Anime & Manga > Il grande sogno di Maya
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Autore: _morph_    30/01/2012    5 recensioni
Le emozioni hanno il pregio di sviarci,
il pregio della scienza
è di essere priva di emozioni.
La paura di provare qualcosa spesso arriva a frantumare persino la propria pelle, fino ad essere inghiottiti di rimpianti. Ma quando tutto va fuori da ogni limite, quante possibilità di rimediare ci sono?
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Masumi Hayami, Maya Kitajima, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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L’insoddisfazione di ciò che decora i giorni che non passano mai si concentra sempre e comunque nelle ventiquattrore sbagliate. È l’opprimente sensazione di impotenza che annebbia la mente e porta alla pazzia, e le lacrime che trascinate a sgorgare dagli occhi, sabotando ogni progetto o pensiero.
Si portò le mani alla testa, intrecciando le dita ai capelli, stranita da quell’attesa. Si massaggiò le tempie con la punta dei polpastrelli, mordendosi ferocemente un labbro. Era stata colpa sua, indirettamente forse, ma avrebbe dovuto lasciarlo stare, senza cercare in tutti i modi un contatto, lasciare che le cose andassero per il loro verso. Non era giusto che ci fosse lui in quel letto d’ospedale, non se era lei la colpevole per quella tragedia.
Strinse un braccio alla pancia, il respiro sgradevolmente accelerato, troppe persone stavano accorrendo, circondandola, stupite di quella silenziosa disperazione, trapelante da ogni cellula del suo corpo. Si guardò attorno, in cerca di un’uscita, di una forma di sollievo, di spazio, aria. I suoi piedi scattarono prima che potesse anche solo pensarci, non appena avvide la porta d’emergenza, le mani a giungere alla sbarra d’apertura, il suo viso investito da una sferzata di freddo, che già frustava gli alberi esterni alla struttura, le risollevarono il morale per un solo breve istante, prima di affogare nuovamente nel limbo. Una mano a posarsi sulla sua spalla minuta, a stringerla con possessività –non ho neanche il diritto di essere qui…- mormorò, un’altra fitta ad impossessarsi del suo cuore –non sono nulla per lui… ho una bella faccia tosta per pensare il contrario- quella stessa mano seguì la linea della schiena, attirandola a sé.
-non può renderti felice… ti fa soffrire, l’ha sempre fatto, come puoi amarlo?- le parole di Sakurakoji forse erano più indirizzate a se stesso. Quella rabbia sorda, quell’incapacità che aveva avuto nel tenerla lontana da ciò che le faceva male, che l’aveva ferita, in più e più occasioni, da quel viso fintamente tenace, a nascondere sotto una maschera granitica di orgoglio, la codardia.
-lo odio… per quando tengo a lui io lo odio… perché non lascia che lo ami? Mi allontana… non, non capisco- il dolore trapelava dalla sua voce come una cascata, e questo non fece che alimentare la sua collera –perché lo fa?- domandò ancora, i singhiozzi a graffiarle la gola
La signora Tsukikage comparve alle loro spalle, accarezzando teneramente i capelli della ragazza –Maya, il medico è arrivato…- fu soltanto un sussurro, ma un sussurro che scatenò una tempesta in quella fragile corazza che si era creata. La mano si posò sul fianco, distaccandola con facilità dal possessivo abbraccio del suo amico. In tanti anni di insegnamento aveva provveduto a conoscere Maya, a comprenderla, ad apprendere la sua forza, talvolta a combatterla, ma mai si era ritrovata in una situazione come quella. La situazione in cui la ragazzina si faceva donna davanti ai suoi occhi e vedeva svanire il suo amore tra le mani, senza neanche mai averlo conquistato. Le circolò un braccio attorno alle spalle, accompagnandola nel corridoio tinto di un bianco sporco, traboccante drll’odore tipico di un ospedale come si deve; di disperazione, di fatica. L’uomo baffuto le attendeva accanto ad una delle tante porte, tutte uguali ovviamente. Le diede una leggera spinta, così da fornirle la tenacia.
La ragazza aprì gli occhi, chiusi per forza di cose, scrutò attentamente la persona che si ritrovava davanti, cercando di capire quanto utile le sarebbe potuto essere, quanta umanità potesse trovare nelle sue pupille, per stare a contatto, ogni giorno, con una realtà così opprimente.
-ha un trauma cranico facilmente curabile, entro venti giorni sarà fuori- parlò leggendo una stupida cartellina stretta tra le mani, cercando il tono formale nelle cadenze  del timbro, così che nella testa della fanciulla rimanesse impressa una descrizione del tutto disinteressata.
-solo questo?- sibilò abbassando il capo. Ci fosse voluto tutto il tempo del mondo, lo avrebbe aiutato, in ogni modo possibile. Cosa le sarebbe rimasto senza di lui? Per cosa avrebbe combattuto? Quanto avrebbe perso e quanto ottenuto? Solo questo era riuscita a chiedersi il quelle ore. Perché era giusto combattere per amore, era giusto combattere per lui. L’unico e il solo.
-una ferita sul braccio sinistro, e una sulla tempia, ma nulla di grave- annuì passandosi distrattamente una mano tra i capelli scuri –si riprenderà velocemente- la rincuorò l’uomo con intensità paterna, accarezzandole una guancia rosea. E lei? Lei si sarebbe ripresa con altrettanta velocità?
-posso vederlo?- confidò in quel sorriso che era ben stampato sul suo volto –per favore- dopo un istante di tentennamento, le fece un cenno di consenso, accompagnandola nella stanza numero 63.
Tre volte 6 fa 666. Bene. L’unico pensiero idiota e parzialmente razionale prima che l’uscio si aprisse.
Fece un passo incerto, il naso dell’uomo che amava rivolto verso il vetro della finestra. I pensieri a scorrergli distintamente nelle iridi chiare. Non si curò di nulla, lei, se non del suo corpo disteso e dei suoi meravigliosi tratti di viso. E il desiderio inatteso di sentire la sua voce le tuonò dentro. Arrossì percependo il cuore battere furiosamente, la pelle bruciare in attesa che venisse a contatto con la sua. Inconsciamente si avvicinò con passo felpato, desiderosa di sfiorarlo, quando era ancora perso in qualche altro intelletto. La mano strinse la sua, ridestandolo. Emise un sospiro di sollievo non appena le dita trovarono rifugio su quell’ampio dorso.
Si guardarono, intensamente, gratificati dalla presenza dell’altro. La voglia, sconosciuta, di ricevere un bacio la scombussolò ancora. Chinò il capo, arrossendo improvvisamente, concretizzando il suo calore diffondersi ovunque all’interno di quel minuto fisico –il dottore ha detto che non è così grave… che ti riprenderai velocemente…- la stretta aumentò, la spinse a sedersi su quel letto ricoperto da lenzuola ruvide, poco confidenziali. Il copriletto ricamato donava ancora più malinconia all’interno di quelle quattro mura. Le dita di Masumi risalirono il suo candido braccio, carezzando la clavicola, il collo, le gote innocentemente tinte.
La sospinse a sdraiarsi sul suo petto, a beneficiarsi dell’amore, finché ne avesse potuto approfittare. Restarono così per qualche minuto, forse ora, non lo sapevano. Tutto ciò di cui erano a conoscenza era dell’aria che entrava e usciva dai polmoni, e il battito cardiaco a creare frastuono nei timpani. Quella previsione di ignoto, chiuso. Come se quell’abbraccio, quel contatto, fosse l’ultimo.
E lei pianse, contro di lui, alimentando quell’odio per il suo stesso amore –è finita, non è così?- bisbigliò, impastata da quella disperazione così lacerante. La sua anima sapeva quale sarebbe stata la risposta, lo sapeva prima di entrare nella stanza, prima che avvenisse l’incidente. Perché lui non poteva continuare così, in bilico tra l’insoddisfazione di una vita non compiuta ma apparentemente perfetta e una gioia sconosciuta, così ignota da terrorizzarlo.
-non credere non provi affetto per te…- nell’udire la frase si alzò di scatto, quegli spilli che erano le sue parole, a stuzzicarle la ragione. Un ruggito di rabbia si disperse nella sua testa. Solo di questo era capace?
-tu… dio, se non fosse che proprio non ci riesco, giuro che saresti l’uomo che più detesterei al mondo! Giuro!- la collera ad animare ogni singola vocale, ogni pensiero, a lasciarlo incapace di ribattere per quella vitalità che come un uragano lo travolse –sei così incapace di amare, eh?! Perché non lo vedi?!-
-perché non posso! Perché ho una vita, avevi ragione tu, è tardi, tardi per cercare di cambiare le cose, non ci siamo solo noi!- in quei momenti quasi si biasimarono per quanto avessero bisogno che l’altro capisse.
-sì invece! La vita è la nostra!- con una mano si tené la testa, inadeguata ad esprimere tutto quel rancore per quella insulsa asserzione pronunciata, che era stata in grado di scatenare tanto –affetto, cosa vuoi che me ne faccia delle tue stupide rose scarlatte, della tua ammirazione, quando non ho te?!- gridò esasperata dai segreti, dalle bugie che avevano decorato il loro rapporto, reggendosi con una mano il petto, dove il cuore sembrava volerle uscire, e un groviglio di dolore posato come un velo a fare da barriera. Gemé per le fitte di emozione tenue a chiuderle la circolazione dell’aria –perché mi fai questo?- si passò il dorso della mano sul viso, cercando di riacquistare la dignità necessaria –sii felice, ti prego…- con passò ovattato provvede a creare un vuoto sospeso in quella stanzetta. Sospeso tra realtà e inconscio, tra motivazioni giuste e sbagliate.
La sua ragazzina lo sapeva, era a conoscenza dell’ammiratore, e lo aveva allontanato. Sia lui che la sua entità mascherata. Avrebbe mai ripreso il controllo delle cose? No, mai, si rispose accasciandosi sul cuscino.
 
Commenti dell’autore:
Mi scuso per il precedente capitolo mal riuscito, davvero. Ho dei frequenti cali di ispirazione (oppure pura incapacità, come volete). Non so a cosa attribuirla, ma non riesco più a scrivere con decenza, come vedete anche da questo capitolo. Comunque la critica devo dire mi è servita parecchio, inducendomi a riscrivere la maggior parte dei capitoli scritti, compreso questo, nonostante non riescano comunque come li programmo.
Vi voglio bene mie lettrici, e mi auguro che questo capitolo non vi abbia deluso. Non più di tanto almeno J
Morph<3
 

   
 
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