hopeless
«Hai
capito bene?»
La
bambina annuisce; è un movimento meccanico, il suo, come se
neppure avesse ascoltato
il discorso dell’illusionista. Semplicemente alza e abbassa
il capo, stanca, e
si stringe un po’ più forte nel suo cappottino.
«Starai
bene. È un bel posto, quello, pieno di persone simpatiche.
Non partirai subito,
ovviamente – ho bisogno di addestrarti, perché tu
sia pronta.»
Celia
sospira. Vorrebbe domandargli: «Non si può fare
altrimenti, padre?», e poi
farsi abbracciare stretta. Vorrebbe ascoltare la voce melodiosa di sua
madre,
osservarla rassettare. Alzarsi sorridendo e aiutarla, persino.
Però
la mamma non c’è più e il mago rifiuta
di farsi chiamare papà – quando gliel’ha
chiesto le ha risposto: «Mi sentirei vecchio.» E
poi, sorseggiando un tè: «Ho
altro da fare, non posso badare a te.»
Non
è certo il tipo di genitore a cui Celia si aspettava di
essere affidata, né il
tipo di uomo che si può facilmente amare. Sembra freddo,
inacidito, eppure in
apparenza simpatico e cordiale.
«Mi
hai sentito?»
«Sì»
risponde. Non è vero e il padre lo sa, ma nessuno dei due
sembra intenzionato a
svelare questa piccola bugia. «Posso andare a letto? Ho
sonno.»
E
senza aspettare risposta si alza dalla sua sediolina e corre fuori
dalla
stanza, diretta a quel bugigattolo che le hanno affibbiato come camera
da letto
– sono due notti che non dorme e probabilmente anche questa
la passerà a
fissare il soffitto, ma piuttosto che ascoltare gli insensati sproloqui
dell’illusionista Celia preferisce star da sola nella
penombra.
La
porta si apre di scatto, lasciando filtrare un debole raggio di luce
lunare.
Celia
spalanca gli occhioni scuri, confusa, e si porta a sedere –
il chiacchiericcio
che le giunge alle orecchie è confuso e fastidioso, eppure
quasi confortante.
Piano
e con attenzione si trascina fino all’uscio. «Chi
c’è?» chiede.
Le
risponde una voce infantile: «Allora ci sei davvero! Credevo
m’avessero preso
in giro, ‘sti qua!»
Non
può avere più di undici, dodici anni. Ha i
capelli nocciola – la luce della
luna li rende quasi argentati – e lo sguardo vispo e attento,
oltre che un
sorriso luminoso.
Sotto
lo sguardo attonito di Celia il ragazzino apre la porta e ciondola
nella
stanza, tranquillo. «Ci dormivo io, qua. Però non
fare quella faccia» la
ammonisce, alzando un dito, «mi fa più piacere che
ci stia tu. Io dormo col
trapezista, è divertente.»
«Lavori
qui?» non può fare a meno di chiedere Celia.
Il
ragazzo un po’ nicchia, poi annuisce. «Ho mollato
la scuola pe’ sta qua. Mi
piace il posto».
E
deve piacergli anche qua, pensa
Celia
con un sorriso – il suo primo sorriso da giorni –,
visto che non fa altro che
ripeterlo. ‘Sti qua, qua, pe’
sta qua…
«Io
sono Celia.» Allunga la mano verso di lui, attendendo che la
stringa. «Sono la
figlia di…» A quel punto si morde il labbro
inferiore, perché non sa come
spiegarlo e neppure vuole.
I
riccioli scuri le ricadono sul viso, enfatizzando il pallore delle sue
guance
di bambina, e il modo in cui struscia i piedi sul pavimento la rende
solo più
infantile.
Un
po’ la cosa le secca; anche se chiaramente piccolo,
il ragazzino che le sta ritto davanti ha un che di adulto. E sembra
anche
gentile, a differenza dell’illusionista e degli altri artisti
che le sono stati
presentati.
«Oh,
lo so, non ci sta bisogno che ti spieghi.»
«Ci
sta?» ripete Celia.
«Ci sta» conferma lui,
sorridendo un po’
di più. «Mi chiamano tutti Scricciolo, quindi
fallo anche tu – il mio vero nome
manco lo ricordo.»
Celia
vorrebbe chiedergli se è qui da molto tempo, se conosce bene
suo padre. Se è in
grado di aiutarla ad ambientarsi e se può suggerirle un modo
per distrarsi.
Non
che voglia davvero sentirsi parte di quel circo, in verità;
suo padre ha intenzione
di mandarla via, forse farla scritturare da qualche altra compagnia.
Magari
dovrà fare la maga.
«Sembro
una strega?»
Scricciolo
la guarda confuso. «Perché?»
«Perché
papà…» Le si blocca la voce in gola.
«Perché dice che ho dei poteri. Ho rotto
un bicchiere senza toccarlo, sai?» esclama, gonfiando il
petto. «Ero arrabbiata
e l’ho rotto.»
«Se
eri incazzata ben gli sta» conferma Scricciolo.
«Sarebbe bello essere una maga,
no? Se lo foss’io potrei fare altro, mica spalar la cacca
degli elefanti!»
Celia
tira su col naso. Vorrebbe essere felice anche lei della cosa
– invece è
indispettita e frustrata. In tutta la sua vita di bambina non aveva mai
provato
qualcosa di simile.
«Non
ho una famiglia. A cosa mi servirebbe la magia?»
«A
credere» risponde con semplicità Scricciolo,
scrollando le spalle ossute.
«A
credere?»
«Se
puoi rompere i bicchieri senza toccarli dev’esserci qualcuno,
lassù. E se c’è
qualcuno» le sorride, «allora non sei sola.
Mai.»
Il
giorno successivo Celia lo passa osservando suo padre lavorare.
Scricciolo
se n’è tornato in camera solo all’alba,
così che le è stato possibile dormire
due ore o poco più; però è felice,
perché qualcuno le ha rivolto la parola e
non è sembrato indisposto dalle sue brevi risposte.
«Vuoi
provare anche tu?» chiede il mago, indicandole dei
fazzolettini colorati e un
paio di colombe chiuse in gabbia.
Celia
non sa in cosa consista quell’incantesimo né se ci
sia un qualche trucco
dietro, però scuote la testolina riccioluta e ricomincia a
osservare
ostinatamente le punte dei suoi stivaletti.
«Sei
poco collaborativa, Miranda. L’addestramento
cambierà questa tua indole,
ne sono certo.» E sorridendo tra sé
l’illusionista ricomincia ad agitare i
fazzoletti – qualche attimo di pausa e poi una colomba spunta
tra le sue dita,
presto seguita da un’altra e un’altra ancora.
Sono
così belli, quei volatili, che prima di rendersene conto
Celia si è avvicinata alla
gabbia; un uccello le si accosta esitante, e quando la bambina infila
un dito
tra le sbarre per carezzarlo quasi la becca.
«Fa’
attenzione, Miranda.»
Celia
ingobbisce la schiena e finge di non averlo sentito.
«Miranda?»
Serra
le labbra, indisposta.
«Giulietta?
Ofelia?» insiste il padre. «Con che razza di nome
devo chiamarti, bambina?» Ha
la voce melliflua, ma i suoi occhi sono una dichiarazione di guerra.
«Celia?»
Trattenendo
il fiato, la piccola si volta.
«Così
va meglio. Vieni qui» la chiama.
Le
gambe le tremano un po’, però si sforza di
procedere – stringendo i piccoli
pugni muove un paio di passi, quindi alza il viso e punta i suoi
profondi occhi
scuri in quelli del padre. Si somigliano così tanto! Hanno
la stessa drammatica
profondità della notte, la stessa carica emotiva.
Celia
tira su col naso e si avvicina ancora.
«Prendi
questo.» L’illusionista le ficca un fazzolettino
rosa in mano e sorride. «Ora
pensa a un animale, Celia.»
«Uno
qualsiasi?» chiede con un filo di voce.
«Sì.
Chiudi la mano – lascia pendere solo un pezzo di quello
straccio, bambina, il
resto deve stare nel pugno! – e pensa.»
Celia
rivolge un ultimo sguardo al padre, poi socchiude gli occhi e immagina;
è in
una foresta. Ci sono lupi, leoni e ghepardi, ma lei cammina e loro a
stento la
osservano. Ogni tanto qualcuno emette qualche verso sconnesso, ma si
tratta di
mugugni più o meno udibili e per nulla aggressivi.
All’improvviso
una violenta luce le colpisce il viso, e Celia fa appena in tempo a
osservare
un coniglietto bianco che qualcosa – morbido
– le preme contro le dita.
Quando
riapre gli occhi l’illusionista le sta sorridendo.
«Sei dotata.»
«Il
coniglio c’è davvero.»
La
sua affermazione dev’essere suonata davvero stupida alle
orecchie del padre,
perché l’uomo ride – è una
risata poco credibile e per nulla di cuore, ma a
Celia si scalda ugualmente qualcosa nel petto.
Sistema
meglio il roditore tra le braccia, attenta a non ferirlo, e con la
manca – le
tremano le dita – gli carezza un po’ il dorso,
deliziata dalla morbidezza del
pelo dell’animale. È molto grazioso.
«Come…»
inizia.
«Vuoi
sapere come l’hai evocato?»
Celia
non è sicura di cosa significhi evocato,
ma il senso della frase è abbastanza chiaro. Annuisce piano.
«Come ho fatto?»
«La
magia, bambina, non ha spiegazioni razionali. È potere.»
«Potere?»
«Già.
Farai meglio a ricordarlo, se vuoi sopravvivere in questo
mondo.»
«Quindi
le Cirque des Rêves apre solo di
notte.» Celia sbatte gli occhioni scuri, fissando perplessa
Scricciolo. «Ed è
per questo che puoi venire a salutarmi? Perché tutti
lavorano e tu sei libero?»
Il
ragazzino ride e si lascia cadere sul letto; ha
portato con sé tanti dolci e svariate mele caramellate,
così che ora ha la
bocca tutta impasticciata e le dita lorde. «Lavoro di giorno,
qua, mentre gli
altri di notte. Solo il trapezista rientra prima – il suo
è il primo numero –,
ed è per questo che dormo con lui.»
«E
non sei stanco?»
«No.
Ci sto da tanti di quegli anni, qua, che c’ho
fatto il callo.» Le sorride e ricomincia a scartare caramelle.
Celia
ha preferito non toccarne nessuna, un po’
perché ha già cenato da un pezzo e un
po’ perché le si è chiuso lo stomaco.
«Anche l’illusionista» deglutisce,
«lavora di notte?»
«Tuo
papà è molto bravo, tanta gente viene qua solo
per vedere lui.»
Un
moto di orgoglio smuove il corpicino di Celia –
per quanto la cosa la infastidisca e le sembri inopportuna vorrebbe
quasi
sgattaiolare fuori dalla stanza per andare a sbirciare. Non per suo
padre – o
forse sì? –, quanto piuttosto per… per
qualcosa che neppure comprende.
Osserva
Scricciolo ficcarsi un’altra manata di
caramelle in bocca e poi si alza, sistemandosi nervosamente la camicia
da
notte. «Si può guardare?» chiede.
«Lo
spettacolo? Sì, si può.»
«Dobbiamo
pagare l’ingresso?»
Celia
ha solo qualche spicciolo regalatole da sua
mamma; si tratta di poche monetine, e non è per nulla sicura
che siano
sufficienti per un biglietto. Inoltre il circo dev’essere
aperto già da qualche
ora, perché ascoltando attentamente riesce a sentire il
parlottare sommesso
della gente e le urla di approvazione.
Di
quando in quando le arriva alle orecchie anche
la voce tonante del direttore, e quella divertita dei pagliacci.
«Noi
facciamo parte di ‘sto posto, Celia. Possiamo
fare quel che vogliamo» ride Scricciolo. Poi si alza e
raggiunge con qualche
falcata la porticina. «Il mago comincerà tra poco,
mi sa. Se vuoi vederlo devi
correre.»
E
Celia lo fa. Indossa le ciabattine – troppo
grandi per lei e decisamente scomode – e segue Scricciolo
fuori.
«Sei
sicura? Perché il Circo dei Sogni
può
ipnotizzare, se non si è preparati.»
Celia
ripensa al bicchiere che ha rotto e al
coniglio che le è comparso tra le mani; a suo padre, al modo
in cui le ha detto
che i suoi poteri sono interessanti. Osserva il tendone scuro che le
sta
davanti, quindi prende un profondo respiro e annuisce.
Quando
entrano decine di cavalli stanno correndo
per l’arena. C’è una sola donna in mezzo
a loro: è alta, con lunghi capelli
biondi e un vestito bianco addosso.
«Quella
signora, Margaret, è un’acrobata» spiega
Scricciolo, sorridendo. «Ha quasi finito il numero
– prima saltava sui cavalli
e si agitava tutta, ora li sta mettendo in fila per uscire.»
Margaret
non lascia passare un secondo di più: a un
suo schioccare di frusta gli animali si dirigono a passo svelto verso
l’uscita,
sbattendo con forza gli zoccoli contro la sabbia.
Celia
trattiene il fiato per l’emozione – sono
così
belli! «Il loro numero è finito?»
domanda con un pizzico di delusione.
«Sì.
Però ora tocca all’illusionista.»
Le
luci si spengono. D’un tratto, senza che il
direttore abbia dato un qualche avviso, e dal pubblico si alza un
brusio
perplesso – anche Celia non può fare a meno di
trattenere il fiato e stringere
piano la mano di Scricciolo.
«È
normale?»
«Quanto
può esserlo la magia.»
Celia
si volta verso l’arena, e all’improvviso una
piccola luce bianca si accende. Poi un’altra, rossa, e a
seguire una verde e
una gialla. Le fiammelle cominciano a vorticare in tondo, permettendo
finalmente al pubblico di distinguere una figura.
È
l’illusionista.
«Gentile
pubblico, buonasera.» Accenna un inchino.
«Il mio nome è Prospero l’Incantatore, e
sono qui per deliziarvi con la sottile
arte della magia.»
Qualcuno
nel pubblico esclama: «Buffone», tante
altre voci commentano qualcosa in tono ammirato.
«Immagino
che vi si stia stancando la vista, con sì
poca luce. Quindi…»
C’è
un bagliore immenso; a Celia ricorda la
sensazione di fastidio che dà osservare il sole a occhi
nudi. Pian piano, però,
la luce scema, e il circo torna normale – niente
più fuochi fatui a ruotare
intorno all’illusionista, solo colombe colorate.
Il
mago alza una mano guantata e un uccello gli si
posa sulle dita. «Si dia inizio allo spettacolo!»
«Tuo
papà è davvero eccezionale.»
«Sì»
sbuffa Celia, trascinandosi con fare stanco
sul suo lettino. La cosa la secca, ma lo spettacolo del mago si
è davvero
rivelato meraviglioso – dalle luci alla voce di suo padre,
tutto era stupendo.
Non c’erano particolari fuori posto o trucchi mal riusciti.
Ai
suoi occhi di bambina, lo spettacolo di Prospero
l’Incantatore sembra quanto di più bello al mondo.
«Ho
sonno. Tu no, Scricciolo?»
«Io
ci sono abituato.»
«Fortunato.»
L’imbarazzo
cade tra loro prima che possano
accorgersene: finiscono col fissarsi inebetiti, aspettando che sia
l’altro a
spezzare quella magia. Scricciolo giocherella imbarazzato con un lembo
della
coperta, Celia si sfrega gli occhi assonnati.
«Solitamente
che lavori svolgi, di giorno?»
«Lavo
i cavalli e cose così. Niente di divertente»
spiega il ragazzo. Poi tossicchia per schiarirsi la voce: «Il
mago ti ha
insegnato qualcosa?» chiede. «Sei stata con lui
tutto il giorno!» Si sporge
verso Celia, una luce eccitata negli occhi.
«Cos’hai imparato?»
«Niente.
Però ho» cerca la parola esatta, «evocato
un coniglio. È stato divertente.»
Scricciolo
squittisce un euforico: «Voglio
vedere!», prima di afferrarle una mano e strattonarla.
«Ma
è quasi giorno! Tra un po’ saranno tornati
tutti nelle loro tende!»
«Non
ci giurerei. Ci stanno almeno due bis, dopo lo
spettacolo – solitamente si esibisce di nuovo tuo
papà, a volte i clown o
l’addestratore dei leoni. Ora come ora staranno ancora
ringraziando il
pubblico.»
«Non
so se posso riuscirci…» esita.
Scricciolo
è molto convincente, però, e Celia
troppo stanca per controbattere; ci vogliono pochissimi minuti
perché la
bambina, un fazzoletto tra le dita e le labbra corrucciate per lo
sforzo,
prenda posto al centro del letto e chiuda gli occhi.
La
scena che le si presenta davanti è più o meno la
stessa della mattina; animali di ogni sorta le gironzolano intorno
senza apparente
interesse, e prima che il ben noto lampo di luce le ferisca gli occhi
scorge la
sagoma di un pulcino.
«Ce
l’ho fatta» sussurra, fissando inebetita la
palla gialla tra le sue dita.
Scricciolo
si avvicina per osservare l’animale.
«Celia?» la chiama.
«Sì?»
«Secondo
me diventerai una grande maga.»
È
stata Margaret a occuparsi dei bagagli.
Fluttuando
per lo stanzino con la grazia di una
fata ha recuperato i pochi vestiti di Celia e i suoi stivaletti rossi,
quindi ha
piegato il piegabile – «È
così che si fa, bambina; io ci sono abituata
perché
il circo è itinerante.» – e sistemato
tutto in delle rozze valigie nere.
Le
stesse rozze valigie che ora sono sistemate
accanto a una carrozza e attendono di essere caricate.
Celia
alza lo sguardo verso suo padre: benché si
sia ripromessa di non piangere la cosa le risulta un po’
difficile, perché
Scricciolo le mancherà tanto e anche la vita a le
Cirque des Rêves non
era male. Ha visto delle belle cose, ascoltato musiche meravigliose e
carezzato
il muso di un cavallo. Ha conosciuto il suo papà.
Si
passa una manica del cappottino sugli occhi,
combattendo per ricacciare le lacrime.
«Andrà
bene» le comunica l’illusionista senza
particolari emozioni. «Hai dei discreti poteri, Miranda: suppongo ci impiegherai pochi anni a imparare a controllarli. E a quel punto tornerai qui, bambina – il circo ti attende, e io con lui.»
Miranda.
Non fa che chiamarla così da quando è arrivata.
Vorrebbe
chiedergli il perché – o spiegargli che si
chiama Celia, che è il nome scelto da sua madre e lo ama,
che non alzerà il
capo finché non la chiamerà per bene –,
ma si limita a sospirare pesantemente.
«La
bambina è pronta?» chiede il cocchiere della
carrozza, scendendo per caricare i bagagli.
Il
mago annuisce, benevolo, e scompiglia
piano i riccioli della bambina – ha le dita fredde,
così che Celia non può
evitare di trasalire.
«Farò del mio meglio per compiacerti» sussurra
con voce stanca. Gli occhi scuri si posano un’ultima volta
sulla figura del
padre, poi posa un piede – e subito l’altro, per
paura di cambiare idea – sul
gradino della carrozza. «Arrivederci, papà.»
La porta si chiude
dietro le sue spalle.