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Autore: __Aivlis    06/03/2012    2 recensioni
Brian Haner non ha mai avuto grosse ambizioni, gli è sempre bastata una chitarra e i suoi amici per arrivare in alto. Ma anche uno come lui - a tratti introverso e riservato, a tratti l'opposto di se stesso - nasconde una storia colma di malinconia e sentimenti.
In cerca di un'identità dopo la scomparsa del suo migliore amico, trova rifugio nelle braccia di una donna, Casey, anche se la sua pelle liscia contro la propria non è mai riuscita a consolarlo del tutto. Ma l'inizio di una nuova era, la pubblicazione dell'ultimo Cd e un nuovo tour europeo da affrontare, lo ricondurranno proprio alle sue origini per cercare di capire chi è davvero Brian Haner e come tutto questo era iniziato.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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© Amor Vincit Omnia, 06/03/2012

Avvertimenti: Capitolo corto, ma ormai credo abbiate capito che continuerà così fino alla fine. Scusate per l'immenso ritardo, spero ne sia valsa la pena.

**

Era strano, era come volare con una sola ala; come avere i denti ma non il pane. C'era quest'uomo dai capelli lunghissimi e la barba folta, con gli occhi di uno che la sa molto più lunga di tutti loro messi assieme. Mike montava la batteria con velocità e noncuranza. Quasi ce la gettava, al centro del palco; come se non sapesse che quella era la batteria di Jimmy. Sembrava non lo vedesse, quel deathbat bianco stampato sulla grancassa. E Brian lo guardava di traverso mentre cercava di strecciare i cavi degli amplificatori, senza riuscirci. Avrebbe voluto dirgli di fare piano, che non c'era fretta; di rallentare, che il concerto iniziava fra sei ore. Poi Zacky si alzò in piedi di scatto, dopo aver appoggiato la sua chitarra sul palco, e si irrigidì subito quando Mike appoggiò un tamburo a terra provocando un tonfo sonoro.

« Porca troia Mike, fai piano! » disse Zacky, con quel suo tono aggressivo. L'arroganza era iniziata quando avevano iniziato a prendere confidenza, quando Zacky aveva capito – o forse ne aveva solo avuto paura – che Mike poteva essere quello giusto, l'unico che a Jimmy poteva tenergli testa e superarlo, almeno a livello musicale. Nonostante questo, non c'erano scusanti; era così che funzionava: Mike c'era e se c'era si doveva stare zitti e assecondarlo sempre. Era «una mano dal cielo», «la loro salvezza», ed era «grazie a lui» che potevano andare in tour. Senz'altro era « la loro più grande fortuna », ma lo era anche quando volevi spaccargli la faccia, e ciò accadeva spesso. Ovviamente, senza di lui gli Avenged Sevenfold sarebbero finiti lì. I media sono brutali in questi casi, e loro lo sapevano. Ci voleva uno con la sua notorietà per permettergli di continuare, e così era stato fatto.
« Guarda che è una batteria, non una scultura di cristallo, non si rompe con una bottarella » rispose lui.
E a quel punto Brian fece per alzarsi. Lo avrebbe massacrato se Matt non gli si fosse parato davanti e non lo avesse preso per un braccio.
« Brian, non fare il bambino, controllati » gli disse tra i denti stretti.
Lui lo aveva guardato, aveva visto dentro a quell'espressione seria e composta, e allora aveva capito che in realtà se Matt avesse potuto gli avrebbe sfondato il culo. E se resisteva Matt poteva farlo anche lui.
Nel frattempo Zacky aveva abbassato lo sguardo sulla sua chitarra, poi si era alzato e aveva camminato con passo pesante sotto gli occhi di tutti. Quando gli passò vicino, Brian vide che stava piangendo.
Quella mattina l'aria pesante l'avevano portata da casa, ci si erano svegliati la mattina. Tornare a fare concerti, così, come se niente fosse successo, era uno di quelle cose che avrebbe avuto il potere di ucciderli tutti. Di solito non reagivano così alle provocazioni di Mike, ma quel giorno erano diversi. Forse la parte peggiore era vedersi sconfitti. Perché avevano giocato a fare i giganti quando in realtà erano sempre stati deboli. Tutti, nessuno escluso.
Zacky si chiuse nel camerino senza sbattere la porta.

Il tempo passò in fretta, e il concerto si avvicinò senza che loro se ne rendessero conto. Emily non c'era stata per tutto il giorno; era stata via, in giro per la città, e Brian se l'era figurata appostata da qualche parte a fotografare quei dettagli che lui non era mai riuscito a vedere.
La passione di Emily per la fotografia c'era sempre stata, che lui ricordasse. Suo padre era a sua vota fotografo, così come suo nonno, quindi supponeva fosse nei suoi geni. Ricordava quando all'età di tredici anni si era presentata con una di quelle vecchie macchine fotografiche che a quel tempo sembravano la luna. Le era sembrata strana; era il primo ricordo che gli era rimasto dentro, perché per la prima volta, quella ragazza dagli occhi chiarissimi aveva dimostrato il carattere che avrebbe poi dominato tutte e sue azioni future: la passione. Era la Emily che Brian aveva poi imparato a conoscere, quella con la macchinetta sempre al collo e gli occhi sempre accesi.
Emily aveva ripreso a girovagare come un ossesso per tutto il palco da appena due minuti, e le erano bastati per stravolgere l'illuminazione del suddetto palco. Voleva che le luci fossero perfette, Brian lo sapeva. In un lasso di tempo ormai finito sarebbe andato da lei, l'avrebbe fermata, le avrebbe detto che correre così da tutte le parti non le faceva bene, l'avrebbe in qualche modo costretta e sedersi e ci avrebbe parlato, così, semplicemente. Lei era quella agitata, lui quello calmo; lei era la caffeina, lui la camomilla. L'ordine delle cose per come tutti le avevano sempre conosciute sconvolto in meno di un giorno. Un castello di carte da gioco, di quelli che ci metti una vita a costruirli, crollato con un soffio di vento. Lei era sempre stata attenta ai dettagli. I suoi occhi analizzavano sempre tutto con attenzione maniacale. Lui di attenzione doveva averne inclusa poca, eppure ci vuole una forza d'animo notevole per portarsi via qualcosa di tale grandezza, ne era certo.
Passarono poche mezzore prima dell'inizio dello show, ed ora si trovavano tutti dietro le quinte con i cuori in mano e il groppo in gola.
« Qualsiasi cosa succeda, noi staremo sempre in piedi, questo dovete ricordarvelo » disse Matt.
« Andiamo, ragazzi » disse Johnny prima di dare agli altri una pacca sulla spalla e farsi spazio verso il palco.
Quando Brian salì, gli si chiuse definitivamente lo stomaco. Le luci gli accecavano gli occhi, e per questo fu costretto a coprirsi con una mano. Poi prese il suo posto e diede un'occhiata agli altri. Ognuno era nel suo mondo, nessuno era lì veramente. Guardò la folla: qualcuno stava già piangendo. Non gli era mai successo di sentirsi così fuori luogo e spaesato quando si trovava sopra ad un palco. Allora imbracciò la chitarra, ma non servì a niente.
Cercò attorno a sé qualcosa che non c'era, qualcosa di familiare che non avrebbe trovato negli altri, perché nessuno di loro era più se stesso, sopra a quel palco.
Abbassò lo sguardo verso le transenne, e i fotografi avevano già iniziato a fare il loro lavoro.
Ad un tratto ebbe un sussulto, perché tra un volto e l'altro c'erano gli occhi di Jimmy, fissi, che lo osservavano. Quando tornò a guardare in quello stesso punto, capì tutto, di nuovo. Capì perché aveva lasciato Emily, perché non riusciva più a guardarla negli occhi. E allora lei lo osservò, e per la prima volta dopo quasi un anno, lui fece lo stesso. E quegli occhi lo colpirono come un lama affilata a fior di pelle.

Quando iniziarono a suonare, inutile dire che non era lo stesso. Tra una canzone e l'altra, Matt diceva frasi in cui nessuno di loro credeva davvero, e Brian si mise a piangere solo dopo – non come Johnny, che aveva iniziato già da subito. In realtà Brian iniziò a farlo alla fine, quando la voce di Matt si spezzò e cedette nel primo di una lunga serie di singhiozzi.
Il punto è che il passato è innocuo finché non ci rifletti sopra, ma è inevitabile farlo, rifletterci, perché l'uomo è nato per riflettere, pensare. E' questo che ci fa apparire diversi dagli animali. Noi pensiamo, rimuginiamo, soffriamo... e non possiamo farci niente.
Erano dei relitti, nonostante tutto.
Ma erano anche uniti, nonostante tutto.
Emily non pianse, anche se fu sull'orlo di farlo diverse volte. La vedevi che le tremava il mento e tirava su col naso, ma non cedeva, non lo faceva mai. Continuava ad inquadrare oggetti nell'obbiettivo e a scattare, illudendosi che la sua arte andasse oltre al dolore, non rendendosi conto che la sua arte ora era il dolore stesso.
In ventiquattro anni, Brian l'aveva vista piangere poche volte, ed ogni volta era stato come se avesse dovuto farlo per compensare a tutte le volte che si era trattenuta fino a farsi male. E lui, mentre se la teneva stretta, non capiva la sua tenacia.
In ventiquattro anni, Brian non aveva capito troppe cose di lei.

Alla fine del concerto Brian non si curò nemmeno di salutare il pubblico. Aveva rabbia, dolore e tristezza nel corpo in eguale misura. E allora si sbatté la porta del camerino alle spalle. Si mise seduto sul piccolo divano con la testa tra le mani, e a quel punto di bagnare il pavimento di lacrime non glie ne fregava niente.
Dopo poco, qualcuno bussò alla porta, lui alzo lo sguardo: sapeva che tutti si dovevano essere mobilitati per salvarlo. Funzionava così: se uno affondava, gli altri lo tiravano su. Dal canto suo, Brian era sempre stato più propenso all'aiutare gli altri che all'essere aiutato.
Il bene che voleva agli altri, quello non c'entrava. Si trattava di orgoglio, aveva pensato molte volte, o forse solo di paura. Pensava che quando ti apri con qualcuno sei a nervi scoperti, che se gli gira male ti mettono al tappeto in meno di un secondo. Per questo non rispose, nemmeno in quel momento.
Bussarono di nuovo, e alla fine cedette e si alzò dal divano.
« Chi è? » chiese, prima di aprire.
Dall'altra parte della lastra di compensato nessuno rispose, ma bussò di nuovo.
Brian fece qualche passo e aprì la porta di scatto, pronto a sfogare la sua rabbia sul malcapitato. Quando la porta fu aperta, le parole gli morirono in gola, e invece di fissare quegli occhi, si concentrò sulla sua bocca, sulla curva del collo, sulle spalle... Emily ci mise un po' per iniziare a parlare.
« Volevo sapere come stavi, ti ho visto andare via in quel modo... pensavo volessi parlare con qualcuno » disse infine.
In realtà no, Emily sapeva benissimo come la pensasse lui a riguardo. Nonostante questo, era sempre stata restia a lasciarlo solo quando non se la sentiva di parlare. Forse era per quello che si era presentata con quella bugia in bocca - “pensavo volessi parlare con qualcuno” -, perché lo conosceva meglio degli altri e andava oltre il suo volere. Ma questo lo pensò Brian, sperando con tutto se stesso che fosse vero. Illudendosi che ci fosse ancora qualcuno che lo sapesse a memoria, che sapesse leggerlo e interpretarlo per quello che era.
« Ti sbagliavi » disse lui, chiudendole la porta in faccia. Emily ci mise un piede in mezzo e la porta si bloccò prima di poter sbattere sullo stipite.
« Non ho finito » disse lei.
« Che c'è? »
« Voglio parlare »
Brian aprì di nuovo la porta ruotando gli occhi verso il soffitto e si voltò verso il divano; la lasciò entrare.
Non avrebbe ceduto, la conosceva.
La conosceva, forse era quello il vero problema.
Loro erano due che si erano cresciuti a vicenda, avevano ognuno un pezzo dell'altro, dentro, nonostante l'amore non ci fosse più.
Si rimise seduto dov'era prima mentre lei si chiudeva la porta alle spalle. La vide camminargli di fronte e appoggiare il sedere sull'angolo del tavolo davanti a lui.
« Come stai? » gli chiese, con quel suo tono da mamma protettiva, ma soffice e lento.
L'altro la guardò, chiedendo con gli occhi se per qualche strana ragione lo stesse prendendo per il culo.
« Guarda che siamo sulla stessa barca, non ci resta che collaborare » spiegò lei.
« E se io con te non ci volessi collaborare? »
Lei sospirò: « Vedi come sei? Sempre sulla difensiva, come se il mondo intero stesse complottando contro di te. Te la prendi con le persone anche se non ti hanno fatto niente, ormai ti conosco, so come fai tu, ma in questo momento non puoi farlo Brian, lo sai. Stiamo tutti male, non sei l'unico, non puoi trattare gli altri come cazzo ti pare, mi sembra ovvio »
Colpito e affondato.
« E' qui che ti sbagli: tu non mi conosci » rispose alzando un po' il tono di voce.
Emily chiuse gli occhi come faceva sempre per cercare di attutire i rumori.
« Quello che volevo dire... » e riaprì gli occhi, ora leggermente lucidi « è che mi dispiace vederti così e non poter fare niente »
Quella frase lo colpì come tutte le precedenti, ma in un punto diverso. Quella frase gli fece male di un dolore estremamente diverso, gli colpì lo sterno e gli entrò dentro, e quello che fece male davvero non furono le parole, ma i sentimenti che rievocarono.
La guardò di nuovo, e stette in silenzio prima di continuare.
« Non è come quando avevamo sedici anni, Emily, dobbiamo crescere »
Entrambi si guardarono negli occhi per una frazione di secondo, poi lei uscì dalla piccola stanza senza aggiungere altro. Probabilmente ferita, o solo sul punto di piangere.
Molte volte Brian si era chiesto con chi piangesse ora che lui non c'era. Sapeva che era sempre stato l'unico con cui riusciva a farlo, glie lo aveva detto lei molte volte. Decise di non pensarci e rimase solo coi suoi dubbi e le sue frustrazioni. Poi, nel silenzio più totale, era scoppiato a piangere.

**

Note: Ancora una volta scusate per l'immenso ritardo ma ho dovuto mettere in paro alcune cose a scuola. Ho sistemato questo capitolo negli ultimi giorni nonostante fosse finito ormai da un po' di tempo.
Come sempre, fatemi sapere cosa ne pensate lasciando una recensione. Nel frattempo vi prometto che i prossimi aggiornamenti saranno più regolari, giuro! ^^


   
 
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