella stanza, era solo per farmi capire che lui non era solo quello che mostrava a scuola o quando uscivamo insieme. Quella era solo una parte, quella più conveniente, quella che si poteva accettare.
Ma poi ce n'era un'altra, una che seguiva l'istinto, che dimenticava le regole, la società, la convenienza. In Gioele c'era qualcosa di selvaggio, indomabile. Era qualcosa che nemmeno lui sapeva affrontare. Mi sembrava di vederlo, dentro di lui.
Gio' conosceva quel lato del suo carattere. Non permetteva a nessuno di avvicinarglisi, forse il motivo era proprio questo. Sapeva che, prima o poi, quella parte dentro di lui avrebbe causato una spaccatura. E lui non voleva soffrire.
Ma a me si era mostrato per intero, così com'era, senza censure. Forse la cosa era partita involontariamente, senza che riuscisse a controllarsi, nel momento in cui quel lato selvaggio aveva preso il sopravvento su di lui. Ma poi aveva deciso di scoprirsi completamente.
La domanda, a questo punto, era se io ero in grado di accettarlo.
Oh, io avevo fatto di peggio. Io avevo agito in modo subdolo, ingannando Gabriele, usando Elena. Avevo peggiorato la situazione tra Gabriele e Gioele. Chi ero per giudicare? Chi ero per dirgli che non ci si comportava così? Gioele era solo spaventosamente onesto. Incapace di controllarsi, si mostrava sempre e solo per quello che era. Per questo era così sconveniente. Per questo sembrava che portasse una maschera.
Perché era l'unico a non portarla.
«Gio', posso abbracciarti?» gli domandai.
Mi rivolse uno sguardo spaurito, confuso, poi, senza dire nulla, mi si avvicinò gattonando. Fu lui ad abbracciarmi per primo e io non feci altro che lasciarmi cullare dalle sue braccia. Lo strinsi a me e gli passai una mano tra quei capelli che mi piacevano tanto.
Non provavo per lui l'attrazione che avevo provato per Gabriele, no. Ma avevo bisogno di Gioele. Ora sapevo quello che potevo aspettarmi da lui.
Non l'avevo perdonato per il suo comportamento, questo no. Però l'avevo capito, e non intendevo giudicarlo.
Era la prima volta che lo sentivo tanto rilassato. Ma forse, per una volta, avevo fatto qualcosa di buono. Non ne ero sicura.
L'unica cosa di cui ero davvero certa era che, con quel giorno, l'amicizia tra me e Gioele era decisamente passata di livello.


Ignoriamo il fatto che io domani avrei un esame e che invece sto postando un sacco di cose, vi va?
Sì, vabbe', non sono mai stata una studentessa modello, si sa.
Ebbene, visto il mio Gio' che razza di confusione ha in quella testaccia?
Comunque, scusate se sono imparziale, ma a me questo capitolo piace tanto. Però mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensate voi. Qualsiasi critica o consiglio sarà ben accetto.
Nel frattempo, un abbraccio grandissimo a lizzyred, Elly4ever e Emmeti che hanno commentato lo scorso capitolo. Grazie!

Baci,
rolly too

P.S. Avete visto che brava? Non è passato nemmeno un mese dall'ultimo aggiornamento!
   
 
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