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Autore: RobTwili    07/03/2012    22 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
«Io… ehm… io ho lasciato la cartina sul… sul vostro divano». Indicai un punto dietro di lui, evitando di guardarlo in faccia. Sapevo cosa avrei trovato: un ghigno impertinente pronto a farmi arrabbiare, ma non avevo voglia di discutere di nuovo con lui dopo quello che gli avevo urlato scendendo dalle scale.
«Cartina?» domandò, dandomi le spalle per avvicinarsi al suo divano. Riuscii a vedere un sorriso sul suo volto mentre si abbassava e prendeva tra le mani la mia cartina di New York. «Tu cammini per New York con questa?» sogghignò, avvicinandosi lentamente alla porta, con la cartina in mano.
«» ribattei, irritata dal suo alternare lo sguardo dal pezzo di carta a me, «e ora, potresti restituirmela?». Cercai di dimostrarmi gentile, aggiungendoci anche un sorriso per sembrare più amichevole. Era pur sempre Ryan, uno degli Hard-cores degli Eagles, e aveva sottolineato che non era poi così strano per lui uccidere.
«Darti la cartina» sospirò, schioccando la lingua, «non saprei, sai? Ti sei comportata male, hai detto delle brutte parole… non so se sono così buono da perdonarti così facilmente. Forse, con una parolina magica…». Si portò l’indice al mento, fingendosi pensieroso.
Io, io dovevo dirgli per favore? Perché mai? Era lui quello pazzo, che sembrava seguirmi a ogni passo che facevo e che non mi permetteva nemmeno di riprendermi le mie cose.
«Ryan, dammi la cartina, subito» sbottai, incrociando le braccia sotto al seno e picchiettando il piede per terra, impaziente.
«No lentiggini, non funziona così. Non sei il capo, su. Sai cosa?» chiese, improvvisamente di buonumore. «Facciamo una scommessa, ti va?» mi punzecchiò, dandomi dei leggeri colpetti sulla spalla con la sua mano. «Io tengo semplicemente la cartina in mano, se tu riesci a prenderla puoi andare dove vuoi. In caso contrario, la terrò io»
concluse, un ghigno sulle labbra ancora gonfie dal taglio di qualche giorno prima. Sembrava serio, non mi stava prendendo in giro, per lui era semplicemente una scommessa.
«Va bene» acconsentii, sicura che avrei vinto. Ero più piccola di lui, ma probabilmente molto più agile e sarei riuscita a distrarlo per poter raggiungere il mio scopo: prendere quello che era mio.
Ryan però non era stupido come credevo, infatti, con un ghigno, sollevò il braccio in alto tenendo la cartina sollevata: era impossibile riuscire a prenderla, per me.
«Vai lentiggini, stupiscimi» mi provocò, agitando il braccio.
«Dammi quella stupida cartina o ti tiro un pugno» lo minacciai, alzandomi in punta di piedi per cercare di raggiungere il suo braccio: inutile, visto che non riuscivo nemmeno ad arrivare al suo gomito sollevato in aria. Cominciai anche a saltellare, cercando di darmi più spinta per arrivare più in alto.
«Non ti sento lentiggini, devi urlare più forte, da quassù non sento nulla». Si indicò l’orecchio, per farmi capire che ero molto più piccola di lui. Come se quella presa in giro non fosse stata sufficiente, cominciò a ridere, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Vaffanculo. Dammi la mia cartina» strillai, saltando un po’ più in alto tanto che mi aggrappai al suo braccio, rimanendo sospesa in aria per qualche secondo. Ryan non sembrò notare quel gesto, perché non si scompose nemmeno, impegnato com’era a ridere di me e dei miei goffi gesti.
«Muffa e mulo? Cosa? Non sento». Si stava davvero divertendo molto ad agitare quel pezzo di carta colorato in aria e a fingere di non capire quello che gli dicevo.

«Bene» sbottai, indietreggiando di un passo e preparandomi all’attacco definitivo: gli avrei tirato un pugno sullo stomaco e poi mi sarei presa quello che mi spettava. Sollevai la manica destra della maglia per avere più libertà di movimento e, dopo aver chiuso la mano a pugno, caricai il braccio, chiudendo gli occhi.
Non avevo mai tirato un pugno, ma avevo visto gli effetti sulla mano di alcuni pazienti e sapevo che faceva male.
La mia mano andò a scontrarsi con qualcosa di grande e caldo, ma non mi ferii come avevo pensato.
Aprii gli occhi per controllare, rimanendo sorpresa di vedere la mano di Ryan attorno alla mia; in verità, riuscivo a vedere solo la sua, visto che le sue dita coprivano la mia mano fino al polso, circondandolo.
«Impara a tirare i pugni, prima di fare tanto la dura, lentiggini. Il pollice va fuori dalle altre dita, altrimenti con il colpo e la pressione rischi di romperlo» cominciò a dire, appoggiando la mia mano sul palmo della sua e aprendo gentilmente le mie dita: spostò il pollice per poi portare di nuovo le mie dita nella posizione iniziale, piegando infine il primo dito. «Il pollice deve rimanere fuori dalle altre dita, o con il contraccolpo si rompe» spiegò di nuovo, lasciando poi la mia mano e restituendomi la cartina.
«Che succede?» domandò Dollar, materializzandosi di fianco a noi all’improvviso, tanto da spaventarmi e farmi sussultare.
«Insegnatele come si tira un cazzo di pugno, prima che si rompa una mano fingendo di sapere come si gioca a boxe» sbottò Ryan, allontanandosi da me per andare a sedersi sul divano e appoggiare il capo sullo schienale, chiudendo gli occhi.
«Che c’è, Doc? Non sai nemmeno tirare un pugno?» mi provocò Dollar, ammiccando.
«Non ne ho mai tirato uno, e non mi serve sapere come si fa, grazie per l’interessamento» bofonchiai, stringendo la cartina tra le mani e dandogli le spalle.
Volevo trovarmi un lavoro, non mi servivano di certo loro per riuscirci e non mi serviva nemmeno sapere come si doveva tirare un pugno.
«Dove stai andando, Doc?». Di nuovo la voce divertita di Dollar; ero sicura che stesse sorridendo, nonostante non potessi vederlo per accertarmene.
«A trovarmi un lavoro» strillai, dal pianerottolo. Speravo che non mi seguissero: volevo andarci da sola, guardarmi attorno e scoprire il sobborgo di New York. Volevo capire cosa mi circondava, come era realmente il Bronx.
Mi fermai davanti al portone dello stabile, guardando prima a destra e poi a sinistra, soffermandomi sul cancello mezzo sgangherato che c’era dall’altra parte della strada. Stavo cercando di ricordare qualche particolare che mi potesse aiutare perché volevo arrivare alla fermata della metropolitana per poi andare a New York.
Girai la cartina tra le mani cercando di orientarmi quando, all’incrocio dopo quello di Whittier Street con Randall Ave, notai una piccola insegna che attirò la mia attenzione; era l’insegna di un grill, il MoGridder’s BBQ. Magari avevano bisogno di qualche cameriera, provare non costava nulla.
Cominciai a camminare seguendo le indicazioni della cartina, attraversando l’incrocio e guardandomi attorno in cerca di uno stabile con il nome che avevo letto. Non volevo chiedere informazioni visto quello che era successo la prima volta che le avevo chieste, così continuai a camminare, fino a quando, sul ciglio della strada, notai un furgoncino rosso; sopra una finestra, a lato del furgone, c’era una scritta gialla: MoGridder BBQ.
Cominciai a ridere, attirando l’attenzione di qualche passante che mi lanciò un’occhiataccia preoccupata, e mi avvicinai per controllare.
Il MoGridder non era un ristorante, semplicemente un furgoncino che vendeva Hot Dog e altre schifezze fritte. Non c’era nessuna cameriera o qualcuno che aiutasse il proprietario; solo lui che, con un sorriso e gli abiti impregnati di grasso, faticava per soddisfare tutti i clienti.
Non volevo e non potevo arrendermi: il lavoro mi serviva per vivere e per l’affitto, così cercai meglio sulla cartina e notai l’insegna di un altro ristorante; dovevo solo attraversare Longfellow Ave e poi riattraversare Randall Ave. Il ristorante si chiamava appunto Randall e, secondo la cartina era solamente a poco più di un isolato dopo l’incrocio della mia via; non era nemmeno molto distante e sarebbe stato facile arrivarci anche a piedi.
Arrivata davanti al ristorante rimasi per qualche minuto a guardare la piccola vetrata; i ristoranti a Los Angeles erano diversi e molto più lussuosi. Il Randall aveva una piccola tenda verde con una scritta a caratteri grandi rossi e bianchi: Randall Restaurant.
Nonostante non fosse nemmeno mezzogiorno, i piccoli tavolini all’interno del ristorante erano quasi tutti occupati e c’era una ragazza con i capelli rossi che, sorridente, correva da una parte all’altra, scherzando con i clienti; sembrava conoscerli, visto che li abbracciava e continuava a versare caffè nelle loro tazze.
«Provaci, Lexi» bofonchiai tra me e me, camminando decisa verso la porta di vetro.
Quando entrai sentii il suono di un campanello che avvisava l’arrivo di un nuovo cliente;  quel suono attirò l’attenzione dei presenti e della ragazza con i capelli rossi che si avvicinò a me, sorridendomi.
«Ciao, accomodati pure dove vuoi». Indicò il locale attorno a noi, guardando i tavoli liberi in fondo. «Sei da sola o aspetti qualcuno?» domandò, tornato poi a posare lo sguardo su di me.
Per qualche istante si soffermò a guardare il mio labbro, leggermente gonfio a causa del benvenuto che i Misfitous mi avevano dato, poi, però, tornò a guardarmi, cercando di mascherare la curiosità.
«Io… io veramente stavo cercando un lavoro» spiegai, sperando che potesse aiutarmi; sembrava così gentile e disposta a parlare…
«Un lavoro? Vorresti fare la cameriera qui?» domandò, stupita ma felice. C’era un sorriso sul suo volto che mi fece rabbrividire: mi sembrava di vedere qualcosa di famigliare in lei, nei tratti sudamericani del suo volto.
«Io… sì, ecco» borbottai, cominciando a gesticolare perché non sapevo nemmeno che cosa dire. Non avevo un curriculum e nemmeno un po’ d’esperienza, visto che durante gli studi avevo sempre fatto la baby-sitter.
«Abbiamo proprio bisogno di un’altra cameriera, sei arrivata al momento giusto». Prese sottobraccio il vassoio, sistemandosi la chioma di capelli rossi dietro la schiena.
«Però… ecco non ho credenziali o curriculum» spiegai, elettrizzata dall’aver trovato un lavoro e delusa dall’idea che quella mancanza potesse influire sulla mia assunzione.
Sarei andata da Ryan a rinfacciarglielo, visto che non credeva in me e secondo lui non sapevo nemmeno trovarmi un lavoro da sola.
La ragazza guardò fuori dal locale, diventando improvvisamente seria e perdendo il sorriso che l’aveva accompagnata fino a quel momento. Seguii istintivamente il suo sguardo, voltandomi e guardando fuori dalla vetrata del locale: c’era qualche sporadica macchina che passava, ma lei sembrava intimorita da due ragazzi fermi in mezzo al marciapiede davanti al locale: stavano fumando una sigaretta ma si vedeva chiaramente che ci tenevano sott’occhio, visto che non facevano nulla per nasconderlo.
«Li conosci?» sibilò la ragazza, indicandoli con un gesto del capo. Sembrava arrabbiata, furiosa; faticavo addirittura a credere che fino a pochi secondi prima fosse stata così gentile con me.
Cercai di guardarli con più attenzione ma no, non riuscivo a riconoscerli. «No» spiegai, tornando a concentrarmi di nuovo sulla cameriera, ora sospettosa.
«Tu non li conosci? Eppure sembra che ti stiano aspettando, visto che sono fuori da questo locale da quando sei arrivata» mi accusò, spintonandomi leggermente. Il suo sguardo saettò verso la vetrata, causandole subito dopo un ghigno soddisfatto. «Non sono così idiota, tesoro. Ti ho toccata ed erano già pronti a entrare. Credi che non sappia riconoscere gli Eagles? E ora vattene da qui, stronza Peripheral o quello che sei». Indicò la porta, alzando il tono della voce e attirando l’attenzione dei clienti.
«Io, veramente…» cercai di spiegare, prima che mi spintonasse in malo modo verso la porta.
«Vattene o chiamo mio fratello» mi minacciò, prendendo dalla tasca del piccolo grembiule un telefono.
Uscii dal locale stupita e confusa: non riuscivo a capire chi fosse quella ragazza, cioè, sicuramente era legata ai Misfitous, ma come aveva fatto a capire che in qualche modo ero collegata agli Eagles? E perché continuava a dire che i due ragazzi fuori dal locale erano Eagles? Che fosse perché… no, impossibile che Ryan mi avesse fatta seguire, non volevo crederci.
Mi guardai attorno, ma, come sospettavo, i due ragazzi non c’erano più.
Forse erano semplicemente due passanti che si erano fermati davanti al locale indecisi se fermarsi a pranzo o no.
Cominciai a guardarmi attorno, in cerca di qualche altro locale in cui chiedere se avevano bisogno di lavorare ma non riuscivo più a rimanere tranquilla. L’idea di essere seguita mi terrorizzava, perché in fin dei conti si trattava di persone che avevano ucciso. Che fossero Eagles o Misfitous non cambiava poi molto.
Volevo tornare a casa, al sicuro, dove mi sarei distesa sul divano a guardare la TV.
Erano passati meno di cinque giorni dal mio arrivo a Hunts Point, ma cominciavo a sentire la mancanza del sole, dell’aria calda e umida di Los Angeles, ma soprattutto dell’oceano, del rumore delle onde che si infrangevano contro la mia tavola da surf e dell’adrenalina che provavo nel cavalcare un’onda buona.
Lì, tra le nubi e quel tiepido sole, non riuscivo a sentirmi a casa, non ancora almeno.
Ma dovevo abituarmi, perché i fantasmi di Los Angeles mi avrebbero accolta se fossi ritornata lì, ed ero fuggita proprio per quel motivo.
«Sta attenta» sbottò un ragazzo, urtandomi mentre camminavo e risvegliandomi dai miei pensieri.
«Scusa» mormorai, dimostrandomi gentile, nonostante si fosse già allontanato di qualche metro.
Mi rispose con un gestaccio decisamente troppo volgare. Che cosa c’era di sbagliato nelle persone di New York?
Tutti erano scortesi e quelli che prestavano un po’ di attenzione alle persone che chiedevano informazioni erano degli assassini.
Svoltai l’angolo, indecisa se ritornare a casa o se cercare in qualche altro ristorante quando sentii un rumore dietro di me. Mi voltai, spaventata, ma non vidi nessuno; solamente una via vuota e qualche macchina che passava.
Suggestione, non poteva essere altrimenti, ma quando ricominciai a camminare mi sembrò di udire dei borbottii dietro di me; ancora una volta invertii la rotta per controllare, ma, come era successo poco prima, non trovai nessuno.
Impossibile, nessuno mi stava seguendo, no.
Velocizzai per sicurezza il passo, convinta che fosse meglio tornare a casa e cercare lavoro un’altra volta.
Attraverso il vetro di una vetrata controllai dietro di me e riuscii a scorgere l’ombra di due persone: stavano camminando velocemente, seguendo il mio passo ma rimanendo qualche metro più indietro.
Dovevo solo percorrere Whittier Street ed entrare in casa, solo poche centinaia di metri e sarei stata al sicuro.
Mi voltai di nuovo per controllare: i due ragazzi continuavano a seguirmi, mantenendo sempre qualche metro di distanza. Aprii la borsa senza fermami e cercai le chiavi del portone dello stabile, sicura che non potessero entrare.
Pochi metri e sarei stata al sicuro, una decina di passi al massimo.
Velocizzai il passo, cominciando a correre per distanziarmi di più da loro e vidi il portone aprirsi davanti a me: Ryan stava uscendo.
«Mi inseguono» bofonchiai, lanciandomi verso di lui e sbattendo contro il suo petto. Chiusi gli occhi, stringendo in modo spasmodico le chiavi tra le mani.
«Cosa?» domandò Ryan, irrigidendosi appena contro di me. Rimasi in quella posizione, con il viso nascosto nel suo petto, cercando di respirare profondamente nonostante i suoi vestiti fossero impregnati dell’odore di fumo. Incredibile come mi sentissi al sicuro, anche se probabilmente ero con la persona più pericolosa di tutto il Bronx.
«I due ragazzi, mi stanno seguendo» spiegai, affondando ancora di più il viso contro il suo petto.
Mi sarei aspettata qualsiasi reazione, tranne quella che Ryan ebbe: cominciò a ridere, allontanandosi da me e facendomi aprire gli occhi. Si teneva appoggiato al muro dietro di lui, con la testa inclinata indietro e la sigaretta accesa tra le dita.
«Cazzo, avevo detto discrezione ragazzi. Se anche lentiggini si è accorta di voi vuol dire che avete fatto un lavoro davvero di merda» sbottò, tra un attacco di risa e un altro.
«Perché è andata al Randall, e siamo convinti che volesse cercare lavoro, ci siamo fatti vedere dalla sorella di Pick, e lei l’ha mandata via. Credo fosse convinta che Alexis fosse una nostra Peripheral». A parlare fu uno dei due ragazzi che avevo visto fuori dal locale, lo stesso che mi aveva seguito, assieme a quello con un berretto di lana in testa.
«Voi… tu… tu li conosci?». Stavano parlando con lui senza azzuffarsi o picchiarsi, non si erano nemmeno presentati, doveva per forza conoscerli.
«Secondo te, lentiggini, sono così idiota da lasciarti andare in giro per il Bronx da sola? Come minimo saresti entrata in casa dei Misfitous, cosa che hai quasi fatto. Non ti ho forse detto, ieri, che fino al murales è nostro territorio? Non ti sei accorta dell’aquila ad ali spiegate che è disegnata lì in fondo? No, tu dovevi andare fino all’incrocio dopo, no? Per trovare un fottuto lavoro». Era ironico, naturalmente, ma sapere che mi ero spaventata per niente e in qualche modo mi ero dimostrata debole con lui mi irritò al punto che entrai nel pianerottolo e cominciai a salire le scale.
«Stronzo» bofonchiai tra me e me, sicura che nessuno potesse sentirmi.
Cosa ne sapevo io di aquile disegnate sui muri e locali dei Misfitous? Io volevo solo uno stupido lavoro, perché la vita lì doveva girare attorno a un paio di gang?
Entrai nel mio appartamento, richiudendomi la porta alle spalle e sospirando stanca: volevo solo sedermi un po’ sul divano per rilassarmi dopo lo spavento che avevo preso con quei due ragazzi che mi avevano pedinata.
«Apri» ordinò una voce, battendo un colpo contro la porta del mio appartamento che fece vibrare tutta la parete. Conoscevo una sola persona che bussava in quel modo insolito: Ryan.
«Non sono a casa» strillai, portando un braccio a coprirmi gli occhi. Non avevo voglia di vedere nessuno, tantomeno i miei vicini.
«Lentiggini apri la porta o la sfondo». Di nuovo la voce di Ryan, seguita da un pugno ancora più forte del precedente.
«Non sono in casa» ribattei, coprendomi le orecchie come una bambina: era così difficile per loro lasciarmi un po’ di privacy per poter pensare?
«Brandon, Sick, andate a prendere l’ariete. Sfondiamo la porta». A quelle parole balzai in piedi, correndo verso la porta prima che potessero sfondarla.
«Che cosa volevate fare?» brontolai, aprendo l’uscio di casa e guardandoli tutti e tre: stavano cercando di trattenere le risate, con scarsi risultati.
«Convincerti ad aprire la porta, naturalmente». Ryan con il suo solito ghigno e il suo tono ironico. L’avrei volentieri preso a schiaffi, se solo fossi stata alta come lui.
«Che cosa volete?». Se erano davanti alla mia porta di sicuro c’era qualche motivo, la gente normale di solito bussava perché aveva bisogno di qualcosa: sale, zucchero, latte…
«I due ragazzi che credevi ti pedinassero sono Liam e Shake, gli ultimi acquisti degli Eagles. Cazzo Brandon, non mi ero accorto che fossimo caduti così in basso, sai? Continuo a chiedermi come abbiano fatto a uscire dall’ascensore vivi» sbottò, parlando poi con Brandon, di fianco a lui. Il suo amico ridacchiò, annuendo: era convinto di quello che aveva detto Ryan.
«Bene, sono felice di averli conosciuti. Ora, ciao». Cercai di chiudere la porta: era un modo davvero poco gentile di dire che no, non avevo voglia di parlare con loro; era scortese, certo, ma sembrava che non riuscissero a capire la gentilezza.
«No… lentiggini» sibilò Ryan, appoggiando una mano sulla porta per impedirmi di chiuderla completamente, «forse non ci siamo capiti. Siamo qui per dirti che se devi cercare un lavoro non puoi andare dove vuoi, ok?». Incrociò le braccia al petto, in attesa di una risposta.
Mi soffermai a guardare il suo volto ricoperto da ematomi più o meno recenti, riuscivo a vedere, nonostante la differenza di altezza, i suoi occhi azzurri fissarmi intensamente, mentre cercavano di capire qualcosa.
«E dovrei cercare un lavoro con voi?». Era quello che stavano cercando di dirmi? Mi volevano intimidire con le loro spalle larghe e i loro muscoli?
«Esatto, magari così eviti di venire uccisa, che ne dici?». Sentire la voce di Sick così ironica, senza strani riferimenti a qualcosa di volgare mi stupì, tanto che spalancai le labbra, stupita.
«Ehi Doc! Come va?». Dollar scostò con una spallata Sick, mi sorpassò dopo avermi scompigliato i capelli e avanzò a grandi passi verso il divano di casa mia, senza nemmeno chiedere permesso.
«Doc... doc... cazzo! Ecco dove ti avevo vista! Hai fatto quel film porno, no?» esclamò all’improvviso Sick, facendomi sobbalzare, stupita.
«Cosa?» domandai, sicura di aver frainteso quello che aveva detto. Non poteva aver chiesto se avevo fatto un film porno, no.
«Sì, quello con le dottoresse... è uno dei miei preferiti, siete così... fighe che, cazzo, al solo pensiero mi si...» cominciò a dire, prima di essere interrotto.
«Sick» urlò Dollar, fermandolo prima che potesse dire qualcosa di volgare, sicuramente.
«Che c'è? Dollar, l'hai visto anche tu e hai avuto la mia stessa reazione». Sick sembrava offeso da Dollar, come se non avesse voluto essere interrotto durante un discorso così importante.

La frase di Sick però, sembrò irritare Dollar, che cominciò a muoversi irrequieto sul divano. «È una ragazza» bofonchiò poi, come se volesse giustificare il motivo per cui l’aveva interrotto.
C’era qualcosa di così irreale e pazzo in quel discorso che non riuscivo nemmeno a interromperlo per dirgli che si stava sbagliando.
«No, è una maiala, mi ricordo che cosa faceva» ghignò Sick, avvicinandosi a me e circondandomi le spalle con un braccio. Il suo sorriso mi faceva paura; mi terrorizzava ancora di più la sua mano, che sembrava scendere lentamente verso il mio seno.
«Io… io non ho fatto nessun film porno con le dottoresse» spiegai, indietreggiando di un passo per scostarmi da Sick perché non mi toccasse più.
«Ah no? Allora lì c’è quella che ti assomiglia. Hai lavorato con James Deen?» domandò, curioso e allo stesso tempo stupito di aver sbagliato qualcosa. Sembrava sapere molto di… film, e mi stupì quella domanda. Come faceva a non saperlo?
«Io… Sick, James Dean è morto parecchi anni fa» borbottai, sperando di non dargli una brutta notizia. Avrei anche voluto aggiungere che ero quasi sicura che James Dean non avesse fatto nessun tipo di film porno, ma non volevo mettere troppa carne al fuoco.
«No, stai scherzando? James Deen è vivo. L’ultimo suo film è uscito un paio di giorni fa. Quindi… se non hai lavorato con James… no, cazzo. No. Hai fatto quel film con Stoya? Non era Sasha Gray? Cazzo ero sicuro che fosse Sasha, ma se eri tu…». La luce nel suo sguardo cambiò: mi guardava con ammirazione, quasi.
Imbarazzata da quel disguido e irritata perché nessuno stava cercando di fargli capire che no, non avevo mai fatto nessun tipo di film, tantomeno porno, e che non sapevo chi fossero James, Stoya e Sasha, cercai di non badare alla sensazione di caldo che sentivo all’altezza delle guance e spiegai ancora una volta: «Sick, davvero io…». Non mi lasciò spiegare, perché di nuovo cominciò a parlare, elettrizzato e felice.
«Allora? Dimmi! Com’è girare un porno? Cazzo, mi sarebbe sempre piaciuto, non puoi contattare qualcuno? Mi va bene tutto, basta che ci siano un paio di tette. Niente roba gay, per favore, basta solo il mio, in mezzo a qualsiasi cosa tu voglia» sputò senza mai fermarsi. Stava quasi saltellando per la felicità e un po’ mi dispiaceva dargli quella notizia, ma doveva sapere che si stava sbagliando.
«Sick… io…» cercai di parlare di nuovo, inutilmente visto che per la seconda volta cominciò a parlare, senza fermarsi o aspettare che gli dicessi qualcosa.
Ryan e Brandon guardavano la scena divertiti, senza venire in mio aiuto; nemmeno Dollar parlava più, era seduto sul divano e lo sguardo implorante che gli lanciai lo fece solo ridere di gusto.
Dovevo arrangiarmi io da sola?
«Cazzo, al solo pensiero di quello che fanno in quei film io rischio di venire così. Lei è bella, vero? E quelle tettine che ha… per non parlare delle facce che fa… cazzo mi sono innamorato di lei appena l’ho vista». Si portò una mano alla fronte, massaggiandola pensieroso tra un sospiro e l’altro.
Doveva ascoltarmi, in un modo o nell’altro doveva smetterla, perché non mi interessava di attori di film porno o altre cose simili.
«Sick, dannazione! Non ho fatto nessun porno» strillai, stringendo i pugni lungo i fianchi e riuscendo finalmente a zittirlo.
Riuscii a sentire le risate trattenute di Ryan, Dollar e Brandon, ma nessuno si avvicinò a Sick: rimasero tutti al loro posto, Ryan e Brandon appoggiati alla porta d’ingresso e Dollar seduto sul mio divano sgangherato.
«Oh»  sussurrò Sick, deluso. Continuava a tenere lo sguardo basso, senza rivolgermi la parola. «Forse ti ho scambiata con qualche altra attrice, allora». Sembrava un modo strano per scusarsi, nonostante si fosse avvicinato a me di qualche passo, guardando il mio viso e il mio corpo, in cerca di una conferma per la sua ipotesi.
«È quello che sto cercando di dirti» spiegai, sorridendo imbarazzata dal suo strano comportamento: cominciò a girarmi attorno, squadrando ogni centimetro del mio corpo.
«Ma sei proprio sicura di non aver fatto nessun porno? Nemmeno uno amatoriale?» ritentò, di nuovo, irritandomi. Era così difficile capire che non avevo mai girato nessun porno, amatoriale o non?
«Che porno vuoi che abbia girato? Probabilmente è ancora convinta che siano le cicogne a portare i bambini». Quella voce stridula riuscì a innervosirmi più delle accuse stupide di Sick.
«Sono un dottore e comunque sì, so come nascono i bambini» risposi, piccata. Possibile che Butterfly –se quello era il suo nome, poi– dovesse offendere in modo così gratuito? Cosa le avevo fatto per meritarmi il suo odio? Ci eravamo viste due volte e si era sempre presentata con una frase poco carina per me.
«Oh, dottore? Le lauree le regalano così adesso? Posso laurearmi anche io allora» ghignò, divertita, avvicinandosi a Ryan e strofinando la sua mano sul petto di lui. Credeva forse di offendermi con quel suo strano comportamento?
«Non c’è una laurea in quello che studi tu, mi dispiace». Ed ero anche stata gentile, trattenendomi e non risultando volgare, visto che non sarebbe stato carino dirle che come, minimo, per imparare qualcosa sul corpo umano avrebbe dovuto studiare Medicina o Biologia. La Laurea in Zoccologia non era ancora stata inventata, ma da quello che avevo potuto notare nei pochi minuti in cui avevo parlato assieme a lei, Butterfly sarebbe stata in grado di laurearsi con il massimo dei voti.
«Magari sono più intelligente di te, ci vuole poco, sai?» mi provocò, avvicinandosi a me dopo aver sorpassato Ryan e Sick, ancora fermi e in silenzio sulla porta.
«Sì, hai ragione» sospirai, schernendola. Non mi faceva di certo paura solo perché era molto più alta di me e aveva degli air-bag a proteggerla davanti; Butterfly faceva uscire la parte peggiore di me, quella pronta a rompere il naso di qualcuno con un pugno.
«Che cosa ci fai qui, Butterfly?». La domanda di Ryan sembrò stupirla, perché si fermò, voltandosi a guardarlo e giocherellando con un paio di dreadlock.
«Sono venuta a farti compagnia, tesoro. So che ti manco». Ammiccò verso di lui, cercando probabilmente di risultare sensuale. L’unica cosa che però si poteva associare a Butterfly era la volgarità.
«Non ho bisogno di te, e se non sbaglio un paio di giorni fa hai detto che non saresti più passata di qui, sbaglio o aveva detto una settimana, Brandon?» ghignò Ryan in risposta, dando dei leggeri colpi sullo stomaco a Brandon con il suo gomito. L’amico, in risposta annuì, rimanendo però zitto.
«Se non scopo con voi due lo farò con qualcun altro. Sick non ha mai detto di no». Sorrise, avvicinandosi a Sick che sembrava spaventato.
«Butt…» sibilò, appiattendosi contro il muro. Sick era spaventato da Butterfly? Per questo continuava a indietreggiare, cercando di mettere un po’ di distanza tra loro?
«Andiamo Sick, lo sappiamo entrambi che tette secche non può soddisfarti come faccio io, su. Non sa quello che ti piace, non ti conosce» cantilenò, alternando delle occhiatacce arrabbiate a me, a quelle sensuali che rivolgeva a lui.

«Sick questa sera non è disponibile, porta il tuo culo fuori da qui, Butterfly». Era un ordine, riuscivo a capirlo dal tono di voce di Ryan, e riuscì a capirlo anche Sick, che alzò gli occhi al cielo con uno sguardo confuso ma triste.
«Adesso mi sbatti fuori da casa tua per la seconda volta?» si indignò, alzando la voce e fronteggiando Ryan. Volevo farle notare che quella, in verità, era casa mia, ma non mi sarei mai permessa di interrompere una discussione in cui io non c’entravo nulla.
«Sei a casa di Alexis» precisò Brandon, causandomi un sorriso soddisfatto che non riuscii a nascondere.
«Andate tutti a fanculo! Anche tu, tette secche. Sappi che me la pagherai, perché una stronza non può arrivare qui e prendersi i miei ragazzi, chiaro?» strillò dal pianerottolo, prima di scendere le scale. La sua uscita di scena così teatrale mi stupì, paralizzandomi: credevo che quelle cose succedessero solo nei film, non anche nella realtà.
«Ryan, io però…» cominciò a dire Sick, fermandosi dopo avermi guardato.
«Non me ne frega un cazzo, Sick. È un ordine, per quanto mi riguarda puoi guardarti un film porno e fare quel cazzo che vuoi, chiaro? Se io dico che lei non si ferma da noi, non lo fa. E tu non andrai da lei, perché questa sera dobbiamo uscire, e mi servite tutti». Se di solito la voce di Ryan che dava ordini era dura ma non spaventosa, in quel momento invece mi fece proprio paura. Un sibilo, poteva sembrare impossibile ma era un sibilo, basso e roco.
Tutti abbassarono il capo, rimanendo in silenzio e non protestando.
«Andiamo, torniamo a casa, devo parlarvi». Con un gesto del capo Ryan indicò la porta di fronte alla mia, facendo capire ai ragazzi che dovevano tornare nel loro appartamento.
Brandon si spostò dall’uscio, per far passare Sick e Dollar, che se ne andarono in silenzio, senza nemmeno parlare. Ryan, l’ultimo a uscire, chiuse la porta alle sue spalle, lasciandomi da sola e senza nessun saluto.
Dovevo solo abituarmi, perché erano semplicemente dei ragazzi grandi e grossi, che non sapevano nulla riguardo all’educazione o al bon-ton.
Passai il pomeriggio a finire di sistemare gli ultimi scatoloni che non ero riuscita a svuotare, e poi mi preparai un’insalata che mangiai seduta sul divano a guardare un film.
Il film alla TV era così noioso che mi addormentai lì, sul divano, lasciando che le immagini di quella strana storia d’amore tra un allenatore di calcio e la sua allieva mi spingessero tra le braccia di Morfeo, che mi cullò fino a quando un rumore mi svegliò di soprassalto.
«Alexis! Apri». Un colpo alla porta che mi spaventò: non riuscii a capire dove fossi; nel sogno stavo facendo surf.
Mi strofinai gli occhi, guardandomi attorno e cercando di capire da dove provenisse quella voce e quel continuo picchiare contro qualcosa.
«Apri questa cazzo di porta, sono Ryan». Un colpo ancora più forte che fece vibrare il pavimento sotto ai miei piedi mentre scivolavo sul tappeto davanti al divano.
«Arrivo» gracchiai con la voce ancora assonnata, correndo verso la porta, «cosa…» balbettai. Non appena la aprii e vidi le condizioni di Ryan davanti a me: la sua maglia bianca era intrisa di sangue, il suo volto aveva diverse botte e c’era un taglio sulla sua fronte che continuava a colare sangue.
«Ho bisogno di te».
 
 
 
 
Buongiorno ragazze! Intanto mi scuso per il mostruoso ritardo che spero non si verifichi più!
Poi... Poi mi scuso anche per il linguaggio volgare di Sick e Butterfly... So che la storia è a rating arancione, ma sinceramente mi sembra stupido mettere rating rosso per qualche parolaccia o doppio senso, ecco.
Per Sick... Dunque, James Deen, Sasha Gray e Stoya sono davvero tre pornoattori americani (non chiedetemi come faccio a saperlo... Posso solo assicurarvi che al liceo avevo molti compagni maschi....).
Il MoGridder's e il Randall esistono veramente e sono esattamente come li ho descritti, l'unica cosa... Non é vero che il Randall é sotto il controllo dei Cribs (ossia dei miei Misfitous).
Diciamo che non ho mantenuto la stessa divisione delle strade per le bande.
Per quello che accadrà nel prossimo capitolo... Avete supposizioni? Nel gruppo ho spoilerato alla grande su quello che succederà, ma... Voi cosa immaginate? :p
Come sempre questo é il gruppo spoiler Nerds' corner e questo il mio profilo Roberta RobTwili (per favore specificate che siete lettori).
Ringrazio tutte quelle che hanno recensito lo sorso capitolo, chi ha messo la storia tra i preferiti, i seguiti e tra quelle da ricordare!
A presto! (magari anche a domenica, quindi battete un colpo se avete letto il capitolo, così mi regolo per il prossimo aggiornamento!).
Un bacione!
   
 
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