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Autore: shotmedown    25/01/2012    2 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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~ Ciononostante, a volte, ripeto ad alta voce una tua frase, o solo una sequenza di parole,
e sento sfilacciarsi una cucitura interna, l'imbastitura dell'anima.
Scrivi, ogni giorno sprecato è un delitto.

David Grossman, Che tu sia per me il coltello









“Che ci fai qui?” Lo guardai, mettendo nel mio sguardo tutto il disprezzo possibile.
“Sono venuto a trovarti, non si vede?”
“E’ mezzanotte.”
“C’è il fuso.” Diede un’occhiata all’interno, scorgendo anche la figura di Pierre che doveva aver spento il televisore. “Vedo che sei impegnata.” Nella sua voce c’era un tono ironico che non mi piacque affatto; mi faceva sentire colpevole.
“Infatti. Preferirei che tu te ne andassi.”
“ Ho fatto cinque ore di viaggio ed è così che mi accogli?” Passò al di sotto del mio braccio, dirigendosi verso Pierre, che lo fissò in un modo per niente amichevole. Perfetto.
“Benjamin. Tu sei?”
“Pierre.” Affermò, guardandomi. “Vado a fare una chiamata.” Si avviò in fretta nella mia stanza, lasciando me e Ben soli. Quello che avrei voluto evitare più di ogni altra cosa, perché più che di lui, non mi fidavo di me stessa e della mia intemperanza.  
“Allora...” disse, guardandosi intorno e sfiorando la stoffa del divano “ti sei sistemata davvero bene, vedo.” Mi appoggiai allo stipite con le braccia incrociate, sperando che arrivasse al dunque il prima possibile, senza troppi giri di parole, e che se ne andasse senza pretendere troppo.
“Tua madre ha chiesto di te.” Alzai lo sguardo e lo fissai dritto negli occhi. “Le ho detto che mi hai lasciato e che ora vivi a Montréal da circa tre anni.” Sospirai.
“Conoscendoti, avrai saltato tutti i dettagli della vicenda, vero?”
“E quali sarebbero questi dettagli?” Mi avvicinai a lui, così tanto da poter sentire il suo respiro sulla fronte. “Eravamo di fronte ad un altare e lei è fuggita via per non tornare mai più?”
“E la parte in cui mi hai tradita dinanzi a tutti gli invitati l’hai saltata?” rabbuiai, sentendomi colpita nell’anima ancora una volta. Aveva riaperto una ferita sanata solo in parte e ora dovevo solo cercare di non farla sanguinare troppo.
“Ti ho già detto che è stata Maggie ad alzarsi e a baciarmi lì!” non seppi precisamente perché, ma iniziai a ridere. Ero isterica, stavo impazzendo sul serio.
“Sei stato con lei due anni e mezzo e al nostro matrimonio hai deciso di spezzarmi il cuore! Tu non puoi neanche lontanamente immaginare cosa io abbia passato!” Sentivo le lacrime rigarmi le guance, e non riuscivo a fermarle. Ero impotente, ero nulla, ero patetica. Solo un pezzo di carta in balìa del vento, senza possibilità di controllare la propria sorte.
“Detesto me stessa per il solo fatto di essermi fidata così tanto di qualcuno!”
“E tu non credi che io abbia detestato me stesso in tutto questo tempo?” Mi chiedevo chi volesse prendere in giro con quella sua prostrazione. In cuor mio sapevo che se mi avesse chiesto scusa ancora una volta avrei chiesto a me stessa di dargli un’ulteriore possibilità; per questo, per istinto di sopravvivenza, non per altro, mi avvicinai alla porta e la spalancai.
“Vattene, Ben.”
“Io ti ho amata. Ed è ancora così. Sarò qui a Montréal per due settimane e non ho per nulla intenzione di lasciar perdere, a meno che a chiedermelo non sia tu.” Mi lasciai scivolare a terra, e iniziai a singhiozzare. Era un passato da cancellare, ma evidentemente non ne ero capace. Pierre si mise a sedere accanto a me, abbracciandomi e lasciando perdere le parole di conforto. Neanche Montréal era abbastanza lontana, la Terra non era abbastanza grande.  
Restammo in quella posizione per circa un’ora, quando finalmente mi decisi: dovevo calmarmi. Versai dell’acqua nella teiera e la misi sul fuoco; riempii due tazze e ne diedi una al ragazzo che se ne stava seduto fuori al terrazzo, attendendo che io tornassi. Non sentivo freddo, e lui non dimostrava di averne se pure così fosse stato. Cercò di distrarmi, insegnandomi nomi di stelle che probabilmente neanche esistevano; e gliene ero profondamente grata, benché non avessi aperto bocca per tutto il tempo.
“Pierre...” Mormorai, guardandolo osservare il cielo.
“Non dire nulla.” Mi mise un braccio sulla spalla e mi strinse a lui. Mise una coperta sulle nostre teste e mi fissò, con uno sguardo che mai gli avevo visto prima.
“Che c’è?” dissi, quando iniziai a sentirmi in imbarazzo.
“Niente, niente.” Iniziò ad indicarmi altre stelle, tra le quali, ne ero certa, vidi delle ali.
Guardai l’orologio: erano le quattro del mattino, e nessuno dei due aveva chiuso occhio. Gli chiesi di tornare a casa e riposare qualche ora prima di andare a lavoro.
“Il giornalismo richiede energia. Non farmi sentire più in colpa, va’!” Non appena vidi la sua auto allontanarsi, mi lasciai cadere sul mio letto, cercando di riposare anche io per affrontare una nuova giornata di duro lavoro. Ma, come avevo previsto, non riuscii a chiudere occhio a causa di un unico pensiero che mi tartagliava la mente: cosa dovevo fare con Ben? Insomma, una parte di me intendeva perdonarlo, l’altra gettarlo giù da un grattacielo di settanta piani.
 
Pierre p.o.v
Cercai di non addormentarmi in auto, ma era davvero difficile. L’unica cosa che mi teneva sveglio era il cellulare: se avesse squillato, sarei stato sicuro che si trattasse di lei, e non avrei esitato a tornare al suo appartamento; aveva bisogno di me. Parcheggiai nel vialetto di casa e sperai che Lachelle non fosse ancora tornata da Los Angeles. Fortunatamente era così. Mi distesi sul divano e mi addormentai, puntando la sveglia alle otto.
Ciò che più mi preoccupava, a parte il fatto che sarebbe stato difficile farla fidare di me, erano i suoi dubbi. Avevo sbagliato a cantare e lei aveva colto la palla al balzo senza neanche accorgersene. Non avrebbe dovuto sapere del mio lavoro, anche se, se un giorno fosse accaduto, avrebbe trattato me più o meno nello stesso modo in cui aveva trattato Ben quella notte. Ero confuso e il saperla così fragile mi faceva stare da schifo.
“Hey, Bouvier! Comeva?”
“ Ciao, Chuck. Tutto bene, grazie.”
“Sei pronto a cantare un po’?”
“Lo sono sempre. Dove sono Seb, David e Jeff?”
“Seb accorda la chitarra, David si stira i capelli e Jeff...Bhè, Jeff non si stira i capelli.” Scoppiai a ridere, immaginando il nostro amico pelatone con una piastra tra le mani. Entrammo in sala registrazione e ci servimmo da bere un bicchierino prima di iniziare. Salutai Patrick, il nostro tutto-fare e entrai pronto a cantare. “Jet Lag”, il primo singolo dell’album sarebbe stato messo on-line entro qualche ora e doveva essere pronto in serata. Prevedevo una giornata durissima.
“Hai già detto a Lachelle che farai tardi questa sera?” Scossi la testa e Pat mi passò il cellulare. ‘Oggi sono pieno. Ci vediamo domani, vengo a trovarti dal fotografo. Ma doveva essere una sorpresa, quindi fa’ finta di non saperlo, okay?’ Spedii il messaggio, ma non alla mia fidanzata.
 
Sam p.o.v
Indossai la divisa da lavoro, e iniziai a sistemare qualche quadro qua e là. Consegnai qualche album fotografico e ricontrollai i conti della settimana precedente, prendendo anche il posto della contabile. “Ho una laurea in Scienze della Comunicazione e mi tocca lavorare con i numeri.” Dopo circa tre ore e trentacinque minuti, lasciai perdere, la testa mi stava letteralmente esplodendo. Decisi di prendermi una pausa, quando il campanello della porta annunciò l’entrata di qualcuno.
“Ambasciator non porta pena, ma un buon pranzetto!”
“Dove hai preso quel cestino da picnic? E dove devi andare?” Lo aiutai con le bibite, onde evitare che mi allagasse il pavimento proprio ora.
“Tre, due, uno...Pausa pranzo. Su, abbiamo solo trenta minuti di tempo.” Mi prese la mano e mi trascinò verso il gazebo al centro della piazza. Stese la tovaglia a terra e dispose velocemente il cibo, per poi prendere il tè freddo e versarlo in due bicchieroni.
“Sei un amico!” Assaggiai una fetta della torta di mele, la mia preferita.
“Perché inizi dal dessert?” chiese, addentandone anch’egli una fetta.
“Perché sono anticonformista.” Bevvi un sorso di tè, e diedi un altro morso.
“Certo. Un anticonformista che ha deciso di fare un lavoro come un altro.”
“Non ne parliamo, Pierre.”
“Sto solo dicendo che con le tue capacità avresti potuto dar voce non solo ai libri, ma anche alle menti urlanti di coloro che la pensano come te.” Tutt’a un tratto mi passò la fame. Erano circa tre anni che non si parlava più delle mie aspettative e dei miei sogni, decisamente anacronistici, se si voleva metterli su un piano di realizzazione reale.
“Questo lavoro mi piace, guadagno abbastanza da poter pagare l’affitto e la mia vita è al sicuro. Non è ciò che vorrebbero tutti?”
“Appunto. Ti stai unendo alla massa. Vuoi iniziare a far parte del meccanismo?”
“Ne faccio già parte da quando sono stata registrata all’anagrafe.” Rise, ma quando mi vide posare il pezzo di torta tornò serio. Aveva toccato un tasto dolente.
“Mi stai dicendo che si nasce solo per diventare parte di una macchina? Non ci credi nemmeno tu, Sam.”
“E dimmi, Pierre, se anche volessi dar voce alla diversità, come potrei fare? Ho chiuso con il giornalismo, e non intendo ritornare sui miei passi. C’è un netto distacco tra il passato e il presente e ogni volta che ripenso a quello che mi è accaduto, la separazione si concretizza sempre di più.”
“Hai mai pensato di mettere da parte il tuo individualismo e a pensare di più anche a chi bisogno di te? Hai la possibilità di avere capacità innate di scrittura; talvolta, i tuoi, più che articoli, sembrano elegie.”
“Oh, oh...Sappiamo anche cosa sono le elegie...”
“Non sono stupido.” Afferrò una fetta di pane, e vi sparse sopra della crema di tonno. “Ritornando al discorso, credo che tu debba pensarci.”
“Va bene.”
“Speri di cavartela così? Sam, il mio non è un gioco. Io lo dico perché ti conosco e so che questo è il lavoro che più ami fare.”
“Se dicessi di non essere più anticonformista da circa...ora?” Lo guardai dritto negli occhi, sperando di trovare un segno di cedimento.
“Allora vorrà dire che rinnegherai tutte le lodi rivolte a Fromm. E sarai una tra tanti.”
“ Mi va bene.”
“No che non ti va bene.” Certe volte la sua sfrontatezza mi irritava.
“E chi dice che non sia così?”
“Io.” Stavo davvero iniziando ad alterarmi.
“Non mi sembra di averti concesso il diritto di esprimere giudizi circa la mia vita!” Mi alzai di scatto, facendo quasi cadere il bicchiere mezzo pieno. O mezzo vuoto. Tornai in negozio, sbattendo involontariamente la porta e costringendo il signor Powell a controllare che fosse tutto a posto. Pierre mi fissava dal centro della piazza, con sguardo sconsolato, o arreso, piuttosto. Mi sembrava di essere colpevole di un delitto che ne avevo commesso, né commissionato né pensato. Se la mia vita era arrivata ad essere ciò che era ora, era solo a causa mia e l’unica persona che cercava in qualche modo di cambiarla se ne stava lì, a guardarmi come se in realtà fosse stata colpa sua.
Raccolse quello che aveva preparato con tanta cura e andò via, lasciandomi dentro una bruttissima sensazione di abbandono.
Quando tornai a casa, Leah stava preparando la cena, e Jack era allo studio legale. Gettai la borsa sul divano e con essa mi lasciai cadere anche io, cercando di non pensare alla discussione avuta con uno dei miei migliori amici. Leah aveva passivamente accettato la mia scelta, e Jack non sembrava averla mai presa in considerazione, ma Pierre sembrava più di tutti ostinato a farmi tornare indietro, a prendere una strada diversa da quella che avevo forzatamente imboccato; ma questa volta ero io a non volerlo. Avevo raggiunto un obiettivo postomi da qualcun altro, ma era uno dei pochi traguardi che ero riuscita a tagliare e non intendevo gettare tutto al vento: avrei continuato a vivere quella vita, gli stesse bene o meno. Perché a me stava bene; almeno credevo. Mangiai un cucchiaio di purea e andai a fare una doccia, per rinfrescare non solo il mio corpo, ma anche le idee. Dovevo parlare con Pierre, chiarire e lasciare questa brutta situazione alle spalle. Non mi faceva stare bene e non ero ben consapevole del perché. Così, quella sera, decisi di parlarne con Leah. Forse avrebbe portato a qualcosa.
“A me sembra che stia diventando indispensabile per te.”
“Certo. Leah, non è così. Io non ho bisogno di lui.” Mi porse una tazza di caffé, bevendo un sorso prima di rispondermi.
“Questo lo credi tu. Sam, se fossi stata un’estranea sarei arrivata alla conclusione che voi due siate innamorati l’uno dell’altra.” Per poco non gli sputai la bevanda in faccia, ma di contro mi entrò nell’apparato respiratorio, costringendomi a tossire.
“Ma...che...stai...” Ripresi aria, inspirando e asciugando le lacrime dovute all’attacco di tosse. “Ma che diavolo stai dicendo?”
“Mi hai chiesto un parere e io te l’ho espresso. Come il caffé.”
“Squallida.”
“Ora, se vuoi scusarmi, vado a fare una doccia.” Posò la tazza sul tavolo, e corse in camera sua. Ora non solo dovevo affrontare Ben e il suo ritorno poco gradito e inaspettato, ma anche Leah e le sue tesi sui miei sentimenti.
 
Passarono tre giorni e lui non si faceva sentire. Passarono tre giorni e io mi sentivo uno schifo con me stessa. Passarono tre giorni e nulla era cambiato se non le mie certezze. Mi capitava di prendere il cellulare tra le mani ed evidenziare il suo numero in rubrica, per poi chiudere subito e scrollare me stessa dal pensiero di chiamarlo. Non era orgoglio: era mancanza di scuse. Non ne avevo: mi ero comportata male. E mi mancava.
  
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