Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Doll_    26/01/2012    17 recensioni
June è un'adolescente riservata e timida che al secondo anno di liceo viene inevitabilmente attratta nella tana del lupo cattivo. Jack è più grande e affascinante, ma anche col suo carattere intrattabile e scontroso, riesce a far innamorare di sé la ragazza e a portarla a letto, per poi lasciarla come suo solito. Peccato che l'anno dopo i due verranno messi a stretto contatto a causa dell'imprevedibile destino che, seppur detestandosi, li unirà sempre più...
Genere: Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'June e Jack'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
If I Could Turn Back Time
 
 


   Image and video hosting by TinyPic   




 
Era passato un mese. Tre giorni e due ore, da quella famosa notte.
E Jack non mi aveva rivolto la parola, non mi aveva più guardata in faccia e appena sentiva la mia presenza, faceva qualsiasi cosa per svignarsela, e quando le circostanze non glielo permettevano, riusciva a cacciare me con la sua impossibile indifferenza.
Ed io soffrivo… Soffrivo così tanto che ancora oggi, scrivendolo, mi tremano le mani al solo ricordo. Ricordo di notti insonni, di pasti saltati, di sigarette consumate, di litigi ingiustificabili, di quella lenta e degenere autodistruzione che il mio corpo stava subendo. Incredibile quanto potere una persona come lui, potesse avere su di me.
Eppure io non smettevo mai di sperare, no, la speranza non mi aveva mai abbandonata. Speravo ancora in una sua chiamata, in un suo sguardo; oppure quando mi ritrovavo ad aspettare l’autobus in orari improbabili, di vederlo passare con la sua macchina e fermarsi per darmi un passaggio. E, beh, erano più le volte che mi davo mentalmente della stupida, pensando “perché mai lui dovrebbe fare un piacere a me??”, che invece abbassavo semplicemente lo sguardo mortificata senza però ribattere e sorvolando l’argomento persino nella mia mente.
Credevo di poter impazzire. Credevo che facendo passare ancora altro tempo, altre settimane, altri giorni, altre ore, altri minuti, avrei rischiato di perderlo inevitabilmente e di rivedermi a distanza di vent’anni zitella, frustrata e con mille rimpianti alle spalle. I filmini nella mia testa avrebbero impressionato Stephen King.
Ricordo ancora quando iniziavo a pensare che probabilmente in quel lasso di tempo, lui avrebbe potuto frequentare qualcun'altra. Che mentre con me risultava freddo ed impassibile, con lei avrebbe potuto ridere, divertirsi.. dimenticarmi.
E poi crollavo e piangevo. Piangevo così tanto che il giorno dopo il cuscino del mio letto era ancora umido.
Un giorno mia madre mi disse: “Le persone che ti fanno ridere, ti vogliono male; le persone che ti fanno piangere, tengono a te.”
Okay, l’aveva detto in dialetto e scrivendolo, sicuramente il correttore automatico di word mi segnerebbe mille milioni di righe rosse sotto le parole, ma comunque questo era il succo, che poi, non è poi sempre così… Le mie amiche non mi avevano mai fatto piangere, ma ero sicura che mi volevano bene. Mentre Jack… A ripensarci erano più le volte che mi ritrovavo a piangere per lui che a ridere con lui.
Quindi significava che teneva immensamente a me, vero? Certo mamma, come no.
Ma vabbè, la mia mammina voleva solo consolarmi perché era stufa di ritrovarsi uno zombie in casa che sembrava appena uscito dal video musicale “thriller” di Michael Jackson, quindi… come biasimarla?
Comunque sia, il tempo stava passando.
Un mese, tre giorni, due ore e sedici minuti.
Mia madre entrò nella mia stanza salendo le scale e facendo più rumore di un branco di rinoceronti con delle scarpe da tip-tap, iniziando a lamentarsi per la puzza di chiuso e per i panni lanciati sulla scrivania che si mischiavano fra quelli puliti e quelli da mettere a lavare, e solo dopo questa serie di chiacchiere incessanti che continuavano a crearmi un fortissimo emicrania, si decise a darmi la notizia che poi avrebbe cambiato il corso di tantissimi eventi futuri: “..e quelle scarpe, poi! Ah, mi sono dimenticata di dirti che stasera ci sono ospiti. Io e tuo padre volevamo conoscere la famiglia dell’amichetta di tua sorella, quindi cerca di renderti presentabile e magari scendi di sotto che ti presto il mio fondotinta per quelle tremende occhiaie, tesoro. Ancora che ti disperi? Sei bella, giovane, divertente ed intelligente, quel coglione se ne può pure andare a farsi fottere, chiaro? Ora, forza, vatti a sistemare!”
Avevo sempre ammirato il talento di mia madre nel riuscire a mettere in un unico discorso centinaia di temi diversi e rifilarlo così, senza neanche prendere fiato, e ammiravo ancora di più, la sua capacità nel rendere ogni problema –da esasperante a tragico- una stupidaggine da niente, facendoti credere che poi chiunque sarebbe stato in grado di risolverlo senza lamentarsi come invece facevi tu. E allora riusciva anche a farti sentire in colpa, per altro, perché mentre nel mondo c’erano bambini senza cibo, gente uccisa ingiustamente e ragazzi con dei genitori drogati o alcolizzati, tu invece eri lì, in una bella casa, con una bella famiglia, sul tuo comodo letto, a disperarti perché un certo Jack O’Connell ti aveva mollata come una stupida alla festa in maschera e non ti rivolgeva la parola da un mese, tre giorni, due ore e trenta minuti.
Che ingrata che ero.
Mia madre non mi diede neanche il tempo di ribattere che se andò esattamente come era arrivata: velocemente e rumorosamente.
Era sabato ed io non avevo la minima voglia di alzare il culo per “rendermi presentabile” per certi tizi che neanche conoscevo.
Sicuramente sarebbero stati quei soliti idioti che tenevano la figlioletta sul piedistallo neanche valesse miliardi.
Okay, l’ultimo era stato un commento molto cinico, ma era il malumore a farmi essere così acida e scontrosa.
Comunque mi alzai, seguita da sbuffi, crampi e molte imprecazioni contrariate, iniziando a rovistare nell’armadio per trovare qualche indumento decente da infilarmi. Di sistemare la cameretta non ci pensavo minimamente. Era al terzo piano, al posto della mansarda e sicuramente a nessuno sarebbe interessato di venirci, quindi reggiseni, mutandine e panni sporchi o puliti, restarono immobili come li avevo lasciati, mentre correvo nel mio bagno a lavarmi, mettermi dei jeans anche un po’ logori ed una felpa che l’anno prima avevo fregato a Jack una sera che avevo dormito da lui. Amavo quella felpa… Non aveva niente di che, ma era verde e nera, con dei disegni astratti sopra che mi facevano impazzire. Jack mi aveva detto di averla pagata un casino ma che potevo tenerla perché a me stava meglio… e beh, aveva aggiunto anche che mi rendeva tremendamente dolce quanto sexy.
Non avrei mai potuto dimenticare quel giorno, quelle sensazioni, neanche a volerlo.
Dei capelli non me ne importava poi molto. Li lasciai lisci sulle spalle anche se un po’ scompigliati come piaceva a me, finendo di truccarmi solo quando già si erano fatte le sette e mezza.
Sentivo mia madre e mio padre in cucina a spostare e rispostare padelle, pentole e posate neanche stesse arrivando il papa in persona. Che poi, in tal caso, non avrebbero nemmeno fatto tanto… Eravamo atei, noi.
Mi decisi poi anche a scendere le scale –stavo facendo troppi sforzi quel giorno-, raggiungendo l’allegra famigliola intenta a preparare una cena impeccabile.
Niente di nuovo quindi se mia madre sbraitava a destra e a manca, la mia sorellina April saltava sul divano emozionata che venisse la sua amichetta, e mio padre cercava di sdrammatizzare la situazione con battutine che però non facevano altro che innervosire mamma.
“Salve famiglia.” Li salutai, aspettandomi già la loro reazione: ignoranza totale.
Quando avevano da fare ed erano presi da altre cose, m’ignoravano liberamente senza neanche farsi troppi problemi se ci rimanevo male. Ma poi ci ero abituata.
Mi diressi accanto a mia madre e mi fregai un panzerotto ripieno di pomodoro e mozzarella, facendola trasformare nel classico mostro delle favole che si vede raffigurato nei libricini per bambini.
Occhi sgranati, corpo rigido, guancia rosse, capelli per aria e delle piccole venuzze che andavano a raggiungere l’iride che non smetteva di puntarmi.
Chissà com’è, si accorgevano di me solo quando stuzzicavo qualcosa di là e di qua.
“Vai a sedare tua sorella e levati da qui, non devi toccare nulla.”
Questo era il modo di mia madre per dirmi: “Carissima e amatissima figlia mia, dato che sono a conoscenza della tua stupefacente responsabilità, vorrei gentilmente chiederti il favore di badare alla tua sorellina, anche lei mia adoratissima figlia. Ah, e data anche la tua maturità, pur sembrandomi inutile, ti chiedo anche di non ingurgitare ciò che sto accuratamente preparando per la cena di stasera. Grazie.”
Sì, sì… voleva proprio dire così.
Annuii impercettibilmente e a passi da bradipo mi avviai al salotto dove incontrai subito April che, saltando sempre sul divano, cantava la canzoncina delle scimmiette imparata dal film Le follie dell’imperatore.
“Ehi bestia, mamma ha detto che devi finirla.” La richiamai, venendo bellamente snobbata.
Cinque minuti, poi la raggiungevo e la picchiavo, magari soffocandola anche con un cuscino.
“Ottantasette scimmie, saltavano sul letto, una cadde in terra e si ruppe il cervelletto…”
“Ti avverto, se non la smetti adesso non potrei rispondere dei miei gesti..” La minacciai, vanamente.
“Ottantasei scimmie, saltavano sul letto, una cadde in terra e si ruppe il cervelletto…”
Ora la uccido.
“Te lo rompo io il cervelletto se non scendi immediatamente.” Dissi, tentando di sembrare almeno un minimo autoritaria.
Se solo il mio tono non fosse stato talmente annoiato e privo di qualsiasi accento, magari lei mi avrebbe perlomeno sentita
“Ottantacinque scimmie…”
Grazie al cielo il campanello suonò prima che la peste potesse continuare.
“Uuuuh! Sono arrivati, sono arrivati, sono arrivati!!” Saltò giù April, tentando di alzarsi con la punta dei piedi per vedere attraverso lo spioncino.
“Mamma, ma quanti sono?” Chiesi, seguendola con lo sguardo mentre si asciugava le mani sullo strofinaccio per poi poggiarlo sulla sedia e andare ad aprire alla porta.
“Quattro, June. I genitori, la piccola Michelle e suo fratello maggiore… Sempre se c’è. Janice non mi aveva dato la conferma, ma io ho comunque apparecchiato per otto…” Borbottò lei, rispondendo poi al citofono.
Io feci spallucce, del tutto disinteressata alla cosa, avendo già dimenticato i nomi da lei appena detti, voltandomi di spalle e dirigendomi in cucina per rubare un altro panzerotto.
Mia madre aprì la porta facendo entrare gli ospiti, proprio quando mi ero infilata l’intero panzerotto in bocca e quasi rischiai seriamente di strozzarmi appena mi resi conto che la famiglia ospite da noi, era proprio la famiglia O’Connell.
 
La prima ad entrare fu la madre, con la sua bella giacca firmata ed i capelli fissati in testa con un’acconciatura da urlo, tenendo per mano la piccola Michelle che con i suoi lunghi boccoli biondi sorrideva ad April per poi gettarsi ad abbracciarla pur avendola vista solo il giorno prima. Al seguito entrò il padre, alto quasi due metri e con quell’aria sempre troppo seria che rovinava i suoi bellissimi lineamenti.
Quando riconobbi questi e fu troppo tardi per il panzerotto ritornare su dalla gola, poco prima che la porta si chiuse, entrò lui.
Alto quasi quanto il padre, biondo e sempre spettinato, con tanto di jeans scuri, giacca di pelle e camicetta grigia scuro che lasciava decisamente poco posto all’immaginazione.
Bello, bello, bello… ed io me l’ero lasciato sfuggire via. E lui aveva ammesso di amarmi… ma anche di odiarmi. E poi non mi aveva calcolata per un mese, tre giorni, quattro ore e sette minuti… Anche se ora… Ora era a casa mia.
Neanche a farlo apposta, appena mi vide rimase fermo immobile con le braccia alzate per togliersi il giacchetto.
Immobili. Lui con il giacchetto a metà fra l’averlo addosso e il poggiarlo sull’attaccapanni, ed io con il famoso panzerotto in gola.
A fissarci.
Poi mia madre ci risvegliò dal “brutto” sogno.
“Oh, Janice, che piacere rivederti! Venite, la cena è già pronta. Si inizia con qualche antipastino e poi…” Mia madre si stava pericolosamente avvicinando alla cucina, portando dietro di sé i famosi ospiti, mentre Janice le rivolgeva un sorriso di circostanza, tanto che anche mia sorella April se ne sarebbe accorta se non fosse stata troppo presa a saltellare ora in compagnia della sua amichetta.
“June!” Ops.. troppo tardi. “Ti avevo già detto di aspettare prima di mangiare.” Disse mia madre a denti stretti per mascherare il rimprovero, mentre mio padre si accingeva ad attaccar bottone con il padre di Jack.
Senza riuscirci, però.
Intanto, con il cuore in gola –e anche il panzerotto-, mi sbrigai a liberarmi del boccone e a tentare di sorridere mentre mi presentavo ai nuovi arrivati.
“Uh.. ehm… Buonasera.” Feci, più impacciata che mai, sentendomi addosso lo sguardo di Jack e di sua madre, che aveva preso a squadrarmi dalla testa ai piedi.
“Janice, questa è mia figlia June.” Sorrise mamma, cercando di togliermi dall’imbarazzo.
“Ah, June, tua madre mi aveva parlato di te… Ma mi sembra di averti già vista.” Rispose la donna, con un’eleganza in una frase tanto semplice, che mi stupì non poco.
“Oh, sì… Ero al matrimonio di.. di Jessica, sua nipote.” Balbettai, cercando in tutti i modi di non guardare dalla parte di Jack.
Ci furono secondi, forse minuti, che comunque parvero infiniti, nei quali restammo tutti in silenzio e Janice continuava a farmi la lastra con la sua espressione insondabile, fino a quando proprio quest’ultima proferì parola, ridendo: “Ooh, sì, ma certo! Tu sei June. Quella June!” Rise ancora, spaventandomi quasi.
Ma che diavolo si rideva? Io mi stavo sentendo male dal disagio e lei rideva?
Beh, comunque servì per scongelare l’atmosfera e far sedere tutti finalmente a tavola.
Sfortunatamente Jack capitò all’ultimo posto del tavolo –di capotavola ce n’era uno e ci era seduto mio padre- ed io dovetti sedermi alla sua destra, non riuscendo nemmeno a fiatare per paura di rompere quella pseudo tregua che si era venuta a creare fra noi per forza di cose.
I famosi panzerotti, scoprii, erano di due tipi: mozzarella e pomodoro –come piacevano a me- e funghi e formaggio –come invece odiavo.
Quindi se ne prendevo uno, purtroppo, appena lo aprivo –dato che erano di dimensioni mooolto ridotte, stile biscotti della fortuna ripieni ma leggermente più grandi- e beccavo quello con i funghi, mi toccava anche mangiarmelo oppure rifilarlo a mio padre, senza farmi vedere.
Mia sorella che era seduta di fronte a me, accanto a Michelle che invece era di fronte a suo fratello, non la smetteva di chiacchierare e porsi delle domande che non stavano né in cielo né in terra, del tipo: “I capelli delle barbie sono veri o finti? Se sono finti, perché?”; facendomi chiedere se fosse davvero mia sorella o se fosse stata mandata da noi tramite qualche astronave sconosciuta.
E Michelle le rispondeva pure!
Io a sette anni mica ero così… In quel momento lo sperai vivamente.
Nel frattempo i nostri genitori chiacchieravano indisturbati mentre la sfiga mi perseguitava facendomi prendere solo panzerotti con funghi, costringendomi a rifilarli a mio padre, appunto, o a mangiarli con disgusto, fino a quando, una mano estranea s’insinuò nel mio campo visivo porgendomi un panzerotto con mozzarella e pomodoro.
Mi si illuminarono gli occhi vedendolo, e soprattutto constatando che era per me, quando poi il sorriso si ritirò non appena alzai gli occhi e collegai quella mano al suo braccio, alla sua spalla, così fino al suo collo e così al suo viso… e a quegli occhi che mi erano mancati come l’aria.
Sentii il cuore perdere battiti e balbettando stupidamente qualche grazie, afferrai il panzerotto provando a guardarlo il meno possibile.
“Neanche a mia sorella devo accontentarla così.” Fece lui, col solito tono gelido ed impassibile.
Ormai avevo capito com’era fatto: prima faceva qualcosa di gentile poi, per mascherare il gesto e ricordare lo stesso che era sempre il solito bastardo, feriva con una delle sue frecciatine usando quella classica nonchalance senza paragoni.
Rimasi in silenzio, mangiando ed ignorandolo.
In verità, però, il mio cuore stava facendo i salti di gioia non riuscendo ancora a credere che finalmente mi aveva rivolto la minima attenzione.
La cena continuò così, io e Jack in silenzio, Michelle ed April che non smettevano neanche un secondo di ciarlare anche con il cibo in bocca, e i nostri genitori che parlavano di lavoro o di affari vari che neanche mi sprecavo di stare a sentire.
“Jack, ma tu quanti anni hai?”
Eravamo arrivati già al dolce, quando mia sorella fece quella domanda a Jack.
Lui sorrise. “Diciotto.”
“Ma allora sei più grande di June! Lei ne ha solo sedici!”
“E questo che c’entra?” Finalmente proferii parola, inarcando un sopracciglio verso quella pettegola di mia sorella. “E comunque ne ho quasi diciassette.”
“Siete carini insieme. Io vi ho visti ballare al matrimonio di Jessie.” Disse poi Michelle, con la sua voce sempre tranquilla e mai troppo alta e stridente come quella di April che ti arrivava fin dentro il cervello.
…Anche se in quel momento avrei preferito sentire mille volte la vocetta odiosa di mia sorella che quella voce pacata dire una frase così distruttiva.
Jack si schiarì la voce come se qualcosa gli fosse andato per storto ed io rimasi immobile a fissare la piccola Michelle che con un sorrisetto dolcissimo attendeva una nostra risposta.
“Ballare.. è un parolone.” Optai per sdrammatizzare, quindi, prendendo esempio da mio padre e ridendo nervosamente cercando di nascondere il rossore improvviso.
“Beh, io ballo bene.” Disse però Jack, con un espressione fra l’ironico ed il divertito, facendo ridacchiare le piccole.
“Ah, se quello lo chiami ballare…” Ribattei, con un espressione che era talmente buffa che fece piegare in due dalle risate mia sorella.
“Cosa vorresti insinuare? Se ballavo male era solo perché avevo un sacco di patate da guidare.”
“Sacco di patate a chi? Ero leggiadra come una fata.” Risposi, alzando anche le braccia per simulare delle ali e l’idea di leggerezza.
Ora Jack non riuscì a trattenersi e cercando di sputacchiare meno acqua possibile –dato che stava bevendo-, scoppiò a ridere insieme a Michelle ed April.
“Una fata, eh?” Sorrise, con una faccia dubbiosa.
“Una fatina, ecco.”
Lui rise ancora. “Io rimango al sacco di patate.”
So che forse in quel momento avrei dovuto rispondere con qualcosa di più arguto, ma il modo in cui mi guardò fu così travolgente che mi pervase completamente i sensi.
I suoi occhi erano qualcosa di fantastico; che poi, pensandoci, quando qualcuno si ritrovava a descriverlo –biondo, alto, occhi celesti- poteva anche passare per il classico principe azzurro, ma poi quando qualcuno se lo ritrovava davanti in tutto il suo metro e ottantasei, con la giacchetta da motociclista, i tatuaggi sulle braccia e qualcuno dietro al collo, i capelli nei quali potevi perderci un pettine e forse anche un intero armamentario da parrucchiere, e l’espressione perenne che sembrava dirti: “Se m’importasse qualcosa di te potrei anche muovermi e spezzarti in due, ma dato che mi sei completamente indifferente, continuerò semplicemente ad ignorarti”, si ricredeva immediatamente sul principe azzurro e lo etichettava come “ragazzo interessante ma preferibilmente da evitare”, e beh, come dar torto a certe impressioni?
Comunque, fatto sta che non riuscii a trovare le parole per rispondere e ritrovandomi a fissarlo con due occhi da innamorata pazza, il discorso venne chiuso così, fino a quando i “grandi” non decisero di mettersi di fuori per chiacchierare, le piccole di rinchiudersi nella cameretta di April per giocare ed io e Jack, però, rimanere immobili senza saper che fare, in salotto.
“June, perché non fai vedere a Jack la tua camera?” Mi chiese mia madre, pensando magari di farmi un piacere.
Se solo avesse saputo che era lui il ragazzo che mi aveva fatta stare male per tutto questo mese, tre giorni, cinque ore e quarantacinque minuti, probabilmente non si sarebbe fatta problemi a cacciarlo direttamente fuori casa.
“Ehm… Non penso che…” Tentai, ma lei m’interruppe subito con un’occhiataccia ammonitrice e quasi fulminante, obbligandomi a darle ragione. “Okay, v-vieni Jack…” Deglutii, pronunciando il suo nome e parlandogli con quella vocetta instabile che faceva trasparire ogni mia singola emozione.
Salimmo le scale in silenzio, lui dietro di me, fino a quando non ci ritrovammo davanti alla porta.
All’ultimo scalino dovetti voltarmi ed avvertirlo: “P-potresti aspettare qualche secondo qui?”
“Perché? La tua camera non è presentabile?” Chiese con nonchalance.
“Ecco… sì.”
“Sì cosa?”
“Non è presentabile.”
“Non me ne frega niente.”
Non me ne frega niente, lo disse con così tanta indifferenza che mi fece quasi male; neanche avesse detto non me ne frega niente di te… però, boh, era come se avesse detto così in un certo contorto modo.
Senza pensarci due volte, aprii la porta facendolo entrare per primo e gustandomi attimo dopo attimo i suoi cambi di espressione di fronte a quel caos.
“Queste…” Si avvicinò al mio letto, prendendo in mano un coso nero. “Sono… mutandine?” Chiese poi, sollevandole con l’indice ed il pollice.
“Uhm… Sì.” Arrossi, sbrigandomi a levargliele di mano. “Puoi guardare ma non toccare.” Lo ammonii.
“Uh, quel reggiseno me lo ricordo.” Borbottò fra sé e sé, camminando per la mia camera e tenendo conto di ogni singolo dettaglio.
Non badai a quell’osservazione e mentre cercavo di sistemare un po’ quel casino, gli dissi, quasi senza pensarci: “E’ strano vederti qui.”
Lui si fermò vicino alla porta finestra che portava al balconcino, voltandosi a guardarmi.
“Perché?” Chiese.
“Non sei mai salito in camera mia.”
“Non mi hai mai invitato a farlo.”
“Non volevo darti un’impressione sbagliata di me.” Mi giustificai.
“Beh, comunque alla fine ci sei riuscita lo stesso; a darmi un’impressione sbagliata, intendo.” Rispose infine, con un tono quasi amareggiato.
“No, Jack, io non ti ho dato nessuna impressione sbagliata. Non mi hai neanche lasciata spiegare.” Dissi, raggiungendolo e parandomi di fronte a lui.
Jack, sempre con nonchalance, si voltò e notando un lettore cd, premette semplicemente play e in quel momento partì la canzone If I could turn back time di Cher.
“Bene. Allora spiegati.”
 
“I don't know why I did the things I did. I don't know why I said the things I said. Pride's like a knife, it can cut deep inside.Words are like weapons, they wound sometimes. I didn't really mean to hurt you; I didn't wanna see you go”
 
“Tu non hai sentito il resto di quella frase, Jack. Io, sì, avevo detto quelle cose, ma solo perché Dan mi aveva portata all’esasperazione. Mi inviava ogni giorno sms, letterine, mi chiamava ogni sera e a scuola non mi lasciava un attimo di tregua. Io gli ho sempre voluto bene, ma quel giorno non ce l’ho fatta e sono scoppiata. Ma tu hai sentito solo metà di ciò che ho detto… Non è come hai pensato.”
Mi ero preparata quel discorso da un mese, tre giorni e sei ore, quindi ormai ce lo avevo stampato direttamente in testa e lo sapevo a memoria.
“E cos’è che avevi detto esattamente, sentiamo.” Fece lui, con una nota di disappunto nella voce che mascherava anche un po’ di nervosismo.
“Ho detto che lui non avrebbe mai potuto avere il mio cuore perché quello apparteneva già a te, Jack.” Ammisi, sentendomi svuotata di un peso fin troppo grande per me.
Lui rimase in silenzio, guardando un punto indefinito e con la musica in sottofondo, si ripeteva le mie parole in testa cercando di capire come avrebbe dovuto reagire. Avrebbe seguito il cuore o il cervello? Istinto o ragione?
 
“If I could turn back time. If I could find a way. I'd take back those words that have hurt you, snd you'd stay. If I could reach the stars, I'd give them all to you. Then you'd love me, love me, like you used to do. If I could turn back.”
 
“Mi amavi già a quel tempo?” Chiese poi, stupendomi.
Credevo non si sarebbe fidato e mi avrebbe semplicemente sbattuto nuovamente la porta in faccia.
“S-sì.” Deglutii, non sapendo più cosa aspettarmi.
“Perché non me l’avevi detto?”
La sua espressione era incomprensibile.
“T-tu.. tu avevi detto che avevi paura di essere amato. Così ho preferito aspettare.” Spiegai, torturandomi le mani.
Rimanemmo altri instanti in silenzio, quando poi disse, sorridendo: “Ti sta bene questa felpa.”
..E quanto poteva essere bello quando sorrideva?
“E’ tua.” Dissi solo, come se bastasse come motivazione del perché mi stesse bene.
“Lo so. Ho fatto bene a regalartela.” Annuì fra sé e sé, ripensandoci.
“Jack… Perché per tutto questo tempo mi hai ignorata?”
Era il momento di risolvere ogni dubbio.
“Dovevo capire. Magari andare avanti…”
 
“My world was shattered, I was torn apart, like somebody took a knife, and drove it deep in my heart. When you walked out that door, I swore that I didn't care; But I lost every thing darling then and there. Too strong to tell you I was sorry. Too proud to tell you I was wrong. I know that I was blind…”
 
La canzone volgeva al termine e quelle parole mi ricordavano esattamente la nostra storia fino a quella sera della festa in maschera, quando se n’era andato lasciandomi sola a penarmi contro me stessa.
“E.. ci sei riuscito?”
Non sapevo nemmeno se volevo sapere la risposta, ma preferii una dura realtà che una piacevole illusione.
“Sono ancora qui a parlare con te… quindi penso proprio di non esserci riuscito, no.” Ammise allora, posando le sue mani sui miei fianchi e tirandomi a sé.
“Questo che significa? Che mi hai perdonata? Che potremmo… tornare insieme?”
Lui sospirò. “No.”
Io cercavo di ricacciare indietro le lacrime. “P-perché?” Sussurrai, sembrando quasi una supplica.
“Ho detto che non sono riuscito ad andare avanti, non che avevo capito.”
Abbassai lo sguardo; mi sentivo sconfitta, stanca, senza più forze…
“Ti mancherò solo quando sarai tu a non mancarmi più.” Bisbigliai, con voce tremante.
Lui mi strinse ancora più forte. “June…”
“Ti piace così tanto farmi soffrire, Jack?” Chiesi allora, staccandomi da lui e puntando i miei occhi lucidi nei suoi.
Lui rimase immobile, guardandomi con un’espressione che non gli avevo mai visto prima. Sembrava.. pentito? Ferito? Stava forse provando… pena?
“Io devo solo…”
Ma non lo feci finire.
“Io ho fatto di tutto per te, per farti capire che ti amo e che ci tengo ancora a noi. Te l’ho dimostrato in ogni modo, ho pianto così tanto in questo mese che tu neanche immagini. Sono stata di merda e ho comunque continuato a farmi usare quando ti serviva a te, senza mai ribattere. Ti sono sempre stata fedele e sei riuscito a farmi sentire male anche con me stessa. Ora basta, Jack, perché io non merito tutto questo. Non più, almeno. Se ho sbagliato, mi sono scusata e ho cercato di farmi perdonare. Quindi mi devi una risposta: o tutto o niente.”
L’avevo detto. Ma.. ero veramente pronta a mettere un punto definitivo se la sua risposta fosse stata niente?











Angolo Autrice:
Lo so, non succede molto in questo capitolo, ma dovevo comunque cercare un attacco per la fine.... In qualche modo dovevano "far pace" no?
Vabbè, la verità è che non me lo so spiegare nemmeno io. Jack è sempre il solito testone, ma -forse perché sono io che l'ho creato- lo capisco anche....
Spero vivamente in qualche vostra recensione e ci tengo ancora a ringraziare tutte voi se la storia è riuscita a finire fra le più popolari!
Un bacionissimo: Doll!
PS: per chi non lo sapesse, questo è il contatto facebook -> Doll Efp
   
 
Leggi le 17 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Doll_