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Autore: Wonderwall2612    08/03/2012    1 recensioni
Julia è una Nephilim. Un mezzo-angelo. Ha studiato alla Shoreline, come tutti quelli come lei. Dopo aver finito gli studi ci è rimasta. Le piaceva, in un certo senso, stare li. Ormai la considerava quasi "casa". Eppure quando Daniel era apparso alla sua finestra, con il suo sguardo preoccupato, aveva capito subito non si poteva più nascondere...Le aveva solo detto "E' tornata". E lei sapeva di chi stesse parlando...
Questa è un'idea che mi è venuta in mente poco tempo fa, mentre rileggevo soprattutto Torment e Passion. So che la maledizione di Luce e Daniel è complicata e che, secondo quanto scritto, non sono mai andati oltre al bacio. Ma io mi sono chiesta...e se ci fosse stata un imprevisto? un grosso imprevisto, veramente...Cosa sarebbe successo,allora? Ci sarebbero stati nuovi personaggi, intrecci complessi, cose difficili da spiegare e da capire...Possiamo collocare questa storia in parallelo a Passion. Ci sono alcuni nuovi personaggi, tutti quelli che invece conosciamo già...e qualche colpo di scena. Buona lettura (spero).
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Eccoci qui con un nuovo capitolo…innanzitutto un enorme grazie a ChibiRoby che ha commentato il primo esperimento. Volevo solo chiedervi di non spaventarvi…la trama sembra contortissima ed in apparenza slegata da un capitolo all’altro (per il momento) ma come dice il titolo del capitolo è (appunto) una seconda parte del Prologo, questa volta dal punto di vista di Cam…spero che vi piaccia!

 

*Cam* - Prologo

Diciassette anni fa

-          Cam aspetta.

Una voce di donna lo aveva chiamato. L’aveva riconosciuta subito: Molly.  Quindi si fermò sbuffando tra sé sperando che la conversazione non andasse troppo oltre. Era di malumore, quindi Molly era proprio l’ultima persona che avrebbe voluto avere accanto.

-          Ti va un giro in città?

Il tono della ragazza, mentre si scompigliava i capelli biondo platino con le mani dallo smalto nero pece, trapelava una grossissima speranza che la risposta fosse un si.

-          Spiacente – si limitò lui a negare telegrafico – altro impegno.

Agile come una gazzella saltò oltre la recinzione della scuola/istituto correzionale dove ogni tanto, si decideva a passare del tempo, e salutò con una mano goliardica l’amica. Era divertente, poter andare e venire come gli pareva, abbandonare quegli edifici simil-gotici in decadenza. Il giardino attorno alla scuola, nonostante fosse comunque verde, era smesso e in rovina. Lasciarli significava prendere una boccata d’aria in posti sicuramente più allegri. E da quando c’era lei, era tutto ancor più spassoso. L’aveva conosciuta per caso in autobus, le erano caduti tutti gli spicci dal borsellino mentre pagava il conducente e, lui, pronto, glieli aveva in sostanza rubati da sotto il naso. Poi però le aveva offerto una coca al primo distributore. La sua innocenza, la sua incapacità di vedere ciò che aveva davanti al naso, per lui, era meglio di un programma comico. Non era innamorato. Non di lei. Ma ne era attratto. Questo sì. Aveva dei recessi mentali particolarmente brillanti, pur essendo una mezzosangue. L’aveva riconosciuta immediatamente. Oh, certo, con tutto quel luccichio dorato che la seguiva, come poteva essere altrimenti?

Si avvicinò a grandi passi verso l’altura alle spalle della scuola. Li, in mezzo al niente e all’odore di fogna della Georgia, senza lo strascico di un raggio di sole, s’incontravano spesso. Non c’era nulla di che. Un vecchio cascinale smesso di legno logoro, un sentiero di sassi. Alle spalle quello che tutti si ostinavano a chiamare “montagna”, ma giacché superava a malapena i mille metri, Cam la poteva solo chiamare “collina”. Niente verde. Niente uccellini che cinguettavano. Solo qualche ramo secco qui e là, rocce, tante e grigie, e qualche pino verdastro che però stava pensando di cambiare colore e diventare direttamente marron glacé.  La scorse subito, seduta a cavalcioni sulla grossa pietra di granito alla fine del sentiero. Lei non frequentava la sua scuola. Lei sarebbe dovuta essere in un’altra scuola, per quel che ne sapeva lui, ma forse, nessuno si era mai preso effettivamente cura di lei. Si stava mangiando le unghie, al solito, mentre con le cuffie nelle orecchie ascoltava chissà cosa, pettinandosi i capelli moganati distrattamente nella speranza che crescessero più in fretta.

-          Mi aspetti da molto?

Lei si tolse le cuffie e sorrise.

-          Non si dovrebbero far aspettare le signore.

-          Tu non sei una signora!

La offese bonariamente lui dandole una spallata amichevole mentre si sedeva accanto a lei.

Rimasero in silenzio per un po’. Lei sembrava cercare in quella piccola testolina le parole adatte per dire qualcosa.

-          Il rumore della tua mente che pensa si sente da qui fuori Jules.

Le fece presente sempre sorridente lui. Lei, colta alla sprovvista, si voltò a fissare i suoi occhi verde smeraldo. Aveva l’impressione di essere da un’altra parte, in un posto in cui il mare era molto più blu, il cielo molto più terso e l’aria molto più rarefatta. Quando la fissava, intensamente, la faceva sempre sentire così. Gli passò divertita una mano tra i corti capelli scuri e gli diede una sventola alla base della nuca.

-          Idiota.

Borbottò tra i denti. Lui, cogliendo al volo. Si limitò a sorridere.

-          Che c’è?

Le chiese mettendole amichevolmente una mano sul ginocchio. La sua mente corse però a tutte le altre volte in cui lui aveva usato tutto un altro tipo di “contatto” con lei. La sua bocca…le sue mani. Le sue cosce. Sbarellò con il pensiero e a fatica tornò a concentrarsi sul momento.

-          Mi mandano in California.

Annunciò lei greve.

-          Chi?

Si limitò a chiedere cercando una spiegazione logica.

-          La mia tutrice legale. Gabbe dice che lì c’è una scuola che potrebbe aiutarmi.

Gli aveva già parlato della sua tutrice legale, seppur in termini molto vaghi. Colei che si era presa cura di lei da quando sua madre era morta, dopo l’abbandono di suo padre. Non c’era voluto molto per capire che, se lei era così strana, la colpa doveva essere per forza di suo padre. Sua madre era morta, quindi non era di certo immortale.

-          Gabbe?

La familiarità del nome lo lasciò interdetto.

-          Gabrielle…te ne ho già parlato, no?

Gli occhi di lei, quasi lucidi, evitavano un contatto diretto con lui. Si vergognava.

Cam strinse i pugni. Gabbe. C’era sempre lei di mezzo quando qualcosa a lui andava storto. Julia sapeva di essere “speciale”, quindi per lui non c’era motivo per non pensare che la Gabbe-tutore-legale-di-Julia non fosse la stessa Gabbe-rompiballe che gli torturava l’anima da seimila anni a questa parte.

Sobbalzò, quando la sentì arrivare. Quel nauseabondo odore di zucchero filato la accompagnava sempre, ogni qual volta lei era nei paraggi. Così colse l’occasione. Non poteva lasciarla andare così. Un gesto rapido, quasi guardingo, e incollò la sua bocca a quella della ragazza al suo fianco. Lei, colta alla sprovvista, prima lo fissò spaventata, poi, abituata ai suoi modi rudi, ma decisi, si lasciò andare. Socchiuse gli occhi mentre lui scendeva con le labbra avide lungo il suo collo. Ogni bacio era come se lasciasse una traccia e fosse contemporaneamente sigillato dal successivo. Lui, ormai senza controllo, non poté trattenersi e si lasciò definitivamente andare. Le grandi ali dorate si stesero spavalde senza alcun riguardo, riempiendo di cenere i loro vestiti. Il fuoco che ogni bacio portava con sé era nulla, rispetto a quello che stava consumando lui in quel preciso istante.

-          Lasciala Cam.

La voce di Gabbe fece in modo che lei aprisse gli occhi e…vedesse.

Grandi ali di metallo, calde, rilucenti. Enormi. Pericolose. Lei sapeva dell’esistenza degli angeli e dei demoni. Ma non aveva ipotizzato di poterne avere uno così vicino.

-          Lasciala, ho detto.

Lo minacciò lei di nuovo, con voce calma, mentre sfoderava le sue soffici ali da farfalla dalle sfumature color crema.

Due. Erano due.

Julia si scostò spaventata da Cam. Lo fissava come se fosse il peggior essere sulla faccia della terra. Non era tuttavia uno sguardo che riservava a lui perché Demone. Aveva la stessa espressione nei confronti di Gabbe. Lei non voleva avere nulla a che fare con la loro razza. Si odiava per ciò che era?

-          Purtroppo Julia sai di non poterne fare a meno.

Gabbe cercò di avvicinarsi a lei, ma lei, d’istinto, si ritrasse. Da entrambi.

-          Dovevo proteggerti da ciò che sei.

La donna cercava, in qualche modo, di chiederle scusa.

-          Io non voglio nulla da voi. Lasciatemi stare.

-          Non posso Julia.

La mente di Gabbe corse al viso di Daniel, era un favore che gli doveva.

-          Voi non potete… - strinse i denti cercando di non piangere – Ma io posso.

Raccolse la sua borsa e in meno di una frazione di secondo era scomparsa correndo giù a perdifiato dalla collina. Sapeva di non aver scampo e che questo non avrebbe di certo modificato l’intento di Gabbe di mandarla in quella scuola per mezzi-angeli, ma per un momento, per un solo momento, aveva bisogno di dimenticare che ci fossero esseri come loro in mezzo agli esseri umani. Ridacchio delusa. Come poteva dimenticarselo se lei per prima era qualcosa che non sarebbe mai dovuto esistere? Notò con nausea profonda quanti di loro le fossero vicino…senza che lei se ne accorgesse. Gabbe. Cam. Chi altro? 

Entrò nella sua camera, nel vecchio e decadente edificio dell’orfanotrofio, dove aveva passato gli ultimi diciassette anni della sua vita. Ai piedi del suo misero letto di ottone ricoperto da semplici lenzuola bianche di cotone, c’era la sua valigia. Il suo mondo rinchiuso in un vecchio trolley sdrucito color melanzana. Odiava quel colore. Non era neppure sufficiente a tener dentro tutti i suoi vestiti. Accanto, la sua borsa di lana infeltrita blu, regalo di una ragazza dell’orfanotrofio. Lì ci aveva stipato tutti i suoi libri e qualche maglietta extra.  Notò subito la busta con il suo nome inciso in delicate e voluttuose lettere. La aprì e, come sospettava, dentro trovò un biglietto aereo per la California, un numero di cellulare e un indirizzo. L’indirizzo della sua nuova scuola, la Shoreline. Un’unica avvertenza.

“Contatta Francesca al numero di cellulare per avvisarla che il viaggio è andato bene”.

Neanche un saluto. Niente. Evidentemente era nella loro natura considerare gli esseri umani come usa-e-getta. Disgustata, prese sotto braccio la borsa, il trolley e si diresse verso la prima stazione degli autobus disponibile. Il viaggio verso l’aeroporto sarebbe stato lungo, con tutti quei pensieri.

  
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