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Autore: Sylphs    19/02/2012    1 recensioni
Ehilà! Ho scritto questa favola un po' folle quando avevo 14 anni ed è in assoluto il primo romanzo che ho finito a quell'epoca, perciò ho deciso di tentare la sorte e pubblicarlo su efp, confido nella vostra pietà :) la storia si ispira alla mia fiaba preferita, "La bella e la bestia", salvo che la protagonista è un peperino ed è tutto fuorché una graziosa fanciulla. Spero che qualcuno leggerà!
Genere: Azione, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 1

 
 
 
 
 
 
Molto tempo fa, in un regno lontano lontano, chiamato Soledad, il marchese che lo governava era appena tornato a casa dopo una lunga assenza causata dai suoi infiniti affari esteri. Era dovuto andare in campagna, ad occuparsi di una faida tra due contadini, perché era sempre opportuno aiutare il popolo per averlo come alleato, ed era stato via per una settimana intera.
A bordo del suo sontuoso calesse rosso con bordature d’oro, con il frustino stretto nella mano grassoccia e i due destrieri bianchi dinnanzi, assaporò a lungo l’aria afosa di Soledad, che non cambiava mai, nemmeno in inverno. Le case, ordinate e pulite, erano attaccate l’una all’altra, coi loro balconcini fioriti, le loro porticine colorate e le tendine ricamate. I bambini giocavano per le vie terrose, i vecchi sedevano all’ombra di qualche albero, e le carrozze sfrecciavano sulla strada della cittadina. Il marchese, scrutando tutto questo coi suoi tondi occhi pallidi, si sentì rinascere. Era buffo: già anziano, aveva un ventre rubicondo, canuti capelli ricci e grigi e un faccione flaccido, che però aveva innegabilmente un’aria docile e buona. Un paio di baffoni bianchi gli adornava il labbro superiore. Indossava un panciotto ricamato che si tendeva sul pancione e calzoni di pelle.
Pregustava l’attimo in cui sarebbe entrato nella sua adorata magione, in cui i domestici gli avrebbero preparato un pasto caldo e adagiato addosso una coperta. Avrebbe anche potuto rivedere Isadora, che aveva compiuto gli anni mentre lui era via, le avrebbe dato il regalo che le aveva comprato. Sorrise tra sé e sé. Non appena entrò in Soledad, una folla di bambini e di popolani si accalcò intorno al calesse, inneggiandolo e gridandogli la gioia che tutti provavano per il suo ritorno. Il marchese si rattrappì nella sua modesta persona, infilò una mano nelle vesti, ne trasse una manciata di sonanti fiorini e la gettò in direzione della folla. Tutti si lanciarono per arraffarne quanti potevano. Il marchese fece un cerimonioso cenno di saluto e passò oltre, infilandosi nelle vie nobiliari di Soledad, dove i villini erano magnifici e barocchi, i cancelli erano preceduti da statue di marmo e la gente andava in giro in vesti ricche e pretenziose. Da quando era arrivato lì, molti anni prima, non era cambiato niente.
Il calesse giunse in vista della villa del marchese, che la fissò adorante: era un imponente palazzo di marmo bianco, con balconi floreali e statue d’erba nel vasto giardino che incorniciavano l’enorme portone in legno di ciliegio con incastonate borchie d’ottone e di bronzo.  Era lì che viveva, e da lì che sua moglie, allora una ragazza vivace e piena di voglia di vivere, era fuggita, ignorando le grida inorridite del marito e i vagiti della figlia. Il marchese si era risposato tanti anni dopo con una donna che era il contrario della prima: chiusa, ossessivamente religiosa, amante della solitudine e del raccoglimento. Lui aveva sperato e sperato che si trovasse bene con Isadora, ma la figlia aveva preso molto dalla madre e non comprendeva i limiti che Natalie, la matrigna, le imponeva. Comunque, Natalie era sempre ammalata o chiusa nella sua stanza, per cui gli abitanti della villa, compresa Isadora, la vedevano molto di rado.
Quando il calesse del marchese fu visibile, le imposte vennero spalancate da cameriere che si sporsero ad agitare i fazzoletti in segno di saluto, e il portone aperto da una folla di servitori in livrea che si accalcò ad occuparsi dei cavalli. Il marchese sorrise e si fece aiutare da due servitori a scendere, muovendosi goffamente. Il maggiordomo, nel suo impeccabile completo nero, si inchinò affettatamente e declamò: “Buongiorno, signore. Avete fatto buon viaggio?”
“Non c’è male, non c’è male” borbottò il marchese mentre entrava nel palazzo: “Mi sono un po’ stancato, ma tutto si è risolto per il meglio”.
“Quei due contadini si sono ritenuti soddisfatti?” si informò il maggiordomo mentre lo accompagnava all’interno dell’imponente magione. Il marchese sorrise con evidente sollievo e si attorcigliò uno dei baffoni da tricheco intorno al dito grassoccio: “All’inizio erano molto arrabbiati, ma alla fine, con un po’ di buonsenso, li ho fatti ragionare”.
“Come farebbe il regno senza di voi?” sospirò il maggiordomo. Le guance rubizze del marchese si arrossarono notevolmente: i complimenti lo mettevano a disagio. Fece un gesto brusco con la mano grassoccia: “Il regno ce la farebbe benissimo, senza di me. Io mi do da fare, ma non riuscirei in nulla senza l’aiuto del popolo”.
Oltrepassò il portone ed entrò nel trionfo d’oro e d’argento della magione: era tutto un tripudio di stucchi, tappeti intessuti minuziosamente, arazzi lussureggianti, lampadari incastonati di gemme, quadri rari e scalinate di marmo bianco. Apparteneva alla sua famiglia da generazioni e generazioni, e non era stato spostato o sostituito niente da secoli, neanche il più piccolo granello di polvere. Il marchese aspirò a lungo l’odore di pulito di casa e rilassò il faccione in un’espressione beata. “Che bello essere a casa” pensò avanzando in direzione della scalinata candida che conduceva ai piani superiori. Ritrovare quegli oggetti familiari era piacevole e gratificante, dopo quei giorni passati a far da paciere a due contadini inferociti per questioni di debiti non pagati.
Si tolse il cappello e lo porse, assieme al suo bastone da passeggio con una testa d’aquila in oro in cima, al maggiordomo, che solerte si affrettò a riporlo nell’atrio. Al che il marchese si sfregò le mani con aria soddisfatta: “Allora” esordì vivacemente: “Dove sono le mie due donne di casa?”
“Madame Natalie è nella sua stanza a pregare” spiegò il maggiordomo con il suo comportamento formale: “La signorina Isadora è…ehm..” d’improvviso parve a corto di parole. Arrossì violentemente, si fissò la punta delle scarpe e cincischiò in modo patetico. Il marchese si insospettì: “Cosa?”
“Ecco…la signorina al momento è occupata con…con…”
“Non avere paura, amico mio” lo rassicurò il marchese, assestandogli una goffa manata cameratesca sulla schiena ossuta: “So che dovevano venire dei promettenti giovanotti che aspiravano alla sua mano, o almeno, così mi ha scritto Natalie. Ha trovato qualcuno di speciale? Beh, è normale, a quell’età le ragazze di buona famiglia si sposano” aggiunse con un po’ d’amarezza, pensando che avrebbe preferito di gran lunga tenere Isadora sempre con sé.
Il maggiordomo arrossì ancora di più. Allorché provò a parlare, gli uscì un mezzo gracidio. Il marchese si spaventò: era successo qualcosa alla sua pupilla?! Era malata? Aveva avuto un incidente? Con una nuova veemenza, che mal si addiceva al suo temperamento mite, intimò: “Parla, in nome del cielo! Che succede?!”
“C-come vi ha scritto Madame, oggi sono venuti a farle visita dei giovanotti di Soledad. Solo che…ecco…”
“Non sono stati carini con lei?” chiese ansioso il marchese, torcendosi le mani sudate. Il maggiordomo scosse meccanicamente la testa: “Oh, no, sono stati oltremodo cortesi, però…però…”
“Però?!”
“La signorina non li ha trovati di suo gradimento” concluse infine il servitore in un balbettio. Il marchese lo fissò con le sopracciglia aggrottate per diversi istanti. Aveva il complesso di sentirsi stupido, ma non riusciva a capire dove fosse il problema. A guardare il maggiordomo, sembrava che sua figlia avesse squartato i pretendenti a sangue freddo. In quell’istante si udirono dalle cucine una serie di rumori sonori: cocci infranti, grida di uomini e tonfi sinistri, seguiti dal suono di qualcosa che si schianta contro una superficie metallica. Il marchese sobbalzò: “Che sta succedendo là?”
“La signorina non li ha trovati di suo gradimento” insisté il maggiordomo come una macchina, fissando ad occhi spalancati la direzione delle cucine. A quel punto il marchese, che ne aveva abbastanza di quel mistero, scostò col braccio il servitore e marciò a grandi passi verso le cucine. Qualunque cosa fosse, di certo non era una tragedia, insomma!
Via via che si avvicinava, i rumori terribili crescevano di volume: sembrava che nelle cucine stesse avendo luogo una vera baraonda. Il marchese si domandò con il cuore in gola cosa fosse capitato in sua assenza. Ripensò all’ultima volta che alcuni giovanotti si erano presentati per Isadora, e al ricordo di com’era andata a finire, impallidì: “Oh, no” pensò. Temeva di aver capito.
Percorse l’ultimo tratto di corridoio e giunse di fronte all’ingresso delle cucine. Non fece in tempo a farsi avanti, che un corpo venne letteralmente scagliato fuori dall’occhio del ciclone, sfondando la porta con un botto sordo e rotolando scompostamente sul pavimento. Il marchese cacciò un urlo e indietreggiò. Il malconcio e gemente giovane che era stato lanciato fuori dalle cucine atterrò proprio ai piedi del marchese e lo fissò da basso con uno sguardo carico di sconforto. Era pesto, coi vestiti a brandelli, i capelli arruffati e un occhio nero. Scoprì una bocca a cui mancavano due denti in un sorriso inebetito: “Salve, signore” balbettò. Il marchese lo fissò inorridito, poi entrò nelle cucine, lasciandolo a gemere sul pavimento.
Le cucine erano un ambiente vasto, dal cui soffitto pendevano prosciutti e salumi da cucinare. Le pareti e il pavimento erano impregnate di umido. In un angolo c’erano pentoloni, padelle e altri attrezzi da cucina. Ma era tutto nel caos: per terra giacevano cucchiai, stoviglie, piatti rotti e bicchieri infranti, che creavano una confusione indescrivibile.
Il marchese rimase a corto di parole: al centro di quel caos, ritta sopra un tavolo di legno, c’era sua figlia Isadora, che incombeva come un’affascinante minaccia sui cinque giovanotti ben vestiti che circondavano il tavolo, scomposti e ansimanti. Era una ragazza che aveva compiuto da poco i diciassette anni, per cui era nel fiore della giovinezza. Aveva guance rosse da ragazzina, labbra piene e un corpo snello e vivace. Indossava un lungo abito rosso piuttosto sfarzoso, degno della figlia d’un marchese, ma era tutto stropicciato. I lunghi capelli arruffati che le cadevano sulle spalle erano biondi come l’oro, con riflessi rossi, e i grandi occhi brillanti di divertimento azzurri come il cielo. Nonostante questi colori delicati, i tratti del viso erano decisi e marcati. Non era particolarmente bella, ma possedeva un fascino notevole.
Impugnava saldamente un massiccio badile e una pentola che faceva dondolare minacciosamente sopra le teste dei suoi pretendenti. Sorrideva, piena di divertimento e di minacce, e vederla in quel modo, a lei, quella piacente fanciulla, risultò alquanto paradossale al marchese.
Uno dei giovanotti che circondavano il tavolo sul quale era in piedi la ragazza si fece avanti coraggiosamente, visibilmente irato dall’atteggiamento di Isadora. Tese le mani per afferrarla, ma lei non si fece cogliere impreparata: balzò all’indietro, sollevò il badile fin sopra la testa e lo abbatté con tutte le forze sul pretendente. Lo prese in pieno viso e lo scagliò lontano con una risata alta e cristallina. Il giovane cozzò violentemente contro uno dei pentoloni e si accasciò inerte al suolo, la faccia appiattita dal colpo.
I quattro superstiti esitarono di fronte a quella furia. Isadora buttò indietro i lunghi capelli biondi e li incitò con voce minacciosamente dolce: “Avanti, fatevi sotto! Siete qui per me, no?”
I giovani si guardarono, poi uno di loro, un tipo nerboruto, si fece avanti borbottando: “Non accetto di farmi battere da una donna..”
Allorché balzò su Isadora, lei fu rapida a vibrare un colpo micidiale di badile, ma lui lo schivò. Sorrise beffardo: “Vediamo un po’ come te la cavi adesso…” incontrò con sfida gli occhi azzurri della ragazza, che risposero con evidente orgoglio. Isadora saltò giù dal tavolo agilmente e afferrò l’estremità di una lunga corda di canapa che terminava avvolta ad uno degli immensi prosciutti. Attese senza batter ciglio che il giovane si fosse fatto avanti, poi, quando fu ad un passo da lei, diede un colpo secco alla corda. Il prosciutto, privo di sostegno, cadde dall’alto dritto verso il pretendente, che si accorse del tutto solo troppo tardi: ebbe appena il tempo di alzare lo sguardo che il prosciutto gli era già crollato sulla testa, facendolo stramazzare inerte. Isadora sorrise compiaciuta.
Sulla soglia, il marchese assisteva alla scena a bocca spalancata. Intorno alla figlia indemoniata restavano solo tre pretendenti. A prendere il posto del precedente ne vennero due, che scelsero di collaborare in squadra: uno di loro si gettò sulle gambe di Isadora per farla cadere, mentre l’altro l’assaliva da sopra. Perfino allora, in evidente svantaggio, la marchesina non perse coraggio. Rivolgendosi apparentemente al nulla, gridò: “Armageddon, tocca a te!”
“Oh, no” pensò disperato il marchese: “Ancora quel maledetto topo!”
Ad uscire da una delle ampie maniche rosse dell’abito di Isadora fu infatti un piccolo topolino bianco, con i baffi vibranti e furbi occhietti neri che sbirciavano da dietro un paio di enormi orecchie tonde. Zampettò sulla mano di Isadora agilmente, quindi si gettò a capofitto sul viso del pretendente che veniva da sopra, atterrandogli in faccia. Quello urlò così forte da spaccare i timpani: “Un ratto! Un ratto!” in preda all’isteria, urtò il compagno che tentava di falciare Isadora e crollarono in un groviglio umano a terra. Il topolino Armageddon emerse da quel putiferio pochi secondi dopo, trionfante. Isadora gli regalò un sorriso complice, si chinò e gli offrì il braccio. Il topolino bianco le si arrampicò sul braccio e andò ad appollaiarsi sulla sua spalla destra. La ragazza si raddrizzò e puntò lo sguardo sull’ultimo superstite. Quello sbiancò e tentò goffamente di indietreggiare.
Isadora gli venne incontro e, così facendo, lo spinse sopra una sorta di trampolino creato da una lunga asse di legno solitamente utilizzata come tavolo, che poggiava su di un piano inclinato. Il pretendente ci salì sopra senza quasi rendersene conto, ma Isadora fu fulminea: utilizzando lo stesso trucco che aveva usato col giovane nerboruto, liberò un secondo prosciutto dalla corda che lo teneva appeso al soffitto e quello atterrò all’altra estremità del trampolino. Tonfandoci sopra, portò l’estremità su cui era in piedi il pretendente a sollevarsi con impeto e a scagliare in aria l’urlante fardello, che volò dritto dritto in direzione di una porticina sudicia che dava sui vicoli di Soledad.
Isadora corse rapida verso la porta, la aprì e si scostò in modo che il pretendente volante ci passasse attraverso. Uscito dalla magione, atterrò con un grido sul fango che ricopriva il sudicio vicolo su cui dava la porta delle cucine e vi giacque semicosciente. Isadora gli fece un ironico cenno di saluto con la mano ed esclamò: “A presto, amore!” poi, voltandosi e accorgendosi che gli altri pretendenti erano ancora distesi sul pavimento, sbottò: “Ancora qui, voi?”
Terrorizzati, quelli riuscirono, non si sa come, a rimettersi in piedi e corsero in preda all’isteria fuori dalle cucine, oltrepassando la ragazza cenciosi, malconci e umiliati. Lei li osservò con malcelato trionfo, quindi fece per chiudere la porta. Si rese conto all’improvviso di essere osservata da un uomo che la scrutava da dietro l’angolo di un vicolo, appoggiato ad un muro di pietra. Era vestito in modo impeccabile e doveva avere una quarantina d’anni. Era pallido, con capelli rossi e ricci e astuti occhi verdi, e aveva qualcosa di malvagio in sé, forse quella postura da vincitore, forse solo il bagliore sinistro negli occhi. Quando s’accorse che lei lo guardava, stirò le labbra in un sorriso astuto che le fece accapponare la pelle. Accigliandosi, lo guardò rabbiosa e gli sbatté la porta in faccia per sfuggire a quel sogghigno malvagio.
Solo allora vide il padre, che se ne era rimasto, esterrefatto, sulla soglia, e sorrise con genuina felicità, andandogli incontro come se nulla fosse: “Salve, papà” esordì allegramente. Anche il topino Armageddon, dall’alto della sua spalla, si raddrizzò sulle zampette posteriori quando vide il marchese. Il poveretto rimase a fissare la figlia scarmigliata e scomposta a bocca spalancata e non accennò la minima mossa neanche quando lei lo abbracciò con grande affetto: “Finalmente sei tornato! Mi sembrava di impazzire, in questa vecchia catapecchia, senza di te!”
“Isadora” balbettò il marchese, riprendendosi un poco: “Cosa…cosa hai fatto? Perché…perché li hai…” fissò il caos che regnava nelle cucine e si perse in un rauco balbettio. Isadora gettò indietro la testa e scoppiò a ridere: “Si erano fatti un po’ troppo appiccicosi e ho dovuto…come dire…scollarmeli di dosso”.
“Isa! Ti avevo già detto e ridetto che non dovevi farlo più! Il povero Michael ha riportato tre fratture, l’ultima volta, e abbiamo passato un bel po’ di guai con suo padre il duca!”
“Innanzitutto Michael povero non lo era per niente, visto che ha provato a baciarmi” replicò Isadora, piccata: “E poi proprio non ci riesco ad essere gentile con quelli là. Sono così noiosi e prevedibili!”
“Ti capisco, cara, ti capisco, ma vedi, se continui così, nessuno vorrà più sposarti, e hai l’età giusta per farlo”.
“Chi lo vuole un marito del genere? Che vadano tutti al diavolo!” sbottò la ragazza, avviandosi col padre fuori dalle cucine. Lui sorrise, intenerito, e le aggiustò una ciocca di capelli dietro l’orecchio: “Dài, uno di loro ti sarà piaciuto almeno un pochino”.
“Niente affatto!” insorse Isadora: “Non è vero, Armageddon? Non abbiamo bisogno di nessuno, noi. Gli abbiamo dato una bella lezione” porse il mignolo al topolino e lui ci batté sopra la minuscola zampetta. Il marchese corrugò la fronte con aria di disapprovazione: “Perché insisti a portarti dietro ovunque quel vecchio topo?”
“Ancora?! Sei appena tornato e già mi fai la predica? Suvvia, papà, godiamoci questa giornata assieme, non mettere il muso” cercò di rabbonirlo Isadora, appoggiandosi a lui e guardandolo a lungo e con affetto. Lui si raddolcì e la circondò con un braccio: “Vedi di fare la brava, quando ci sono io…”
“Scherzi?” fece lei, poi usò un tono cadenzato, come se stesse ripetendo una frase che era già in uso tra loro: “Io farei qualsiasi cosa per te, papà. Qualsiasi”.
Il marchese rise con leggerezza su quelle parole: “Andiamo a cena, cara. Sono certo che Natalie sarà ansiosa di parlare con noi”.
“Quella donna orribile!” borbottò accigliata Isadora. Il marchese si mortificò alquanto: “Perché dici così? Non ti ha mai fatto nulla di male, lei è solo…fatta così”.
“Nulla di male, dici? Scommetti che esattamente dieci secondi dopo che ci saremo seduti a tavola lascerà cadere la forchetta, si sporgerà verso di me e dirà” Isadora contraffece la propria voce in modo da renderla acuta e petulante: “Il tuo comportamento quotidiano è stato riprovevole, marchesina Isadora”.
“Invece io sono sicuro che lascerà correre. Anzi, magari non se n’è neanche accorta” la confortò il marchese.
 
Esattamente dieci secondi dopo che la famiglia del marchese si fu seduta a tavola, Natalie lasciò cadere la forchetta nel piatto pieno di ravanelli, si sporse verso Isadora che sedeva di fronte a lei e disse con voce acuta e petulante: “Il tuo comportamento quotidiano è stato riprovevole, marchesina Isadora”.
La ragazza alzò gli occhi al cielo. Sedevano, tutti e tre, alla lunga tavola della sala da pranzo. Essendo quello uno dei pochi luoghi in cui Natalie osava comparire, l’aveva arredato personalmente, gettando ogni stucco o decorazione che c’era in passato. Le pareti erano spoglie, il pavimento era spoglio, la tavola era spoglia e le stesse sedie su cui erano accomodati i commensali erano di legno. L’illuminazione era fioca e si limitava a due candele poste al centro della tavola. Il solo quadro che adornava le pareti rappresentava una scena religiosa, e il pasto della famiglia consisteva in una brodaglia insipida e verdognola, in ravanelli in gran quantità e in acqua di fonte.
Isadora ricordava ogni genere di ben di dio quando era stata bambina: dolci luculliani, polli dorati, patate croccanti, pasticci monumentali. Altro che quel pasto da carcerato che Natalie imponeva come regola, perché sosteneva che il cibo è un’opera di Dio e non và sprecato. In più era vegetariana e detestava che si mangiasse carne, anche durante le feste. Il marchese, dal canto suo, pavido per natura, non sapeva mai dirle no.
“Non alzare gli occhi al cielo, marchesina Isadora” la rimbeccò Natalie. Era una donna alta e scheletrica, senza età, che sembrava semplicemente nata vecchia. I capelli erano nascosti del tutto da un pezzo di stoffa nera avvolto sulla testa a mo di turbante, il corpo era compresso in un severo abito nero che le scendeva fino ai piedi. Aveva un volto pallido e giallastro, sgradevole, dominato da due piccoli occhi scuri, affilati come lame. Erano affilate soprattutto le sue dita scheletriche, che somigliavano ad uncini e tamburellavano tra loro sul tavolo. Isadora seguì spaventata il tic di quegli uncini: erano la sola cosa al mondo che le faceva paura.
“Ne parleremo tra un istante” continuò Natalie, trapassandola coi suoi occhi affilati: “Ora preghiamo!” soggiunse solennemente. Congiunse gli uncini e Isadora fu costretta a fare lo stesso. Natalie controllò che la figliastra e il marito fossero pronti, quindi fece un cenno della testa. Attaccarono tutti e tre a declamare con voce monotona: “Ti ringraziamo, Signore, per il cibo che ci offri e per la salute che ci preservi, ti preghiamo di benedire questa tavola e di donarci quanto necessario per sopravvivere. Sia gloria al tuo nome!”
“Bene. Ora possiamo incominciare” fece Natalie, impassibile. Silenziosi come tombe, i tre si chinarono sulla brodaglia che galleggiava nelle scodelle di porcellana e presero a mangiare. Natalie la mandava giù con apparente soddisfazione, il marchese fingeva di trovarla gustosissima per farle un piacere, e Isadora faceva girare il cucchiaio nel piatto senza mangiare, disgustata. Ad un certo punto la matrigna si pulì la bocca col fazzoletto e le piantò addosso di nuovo lo sguardo aguzzo: “Allora, marchesina Isadora. Puoi darmi una spiegazione sul tuo comportamento di oggi?”
“Non capisco di cosa parlate, matrigna Natalie” sbottò Isadora, lasciando andare con malagrazia il cucchiaio. Da che ricordava, Natalie non le aveva mai rivolto una sola parola di apprezzamento da quando era sciaguratamente entrata nella sua vita. Sapeva solo rimproverarla, o, se si comportava bene, le rivolgeva quel suo tipico sguardo di disprezzo e di compatimento, come se la considerasse una macchia d’unto che sporcava la perfezione del suo ritiro: “Non fare l’impudente, marchesina Isadora. Sai benissimo di cosa parlo. Del modo in cui hai trattato i simpatici giovanotti che si sono degnati di venire a farti visita. D’altronde, ognuno ha i suoi gusti” commentò sottovoce.
“Cosa vi importa di come tratto le mie conoscenze?” obiettò Isadora. Il marchese suggeva nervosamente il brodo dal suo piatto. Sapeva che impicciarsi e difendere la figlia sarebbe stato inutile. Natalie continuava a fissarla come se volesse liquefarla con lo sguardo: “Mi importa, perché tu sei la mia figliastra, e facciamo parte della stessa famiglia. Le figlie delle mie amiche sono tutte sposate da quando avevano quindici anni. In molti qui a Soledad si chiedono perché tu non hai ancora trovato marito”.
“Semplice: perché in giro ci sono solo babbei”.
“Non esprimerti in questo modo! Con la reputazione che ti sei creata, sarebbe un miracolo che un vero babbeo ti prendesse. Non sei brutta. Avrei sperato di poterti combinare un matrimonio al di là delle tue aspettative, magari col figlio del Re…”
“Sì, magari” commentò sarcastica Isadora: “E vissero felici e contenti! Il mese scorso c’è stato un ballo al palazzo del Re, fuori da Soledad, e hanno invitato tutte le ragazze di qui…tranne me. Il Principe si è innamorato di un’oca che è stata così idiota da perdere una scarpetta mentre tornava a casa. Ma dico, come si fa a perdere una scarpetta?! Posso capire un fermaglio, un gioiello, perfino l’ombrello…ma la scarpa! Si sposeranno in Estate”.
“Ecco, hai visto?” fece Natalie, infastidita del fatto che la figliastra fosse a conoscenza di pettegolezzi che lei non era venuta a sapere: “Se non ti fossi comportata così male in questi mesi, il Principe ti avrebbe invitata, e magari avrebbe scelto te, anziché la ragazza della scarpetta! Che, tanto per saperlo, quanti anni ha?”
“Sedici” confessò di malavoglia Isadora. Errore imperdonabile. Il viso di Natalie divenne ancora più severo: “Sedici, marchesina Isadora. Sedici. Una popolana qualsiasi impiega solo sedici anni ad accalappiare il maschio più ambito di tutti e sette i regni, e tu in diciassette hai collezionato soltanto fiaschi”.
“Via, Natalie, non essere così dura con la ragazza” si fece timidamente avanti il marchese: “Lei è fatta così, non possiamo fargliene una colpa…”
“Un brutto carattere si può piegare” lo mise a tacere Natalie: “Fossero questi gli ostacoli! Cosa dovrebbero dire le povere Anastasia e Genoveffa? La loro madre, una mia carissima amica, mi ha detto che sono tornate in lacrime dal ballo, coi piedi gonfi e l’emicrania. Loro sì che devono fare i conti con un aspetto esteriore tutt’altro che gratificante: mentre tu, marchesina Isadora, non riesci nemmeno a controllare i tuoi atteggiamenti”.
“Però Anastasia e Genoveffa al ballo sono state almeno invitate” sibilò Isadora tra i denti, fissando la propria zuppa. Quanto odiava quella donna! Riusciva sempre a farla sentire una nullità, uno scarto della natura, una…macchia d’unto, appunto. Il marchese la guardava comprensivo, ma taceva. Natalie fece per affondare ulteriormente il dito nella piaga, ma all’improvviso Armageddon, attratto dal profumo del pane, fece capolino dalla manica di Isadora. Terrorizzata, la ragazza fece per fargli barriera con le mani, ma era troppo tardi: scorgendolo, Natalie cacciò uno strillo, ruotò su se stessa e urlò: “Ancora quell’odioso ratto!!!”
Ignaro dell’aria che tirava, Armageddon saltò sul tavolo e zampettò verso il cesto del pane. Isadora protese le mani per riporlo nuovamente nella manica: “Armageddon, no!”
Ma Natalie fu più veloce. Afferrò il cucchiaio, prese bene la mira e lo abbatté sul povero Armageddon, strillando: “Che orrore! Perfino a tavola!”
Il cucchiaio colpì in pieno il povero topolino, che con uno squittio di dolore venne scagliato contro la parete di fronte. Scivolò inerte al suolo, mezzo morto di spavento. Isadora sgranò gli occhi e scattò in piedi con tanta foga da rovesciare la sedia: “Armageddon!” esclamò allarmata. Corse verso il corpicino riverso a terra e si chinò angosciosamente su di lui: “Tutto bene?” lo raccolse con infinita delicatezza nelle mani a coppa e lo sollevò: “Armageddon…”
D’improvviso il topolino drizzò la testa e le indirizzò un’occhiata abbattuta. Isadora soffocò a stento una crisi di commozione: “Oh, sei vivo! Che spavento che mi hai fatto prendere!” se lo avvicinò al viso e gli posò un minuscolo bacio sulla testina pelosa. Natalie rabbrividì di disgusto, ma il marchese si sentì sciogliere di fronte alla tenerezza di quella scena. Isadora si girò verso la matrigna e la fulminò con un’occhiataccia: “Potevate ucciderlo!”
“Speravo fosse così” replicò Natalie imperturbabile: “Come ti permetti di portarti dietro quel ratto perfino a tavola?”
“Armageddon non è un ratto” disse Isadora, cullandolo tra le mani: “È un topo di campagna!”
“Qualunque cosa sia quel piccolo mostro, devi smetterla di scarrozzartelo dietro ovunque. Innanzitutto è antigienico, e poi non è un animale appropriato per una ragazza. Quante volte devo ripetertelo? Niente cani e topi, solo gatti di razza!”
“Chi lo vuole un gatto tutto infiocchettato e profumato come se fosse un essere umano? Armageddon almeno è un animale vero, ed è mio amico”.
“È proprio quello la causa della tua cattiva reputazione” Natalie non le lasciava tregua: “Ti isola dal mondo intero e ti impedisce di frequentare ragazze simpatiche come Anastasia e Genoveffa. È pure vecchio e moribondo, quel topaccio. Sai cosa dovresti fare? Dallo al giardiniere, ci penserà lui ad affogarlo in una tinozza”.
“Come potete dire una cosa simile?” strepitò inorridita Isadora, stringendosi Armageddon al petto: “Lui è mio amico da quando avevo un anno. Me l’ha regalato mia madre!”
Altro errore madornale. Nel sentire le ultime due parole, le sopracciglia affilate di Natalie si aggrottarono in modo minaccioso: “Tua madre” pronunciò il nome come se si trattasse di una pustola nauseabonda: “Quella donnetta da quattro soldi che ha abbandonato a se stesso il tuo povero padre. Il fatto che te l’abbia regalato lei è un motivo in più per affogarlo”.
“Ora basta!” insorse all’improvviso il marchese. Tuttavia, aveva parlato in tono quasi implorante: “Sono appena tornato, potremmo tentare di andare d’accordo almeno un po’? Parliamone domani, vi và?”
Scoccandosi un’occhiata in cagnesco, Natalie ed Isadora sedettero ognuna al suo posto. Terrorizzato, Armageddon tornò a rifugiarsi nella manica della padroncina. La ragazza piluccò il brodo freddo con aria svogliata e borbottò: “Vorrei andarmene di qui…”
“Brava. Trova marito e sarai accontentata” sibilò Natalie tra sé. Il marchese, però, la guardò con dispiacere: “Pensavo che Soledad ti piacesse”.
“Mi piace” mormorò Isadora, accasciandosi sulla sedia: “È che è sempre uguale. Da quando sono arrivata qui non è mai cambiato niente. Sempre la stessa gente, sempre la stessa routine, le stesse cose da fare…alla fine ci si annoia. Tu no, papà, perché parti spesso. Io vorrei…” sorrise e scosse la testa. Il marchese però insistette: “Cosa? Vorresti cosa?”
“Sembra stupido, ma…vorrei vivere avventure. Vorrei girare il mondo e conoscere gente interessante, come ladri, tiratori di frecce, cercatori di perle, draghi sputafuoco…”
“La feccia della terra” commentò Natalie a bassa voce. Isadora la ignorò e andò avanti con un sorriso sognante dipinto sulle labbra, che le addolciva il viso: “Oppure vorrei trovare un qualche posto in cui trascorrere il resto della mia vita…ogni volta in un modo diverso”.
“Attenta a ciò che chiedi” disse Natalie. Stranamente, stavolta non c’era acidità in lei, e parlava come chi sa fin troppo bene: “Perché potresti ottenerlo, e solo quando avrai perso tutto ciò che hai ti renderai conto di quanto ti manca”.
“Non è che abbia tanto da perdere” questo Isadora si accontentò di pensarlo, perché non voleva dare un dispiacere a suo padre. Il marchese, impacciato, emise un colpo di tosse: “Beh, ragazze, che ne dite di finire il brodo? Si fredderà tutto!” sorseggiò l’orrenda minestra gelida e si produsse in un sorriso disperato: “Ottima!” gracidò.
Con un sospiro, ognuno tornò alla propria scodella. Isadora sussurrò alla testolina bianca di Armageddon che faceva capolino dalla manica: “Loro non possono capirmi, Armageddon…ma tu sì, vero?” gli sorrise, e dovette ammettere che era un vero peccato che lui non sapesse parlare.      
 
Il cantastorie tacque e si accomodò meglio sulla panchina per guardare i piccoli ascoltatori da sotto l’ombra del cappuccio. Nonostante l’iniziale scetticismo, erano rimasti tutti rapiti dalla narrazione, e non si erano persi una sola parola, perfino Tom, che tuttavia si ostinava a fare il sostenuto. La bambina bionda, Annie, disse in un soffio: “Povero topolino bianco…che crudele, quella Natalie!”
“Oh, no, Natalie non era crudele” replicò il cantastorie con la sua voce enigmatica: “Lei era solo…fatta così”.    
“Ma quindi Isadora non sposerà mai il Principe?” domandò Julie, l’amica di Annie. Il cantastorie scoppiò a ridere: “Oh, no, non sarebbero stati felici insieme. Il Principe sposerà Cenerentola, ma poi la tradirà per Biancaneve”.
“Questa non la sapevo” commentò Julie. Josh, che assieme a Tom era il più scettico, parlò con voce aspra: “Ancora non capisco cosa c’entra la moglie dell’orco in tutta la faccenda”.
“Tra poco lo saprai. Pazienta ancora un po’, in fondo siamo ancora all’inizio” ribatté pacato il cantastorie. Passò ad osservare Tom, che se ne restava in disparte a braccia conserte: “E tu cosa ne pensi, Tom?”
“Penso che la state facendo un po’ troppo lunga” sibilò il ragazzino. Non voleva ammettere che la storia l’aveva interessato, e che voleva conoscere il seguito. Il cantastorie, a sorpresa, annuì: “Hai ragione. Dobbiamo continuare. Pronti ad ascoltare ancora?”
“Sì” esclamarono in coro i ragazzini. Intanto era calata la sera, sulla piazza del paese. Il cantastorie si schiarì la voce e continuò: “Alcuni giorni dopo quanto ho appena raccontato…”

 
  
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