Disclaimer: I personaggi di Wild Adapter non mi appartengono
Ma sono di proprietà di Kazuya Minekura ©.
Se fosse il contrario, non si sarebbe fermi
Al numero sei.
Ps: se cliccate sul titolo, parte la canzone di sottofondo!
A Rota, che mi ha fatto conoscere
Questo fantastico manga ~
11
Febbraio 2006.
Io,
Shota Iizuka, sono tornato a vivere a Tokyo.
Oggi
mi sono rivisto allo specchio.
Tokyo è pigra, incoronata dai
lampioni asettici sotto il cielo plumbeo. Fa freddo e in giro, a quell’ora
–saranno le due, le tre del mattino al massimo- non c’è nessuno.
Le viuzze sono dedali scuri di un
labirinto, le finestre ancora accese tasselli di mosaico su pietre squadrate e
nere come l’inchiostro. Il brulichio ronzante della Tokyo notturna è così
lontana da essere appena un filo di luce al di là dei tetti bui, una foschia
che si disperde fumosa lungo la linea dell’orizzonte.
Uno
specchio difficile da interpretare, che se gli parli ti dà una risposta: un po’
come quello di Biancaneve, solo che non parla in rima. Ma è incomprensibile
uguale.
Il piccolo parco giochi ha il
suono cigolante della ruggine: una delle altalene è spezzata e il sedile pende
sghembo dentro la polvere ed il fango. Le catene sono un intreccio metallico di
ragnatele e il legno delle assi portanti, rosicchiato dagli insetti e dai
graffiti, dà l’impressione di non poter reggere oltre il loro peso.
Lo scivolo fa pietà, così sporco
e cadente.
Un gatto una volta ci si era
rifugiato ed era rimasto lì, a soffiare contro il dolore, digrignando i denti e
strusciando la testa sulle assi, fino a quando un bambino non l’aveva trovato.
E il gatto non aveva trovato una famiglia.
Non
pensavo di trovare di nuovo quello specchio.
Non c’è nessun gatto, stavolta.
Ma ci sono due ombre: due grumi di colore, impastati del tono squallido e
marcescente di quella notte. Uno –il più
alto, che sembra avere la testa rivolta al cielo, anche se il cielo non si vede
da sopra il tettuccio dello scivolo- tiene una sigaretta in mano ed un
volto in grembo. Un volto tanto pallido da sembrare biacca, tanto candido da
sembrare la luna strappata alla notte.
La sigaretta è ormai spenta –c’è solo un po’ cenere fumante e un ultimo,
morente sfrigolio rossastro- e forse anche l’uomo è spento, solo che non lo
dà a vedere.
Mi
fa strano osservarmi di nuovo riflesso, perché è come se lo specchio non mi
vedesse: la sua superficie, che ora sembra piegata verso di me- è venata,
percorsa da rivoli rossi ed esplode di una luce innaturalmente bianca ai suoi
piedi, dove, sotto tanti frammenti che sembrano dita, se ne sta qualcosa di
indefinito, raggomitolato e immobile.
Quando
ho visto quello specchio così crepato, mi si è stretto il cuore: lo pensavo
tanto forte da essere infrangibile.
-Stai ancora disegnando quel
manga?-
Deve essersi mosso, il più alto,
perché il buio si è accartocciato all’improvviso, facendo lampeggiare una
macchia scarlatta proprio sul suo petto. La figura raggomitolata non ha
reazioni: rimane immobile col volto di biacca affondato tra le pieghe viscose e
rosse del maglione. Lui non ne è macchiato, però. Ma è così bianco e pallido
che sembra che qualcuno –il rosso, il
caldo, il colore- glielo abbia portato via.
-Te lo ricordi quel bambino?-
chiede il tipo, e la voce gorgoglia in modo strano, come se qualcosa ribollisse
dentro la gola e raschiasse e riempisse e impastasse le parole, facendole
scivolare l’una contro l’altra fino a renderle incomprensibili –E’ cresciuto,
sai. E quella cosa preziosa, anche se gli ha dato problemi, è cresciuta con
lui- c’è un attimo di silenzio –Ma la cosa era tanto preziosa che altri la
volevano. La cercavano e la cercavano, la strappavano dalle mani del bambino,
cercando di capire cosa ci fosse di così prezioso in quella cosa. E il bambino
andava sempre a riprendere quella cosa. Ma non smettevano di cercare e per ogni
brutto ceffo che spariva, un altro compariva. Fino a quando non è arrivato il
ceffo più brutto di tutti e il bambino è andato riprendersi la sua cosa, a
costo di farsi prendere a schiaffi dal ceffo più brutto di tutti.-
Ho
fatto una domanda allo specchio.
Si sporge appena col viso,
inarcando le sopracciglia e strizzando gli occhi per vedere oltre il buio.
Cerca di scorgere un movimento, un barlume di coscienza dietro le lenti degli
occhiali spessi, un sospiro dalle labbra esangui di quel volto così
innaturalmente pallido. Un suono, un sussurro appena, non chiede molto; gli
andrebbe bene persino veder muoversi quella mano, quelle dita pelose che gli
spaccavano sempre il joystick.
Ma la sigaretta è spenta e la
luna dorme.
-Com’ è finita?- chiede.
Perché ogni storia deve avere una
fine: le sue, quelle dei due eroi, finivano sempre bene, perché sperava che il kotodama avesse effetto anche –e soprattutto- su di loro.
-Com’è finita?-
Ma
non ha risposto.
Tokyo è pigra, incoronata da la
lampioni asettici sotto il cielo plumbeo. Fa freddo e in giro, a quell’ora
–saranno le due, le tre del mattino al massimo- le viuzze sono dedali scuri di
un labirinto, le finestre ancora accese tasselli di mosaico su pietre squadrate
e nere come l’inchiostro. Il brulichio ronzante della Tokyo notturna è così
lontana da essere appena un filo di luce al di là dei tetti bui, una foschia
che si disperde fumosa lungo la linea dell’orizzonte.
Al parco giochi è rimasto solo il
silenzio.
Non avrebbe risposto mai più.
Note finali
Oddio.
Prima fan fiction su Wild Adapter e cosa succede? Angst, mi sembra ovvio. Eh,
che ci volete fare? Sono fatta male, mi sa. Molto, molto male.
Comunque…!
A me, il personaggio di Shota piace. Tanto. Non so come mai, ma mi ispira
particolarmente! Bambocetto adorabile…
Qualche
spiegazione sarebbe d’uopo, vero? Perché lo specchio? Per due motivi: quello
più terra è che lo specchio altro non è che il paio di occhiali di Kubota. Il
secondo è che Kubota mi fa pensare ad uno specchio: riflette le persone che gli
stanno attorno ed esse vedono riflesse la propria immagine guardandolo. Ma
nessuno, nessuno sa cosa lo specchio riflette di stesso. E quindi c’è anche
questa continua contrapposizione di movimenti/aspetto tra le due cose. Spero si
capisca e di non essere stata troppo criptica!
Che
roba complicata, eh?
Quello
del Kotodama è un concetto espresso nel numero quattro.
E’
una What if..? comunque. Perché se il manga continuasse, me lo sento che
finirebbe in tragedia.
Eh.