Fanfic su artisti musicali > Jonas Brothers
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Autore: Vesdronica    16/03/2012    7 recensioni
Il trillo della campanella scandì il cambio dell'ennesima ora.
Il corridoio lungo era inaspettatamente vuoto, gli armadietti argentei allucchettati di colpo si aprirono rovesciando il loro contenuto sul pavimento.
Fogli bianchi, un'infinità di pagine vuote presero a svolazzare per il corridoio, come foglie secche autunnali.
Poco a poco si tinsero spontaneamente di rosso acceso, della tonalità del sangue.
Un urlo agghiacciante riecheggiò contro i muri facendomi voltare di scatto.
Quello che sembrava essere il mio liceo si stava trasformando nello scenario di un orrido incubo.
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capit 7 Mi prostro ai vostri piedi chiedendo perdono per averci messo così tanto per postare ç______ç
Ci sono stati vari casini nella mia vita in quest'ultimo periodo e in più si è aggiunta la scarsa ispirazione, argh. Ringrazio come sempre tutti quelli che hannno avuto il buon cuore di recensire, siete tenerissimi e bellissimi *-* Tanto love per voi. E grazie anche a chi ha solo letto :)
Comunque ecco a voi, il settimo capitolo, brought to you by me :D
Al prossimo capitolo, che GIURO arriverà presto!
BYE ;D
Disclaimer: questa mia fanfiction è stata concepita e scritta senza fini di lucro, i Jonas Brothers, come penso si sia capito, non mi appartengono in nessun modo; il personaggio di Vee (e un paio d'altri) invece sono di mia proprietà.


Ps: Ci tengo a chiarire che a me Justin Bieber NON PIACE in alcun modo. L'ho usato, appunto, come presa in giro.




7.


Tirava una pungente brezza che mi attraversava da parte a parte.
Cercai con poca fortuna di riscaldarmi, stringendomi tra le braccia, era come se fossi nuda in quel leggero vestitino estivo.
Una distesa verde davanti a me, i lunghi fili d'erba si muovevano come delle ballerine, seguendo il ritmo scombinato del vento: agitati, alle volte cadenzati, altre caotici e ribelli, come se seguissero una coreografia imprecisa.
Mi alzai dall'appoggio su cui ero seduta, era fatto di un freddo e grigio marmo e feci un passo indietro spaventata quando vidi una foto incastonata sulla superficie: era una lapide.
Il vento si alzò e mi invogliò ad allontanarmi dal mio improvvisato trono scompigliandomi così tanto i capelli da impedirmi di vedere chiaramente dove andassi. Sbattei contro qualcosa di duro e mi accasciai a terra, mi guardai la gamba sanguinare a causa delle escoriazioni e cercai di ripulire la ferita con le mani, controllai contro cosa avevo sbattuto, era un'altra pietra tombale. Cercai di leggere a chi appartenesse, ma non vi era inciso alcun nome, solo una foto: una signora mora, dagli alti zigomi e tratti delicati sorrideva allegra; era molto bella e trasmetteva istantaneamente un forte senso di calma e affetto.
Il vento si alzò ancora e come se fossi avvolta da inconsistenti braccia, fui sospinta in avanti finché non incontrai un altra tomba. Un uomo con gli occhiali e occhi sul verde, il viso tondo e placido.
Aveva qualcosa di familiare, un sorriso del genere l'avevo già visto in vita mia ma in quel momento non riuscivo a ricordare a chi potesse appartenere.
Poco lontano da quella, ce n'era un'altra ma più modesta. Era quella di un bambino: occhioni nocciola e corti capelli ricci e castani, aveva una faccia proprio simpatica.
Mi accucciai al suo cospetto e accarezzai con un dito la foto: mi sentii colpita da un mare di emozioni contrastanti e che chiaramente non mi appartenevano.
Gli occhi mi si inumidirono e soffocai un singhiozzo tra i denti. Strinsi il bordo di pietra come se cercassi disperatamente di aggrapparmi alla vita.
Fui colta da una sfiancante debolezza che mi svuotò il corpo, restava di me un semplice involucro di carne scosso dai singulti.
Provai vergogna, provai risentimento, mi sentii colpevole, come se quei poveri ospiti albergassero nei loro letti di terra per colpa mia.
La mia vita non sarebbe più stata la stessa dopo quell'incontro e una pressante ed ignota responsabilità mi si poggiò sulle spalle e mi sentii schiacciare verso il suolo.
Poi un grosso peso mi occluse la bocca dello stomaco.
Smisi di piangere e, assurdamente, mi sentii peggio di prima.
Se fossi riuscita a piangere, a liberare quelle imponenti emozioni con le lacrime, sarei riuscita a provare un po' di sollievo, ma nel mio cervello era fisso l'imperativo al negativo "NON PIANGERE".
"Non puoi permetterti di farlo, non ti guarderanno mai come prima, se lo fai.
Perderai tutta la credibilità che a fatica ti stai costruendo, ti rideranno dietro, ti diranno che sei debole e, anche se nel tuo cuore sai di esserlo, non devi mai darne prova agli altri".
Quelli non erano pensieri miei eppure mi ci potevo riconoscere interamente.
Grattai le unghie contro la ruvida superficie su cui mi sostenevo.
Provai un dolore così forte da diventare fisico come una frustrata sulla schiena, come se centinaia di cristalli mi lacerassero la carne.
E poi la vidi chiara, come un'ondata rossa, venirmi addosso e travolgermi: la rabbia.
Una rabbia talmente annichilente da svuotarmi da ogni altra sensazione che non fosse la vendetta.
Provai per la prima volta il desiderio di vedere chiunque attorno a me soffrire tanto quanto ero stata costretta a soffrire io.
Volevo il sangue, volevo che le grida risuonassero nelle mie orecchie come campane a festa. Quando finalmente il mondo intero avrebbe conosciuto una desolazione nell'animo pari alla mia, allora forse sarei stata paga.
Mi alzai in cerca di qualcuno su cui rivolgere la mia sete di rivalsa, chiunque sarebbe andato bene.
Il viso mi si tagliò in due da un ghigno sinistro quando notai una figura in lontananza.
Era girato di spalle e non sembrava essersi accorto della mia presenza. Perfetto.
Feci per avanzare ma una mano sbucò dalla terra e mi afferrò la caviglia.
Urlai in preda al panico e strattonai la gamba a lungo per liberarmi, dovevo avventarmi contro quella figura, non avevo altra scelta.
La rabbia mi divorava ogni cellula del corpo e iniziava ad essere troppo da sopportare. Dovevo sfogare quel veleno nero che mi scorreva nelle arterie almeno per una volta, almeno una.
Scappai verso quell'individuo, era un uomo di sicuro.
Fui fermata da un altra mano che fuoriuscì dal terreno e caddi a terra sbucciandomi entrambe le ginocchia. Ringhiai. Non volevo essere fermata e la frustrazione cresceva dentro di me come la marea.
Quelle mani non capivano: volevano fermarmi ma il mio bisogno era troppo forte, avrei fatto di tutto per annientare la vita di quella persona.
Scattai in avanti e caddi di nuovo, lottai contro la polvere che mi bruciò gli occhi, contro l'erba e le foglie, contro lo sporco sotto le unghie e sui vestiti.
Lottai contro quei non-morti che mi ostacolavano.
Crollai a terra un'altra volta e sentii nella bocca il sapore del sangue e il terriccio nel naso. A fatica cercai di rialzarmi e una lacrima mi rigò il viso.
Perché si ostinavano ad intralciarmi? Perché non potevo liberarmi di quel cancro che mi divorava l'anima una volta per tutte? Sarebbe bastato così poco, sarebbe bastata quella vita.
Una voce mi chiamò: "I fantasmi del passato ritornano sempre ad infestare le vite delle persone. Le tormentano e le fanno uscire di senno, finché non si uccidono tra di loro. Ed io vi osservo cadere uno dopo l'altro, inutili e stupidi omuncoli. Se giochi con i morti, morti otterrai. E la morte è ciò che mi viene meglio."
La figura maschile iniziò a girarsi dalla mia parte e accelerai decisa, ebbi il tempo di scorgere un paio di furenti occhi castani e sprofondai in una tomba vuota.


Spalancai gli occhi e vidi le macchie di umidità sul soffitto della mia camera.
"Se giochi con i morti, morti otterrai." Che voleva dire? Chi giocava con i morti? La risposta mi colpì come una frecciata diretta al cervello: Peggy. Era un medium e poteva "giocare" con i morti.
Ma comunque, cosa c'entrava lei con la mia visione? Cosa mai poteva legarla con le persone raffigurate sulle lapidi? E poi, ne era veramente legata? E chi era quella figura di spalle? A chi appartenevano le sensazioni che avevo provato? Domande a cui difficilmente avrei dato risposta.
Non seppi cosa pensare. Non potevo fare completo affidamento ai miei sogni premonitori, erano di difficile codificazione e la mia interpretazione si potrebbe rivelare totalmente sbagliata.
Avrei dovuto attendere che la giornata mi portasse degli indizi per giungere alla giusta conclusione. Anche se aspettare sarebbe stata la cosa più difficile da fare in quel momento.
Mi preparai per la scuola, sempre molto pensierosa.
Aprii la porta decisa, anche se sarebbe stata la scelta sbagliata, sentii nel mio cuore che dovevo andare da Peggy per vedere se stesse bene.
Avevo un cupo presentimento.
Scesi velocemente le scale e girai l'angolo per la sua stanza e sbattei violentemente contro qualcuno.
Fui afferrata per un braccio giusto in tempo, per evitare che cadessi rovinosamente a terra.
< Attenzione! >
Mi aggrappai alle maniche del mio "salvatore" e lo ringraziai con un'espressione di... fastidio.
< Joe? >
< Buongiorno! Lo sai che si guarda dove si mettono i piedi? >
< Che ci fai nel dormitorio femminile a quest'ora? >
< Io... Ecco... >
Mi passò la voglia di starlo a sentire.
< Va beh, se vuoi scusarmi, devo passare un attimo da Peggy. >
Mi trattenne per il pullover < Noo, dai, faremo tardi per la colazione! Sai che poi si mangiano le cose più buone! >
< E vacci da solo! >
< Perché non facciamo la strada insieme?! >
Stavo per  rivolgergli una serie di irripetibili parolacce e ingiurie, ma lo vidi farmi un sorriso talmente splendente che avrebbe potuto accecarmi.
Mi tremarono un po' le gambe.
Gli permisi di trascinarmi fino alla sala colazione come se non albergasse più, in me, un briciolo di volontà. Ed era bastato un semplicissimo sorriso.
Dio, quanto lo odiavo.
Mi guardò imbarazzato, prima di aprire la porta < Ehm... Ci sarebbe Camilla che mi aspetta, quindi non ti farò compagnia >
Improvvisamente ripresi padronanza delle mie facoltà mentali, sgranai gli occhi e dilatai le narici, proprio come un toro pronto all'attacco.
Ma mi stava prendendo per i fondelli?
Finsi che mi stesse bene e ci dividemmo.
Grazie al cielo vidi Mark seduto ad un tavolo con i suoi amici, eravamo pari almeno.
Lo salutai fingendo che andasse tutto bene, che non mi rodesse il fegato per una qualsiasi ragione dalle folte sopracciglia.
< Sei di nuovo venuta con quel tizio >
< No, è lui che è venuto con me, è diverso. > Le cose non stavano esattamente così, ma lui non lo sarebbe mai venuto a sapere.
< Mi infastidisce un po' che ti giri sempre intorno... Non ha la ragazza? >
Annuii e guardai in direzione dei due: lei stava parlando senza sosta, sbracciandosi animatamente, era ridicola. Si era messa in testa un cerchietto della stessa fantasia della gonna della divisa, credendo di essere alla moda.
Lui la fissava tenendo in mano una ciambellina al cioccolato che però gli fu strappata via velocemente da lei.
Stufa di rodermi l'anima dietro ai piccioncini, affogai i miei fastidi nel buffet.
In fila cercai Peggy per tutta la sala ma non la trovai. Era piuttosto tardi e non rimaneva molto tempo per poter godere della colazione.
Mi impensierii.
Afferrai un cornetto al cioccolato e un pezzo di pane tostato.
< Carboidrati di mattina? No, no! Ti fanno ingrassare. >
Poggiai il piatto sul tavolino e respirai a fondo per calmare i nervi.  Io. Prima. O. Poi. L'uccido.
< Joe, hai tempo fino al 3 per sparire. 1... 2... >
< E' un cesso. -si avvicinò al mio orecchio- no, sul serio! Il tuo ragazzo è proprio brutto >
Strinsi forte il piatto per trattenermi dal spaccarglielo su quella zucca vuota.
Lo guardai con la furia negli occhi. < Non che la tua sia una super modella, sai. Da chi si fa fare le sopracciglia? Da Frida Kahlo? -Non parve cogliere la mia sottile battuta e mi guardò torvo- Frida Kahlo era una pittrice messicana. E aveva un ENORME monociglio. Sei proprio ignorante. >
< Ad ogni modo il tuo Justin Bieber troppo cresciuto è inguardabile! Potresti fare di meglio... >
< Tipo?! >
Volevo proprio sentire che cos'altro si sarebbe inventato solo per infastidirmi; prese una ciambella e ci diede un morso ma non mi rispose.
Codardo.
< Invece di dare aria alla bocca per nulla, stai a sentire me. Ho un brutto presentimento... Credo che possa essere successo qualcosa a Peggy e con "qualcosa" intendo "qualcosa di brutto." >
Si comportò come se la cosa non lo toccasse nemmeno. Certo, che diavolo mi era saltato in mente, cosa speravo di ottenere da un celebroleso più impegnato a sistemarsi i capelli che a preoccuparsi della sorte dei suoi compagni?
Lo vidi specchiarsi nel retro di un cucchiaio, glielo strappai di mano e lo colpii violentemente sulla testa.
< Mi hai sentito?! >
< Mmh? Sì, sì, ok! Quindi? >
< Come quindi? Ti dico che forse una nostra compagna di scuola è in pericolo e tu ti specchi in un cucchiaio? Ma sei scemo?! >
< Cosa vuoi che ti dica, scusa? >
Non ragionai più.
Mi feci largo tra la coda di persone e uscii dal refettorio.
Era incredibile. Proprio io, la persona più misantropa e asociale di quel posto, mi abbassavo a chiedere aiuto a Joe per salvare un'altra ragazza e per giunta non ne ottenevo di alcun tipo.
Ma alla fine per cosa mi agitavo tanto? Non ero nemmeno sicura fosse davvero così! Dovevo essermelo solo sognata, letteralmente.
Decisi che fregarsene sarebbe stata la scelta giusta visto che era quella che avevo sempre preso in vita mia.
Fregarsene, sempre, di tutto e di tutti, perché non ci si può fidare di nessuno, nemmeno di sé stessi; prima o poi tutti fanno un passo falso e mandano a monte tutti i piani, è così che va il mondo.
Mi ero arresa all'idea già da tempo e quello che successe questa mattina ne fu un'ulteriore prova.
Mi sarei lasciata scorrere addosso quelle visioni.


Tre ore dopo non ero ancora riuscita a liberarmi di quel fastidioso pensiero. Sarebbe stata una luuuunga giornata.



* * *



Le lezioni del pomeriggio erano appena finite e Nick, dopo aver bevuto una Diet Coke ed aver chiacchierato con alcuni dei suoi compagni della sua candidatura a Presidente del comitato studentesco, decise di dedicare un paio di ore prima della riunione per le elezioni allo studio matto e disperatissimo di chimica.
Quella materia lo faceva impazzire.
Quella materia faceva impazzire tutti, a dire la verità.
Il professore era esigente e fiscale, le spiegazioni erano tediose e il ritmo che il signor Lancaster si era imposto di seguire era insostenibile: infatti ogni settimana proprinava loro dei test scritti e delle ricerche che appesantivano di molto il già gravoso carico di compiti.
Insomma, non avevano mai tregua.

Entró nella biblioteca sperando di trovare un angolino appartato per studiare senza distrazioni.
Era arrivato nella zona piú appartata della biblioteca, quella della sezione di botanica, criptobotanica e affini, quando vide una ragazza bionda con i capelli raccolti seduta al tavolo in cui avrebbe voluto sedersi.
Era indaffarata a scribacchiare qualcosa su un taccuino nero e aveva davanti un libro molto grosso che aveva l'aria di essere antico.
Avvicinandosi capí che era Zoe, la gemella di Daphne.
Scostó la sedia dal tavolo e si sedette.
La ragazza non aveva nemmeno alzato lo sguardo da quanto era assorta in ció che stava facendo.
Portava degli occhiali da vista e poggiata di fianco aveva una borsa piena di libri e quaderni.
Era per forza Zoe.
Il moro allora si schiarí la voce e la salutó
< Ciao Zoe! >
< No >
< No cosa? > disse il moro non capendo.
< No, non sono Zoe > aveva una venatura beffarda il tono con cui la bionda aveva risposto a Nick.
< Di certo Daphne non si siederebbe mai ad un tavolo della biblioteca a studiare >
La bionda chiuse il libro davanti a lei con uno scatto secco e posó la penna.
Lo guardó a lungo attraverso le lenti degli occhiali da vista e sorrise sardonica.
< Daphne invece è seduta a questo tavolo e sta per invitarti ad andartene perchè la stai disturbando >
Nick si appoggió sullo schienale della sedia e incrociando le braccia le disse contrito:
< La biblioteca è di tutti. Poi se avessi saputo che eri tu non sarei certo venuto a sedermi qui >
E in effetti si maledì per non aver controllato subito chi fosse l'interlocutrice.
< Niente ti impedisce di andartene ora >
< Sembra che tu abbia finito con la tua ricerca quindi perchè non te ne vai tu, Daphne? > si infervorò. Perché doveva sempre sfidarlo in quel modo?
La divertiva così tanto comportarsi in quel modo irritante che odiava pesantemente? Immaginò che la risposta fosse affermativa, dato il sorrisino beffardo che l'accompagnava sempre quando era in sua presenza. Ma non si sarebbe mai fatto sopraffare dalle sue parole e dai suoi gesti finti e costruiti.
La bionda, di risposta, si liberó i capelli dallo chignon e li scosse.
Sapeva di avere lo sguardo del moro addosso e decise di esagerare.
< Fa proprio caldo! > e si sbottonó qualche bottone della camicia della divisa guardandolo dritto negli occhi.
Il moro arrossí e per uscire dal momento d'imbarazzo si mise a frugare nella tracolla.
Lo guardó con un'aria canzonatoria e sorrise soddisfatta di essere sempre in vantaggio rispetto a lui.
< La tua è solo un'illusione. >
Lo guardó infastidita che lui le avesse frugato fra i pensieri e strinse le labbra.
< Intendo dire che sei un'illusa se pensi che io sia un passo indietro a te > riprese il ragazzo.
Lei cercó di darsi un tono e con uno sguardo altero gli disse < Jonas, accetta la dura realtà dei fatti. >
< Ovverosia? >
Lei si alzó in piedi e gli si avvicinó. Gli prese la cravattina della divisa e gli disse con un tono fintamente melenso guardandolo dritto negli occhi < La dura realtà dei fatti è che io saró sempre un passo davanti a te perchè sto conducendo il gioco. Tu, invece, sei il nuovo arrivato. E il tuo bel faccino non è abbastanza per darti un vantaggio su di me. >
Lui la guardó infastidito e incroció le braccia.
< Jonas, ora fai ció che ti eri preposto di fare quando sei entrato qui e non disturbarmi. >
Si sedette e riaprí il libro e inizió a scrivere di nuovo facendo ben attenzione a lasciare la mente libera da ogni pensiero.
Lui prese il libro di chimica e lo aprì decidendo di studiare ignorando chi aveva davanti.
Rimasero in silenzio per un po' fino a quando Nick non sbuffó e disse < Questa materia è impossibile! >
Lei alzó lo sguardo dal suo libro e gettó un'occhiata su quello aperto davanti al ragazzo.
Sorrise beffarda e gli disse < Sei un novellino. Chimica è una materia facile, dai! >
< Tanto che tu non la frequenti nemmeno, Daphne >
< Io sono nella classe avanzata di chimica, Jonas >
Lui rise e scosse la testa.
Lei inarcó un sopracciglio e lo guardó infastidita.
< Jonas, per favore. Vai pure a chiedere in segreteria. >
< Non ho tempo da perdere in questo momento, visto che alle sei devo essere in palestra a fare il discorso per le elezioni. >
< Allora ti spiegherò io chimica, Jonas, così ti convincerai! -si alzò dalla sedia e gli si affiancò- Partiamo dal presupposto che gli atomi se si legano fra loro formano dei composti chimici... > e andó avanti a spiegargli il capitolo come se fosse la cosa piú facile del mondo, fornendogli anche degli esempi pratici esaustivi.
Lui le fece delle domande a cui lei rispose tranquillamente. La spiegazione, poi, finí e Nick la guardò incuriosito.
< Perchè sei cosí brava in chimica? >
< Diciamo che sono meglio in chimica applicata -e sogghignó- Comunque è una mia dote. >
Lui era incredulo. La biondina tutto pepe e frasi velenose che aveva cercato di corromperlo, ora, non solo si dimostrava esperta di qualcosa che non fosse il gossip, ma l'aveva persino aiutato a studiare.
Forse si era sbagliato sul suo conto, magari non si interessava a lui solo per ricevere qualcosa in cambio o per passare il tempo prendendolo in giro.
< Ora Jonas, mi dispiace ma devo andare... >
Raccolse le sue cose e prima di girare l'angolo, si voltó e gli sorrise.
"E ricorda sono sempre un passo avanti a te. Gautier 1 - Jonas 0"
No, non si era sbagliato neanche un po'.






Il giovane le fu dietro per tutto il tempo, doveva tenere d'occhio ogni suo spostamento.
La vide quando, finite le lezioni, senza farsi notare da nessuno si era diretta verso il dormitorio, la seguì di nascosto dentro il dormitorio fin su al secondo piano.
I suoi passi risuonavano più rumorosi del solito sulla moquette, avvolti nel silenzio quasi sinistro del dormitorio.
Vee si avvicinò alla porta della camera della loro compagna Peggy, lui le arrivò alle spalle e le toccò i fianchi.
La mora trattenne un urlo che avrebbe fatto tremare i muri e si girò spaurita, pronta a proteggersi con le braccia in caso di attacco; quando Vee capì che si trattava di lui, Joe vide chiaramente i suoi occhi iniettarsi di sangue e una palpebra cominciò a muoversi incontrollabilmente, come un tic nervoso.
< Che combini? > chiese semplicemente.
< Sei pazzo a sbucarmi alle spalle così?! >
Il moro fece spallucce.
< Sono venuta a cercare Peggy -rispose asettica- tu? A tormentarmi un altro po'? >
< No, solo a vedere quale altro guaio avresti combinato... >
Incrociò le braccia al petto e la guardò ghignando con un pesante strato di superbia spalmato in faccia. La ragazza avrebbe voluto cancellargli quel ghigno a suon di schiaffi, inondarlo di parole e insulti fino a che non avesse capito quanto piccolo e insulso in realtà era. Ma quello significava dimostrargli che le sue parole e suoi atteggiamenti avevano anche un infinitesimo peso per lei.
< Vattene, Camilla ti starà cercando... >
< Che mi cerchi allora. >
La mora si impietrì e avvampò dopo aver sentito che preferiva stare con lei che con la ragazza dalle parvenze primitive.
Era ancora incomprensibile come avesse il potere di farle cambiare umore in un istante, come se fosse la peggiore lunatica sul pianeta.
Era un po' come se lui fosse la sua luna e le maree dei suoi stati d'animo seguissero i suoi cambiamenti.
Infilò la chiave, che aveva preventivamente rubato dallo zainetto di Lucy a lezione, nella toppa e le fece fare un giro. In quel momento seppe che Peggy non era più tra loro. Anche se non l'aveva ancora vista, tutti i suoi sensi diedero conferma alla sua prima conclusione.
Aprì piano la porta e fece un passo in avanti: tutto era avvolto dall'oscurità, le tapparelle non erano state alzate e l'unica fonte luminosa era il modesto fascio di luce proveniente dalla porta appena aperta.
Joe allora accese la luce. Non videro nessun corpo riverso a terra, Vee guardò alla sua sinistra ma trovò solo un letto sfatto.A tutto d'un tratto si sentì toccare il braccio < Vee... >
Il giovane indicò l'altro letto e lo videro entrambi: un grumo di coperte che chiaramente ospitava ancora il corpo della ragazza, il viso era parzialmente coperto dal cuscino che quasi sicuramente le aveva dato il sonno eterno.
< Dannazione... >




 
Guardò con un'ultima occhiata intensa tutti i giovani in piedi davanti a lui. Li irradiò con il migliore dei suoi sorrisi, quelli che gli venivano solo in poche occasioni talmente ammalianti da togliere il fiato.
Ne bastava uno solo, ben piazzato, per trasmettere ai presenti la sua forza d'animo e la sua positiva ambizione. Li aveva stesi tutti, lo capì dai commenti svenevoli delle ragazze e dalle frasi d'incoraggiamento dei ragazzi presenti nelle loro menti. La palestra era al completo silenzio, ma nella sua mente era come se fosse uno stadio pieno.
Concluse il suo discorso e ringraziò i presenti per l'attenzione riservatagli, si unì agli altri candidati seduti sul fondo del palco che avevano precedentemente esposto il loro discorso per la propaganda.
Quel pomeriggio prese luogo l'ultimo decisivo discorso per le elezioni; la giusta conclusione ai giorni precedenti, in cui i candidati avevano fatto del loro meglio per auto-promuoversi e proporsi come la migliore scelta per gli elettori.
Nick aveva lavorato a lungo alla sua campagna. Ogni dettaglio era stato deciso con precisione senza che nulla fosse lasciato al caso. Infatti chiese al club di fotografia di aiutarlo a scattare la foto per i poster da appendere per i corridoi e si rivolse al suo compagno Akira, un giovane giapponese appassionato di grafica, per realizzare i volantini da far girare per le classi, aveva poi tracciato i punti salienti del discorso che aveva tenuto.
Aveva passato un paio di notti insonni, cercando un motto efficace e facile da ricordare ma il risultato ottenuto lo aveva soddisfatto parecchio, malgrado il suo essere perfezionista.
Ora non aspettava altro di vedere i risultati delle votazioni, che si sarebbero tenute la settimana seguente. Era quasi fatta.
< Grazie mille Nicholas per il tuo contributo. Un bell'applauso per Nicholas Jonas, ragazzi. > disse il sognor Vane,
prendendo il posto del riccio.
Introdusse il prossimo candidato che prese la parola titubante.
Nick mentre ascoltava il discorso del compagno si sentì un paio di occhi puntati addosso, girò allora lo sguardo verso la folla di studenti e notò tra la folla una famigliare chioma bionda e scarmigliata.
Daphne gli stava sorridendo leziosamente e lo salutò con un gesto della mano, poi se ne andò facendosi largo tra la calca.
Nick strinse forte tra le mani il cartoncino del suo discorso, quella ragazza era... incredibile. Sapeva affondargli nella carne e sconvolgergli le membra con una sola occhiat.Lo faceva in maniera cosi efficace da risvegliargli dentro il petto un fuoco ardente.
Le considerazioni di Nick furono interrotte da una ragazza che piombò inaspettatamente all'interno della palestra urlando < Hanno trovato un altro cadavere, presto accorrete! >
Si scatenò il panico.




Furono di nuovo portati di corsa nell'ufficio del vice preside.
Quella faccenda aveva dell'incredibile: nel giro di pochi giorni avevano scoperto due omicidi. Cominciavano a non sembrare più delle tragiche casualità.
Joe sperò che quella storia finisse presto, non sopportava di avere addosso la pressante attenzione del signor Vane. Gli occhi del vice preside erano di gran lunga più freddi e accusatori di quelli della figlia e non si illuminavano mai di vita, probabilmente nemmeno se stuzzicato a dovere. Di certo non avrebbe fatto nulla per scoprirlo.
< Signore può venire, per favore? > chiese la segretaria, una donna sulla quarantina e capelli biondi dalle spalle.
< Scusatemi, devo assentarmi un attimo. > disse l'uomo uscendo dall'ufficio.
Vee continuava a torturarsi le mani in preda ad un crollo nervoso.
Dava l'apparenza di essere più scossa di qualche giorno prima, infatti si era zittita da subito e non accennava a voler proferire parola, nonostante ciò aveva fronteggiato adeguatamente lo sguardo severo del padre.
O almeno così credette Joseph.
< Eri tu l'ultimo ad essertene andato dalla stanza di Peggy ieri? > chiese lei.
< Non so... >
< Pensaci bene, eri rimasto solo tu, non è vero? >
< Può essere, ma che c'entra... >
< E guarda caso questa mattina ti trovo sulle scale del dormitorio femminile, non molto lontano dal luogo del delitto... >
< Non penserai che... >
< Penso che sia molto strano. Il tuo comportamento è strano. Per non parlare del fatto che da quando sei comparso in questa scuola sono successi tutti questi fatti macabri. >
< Io? E allora tu? Come mai tu sembri essere sempre nei pressi dei luoghi dei delitti? Com'è che sembra che tu sappia cos'è successo? Mi pare tutto un po' sospetto. >
< Non rigirare la frittata, Joe. >
< Non ti permetto di fare accuse del genere senza avere delle prove! >
< Senza prove? Scommetto che se raccontassi a mio padre queste "coincidenze" arriverebbe alla mia stessa conclusione. >
Si allora irrigidì sulla sedia. Lo voleva denunciare al vice preside, mettere in pericolo il suo posto in quella scuola.
Non riuscì nemmeno ad immaginare cosa sarebbe successo se l'avessero creduto colpevole, quel posto era la sua unica possibilità di rivalsa, era il suo riscatto e non s poteva permettere di compromettere la sua situazione in nessun modo.
Doveva correre ai ripari ora che era stato messo alle strette.
< Non sono certa al 100% ma terrò gli occhi ben piantati su di te. E credimi, se verrò a scoprire che sei coinvolto in queste morti, ti pentirai di essere venuto al mondo. >
Lui smise di respirare e preso dal panico si alzò dal suo posto. Doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa per impedirle di aprire bocca.
La prese per la mano e cercò di creare un contatto visuale.
Le ordinò di guardarlo, lei obbedì, si scontrò contro il muro ghiacciato dei suoi occhi grandi.
Non sentì la solita sensazione di legame mentale che avvertiva ogni volta che soggiogava qualcuno, ma non demorse.
Le pupille gli presero fuoco, diventando di una strana sfumatura simile alla lava incandescente.
< Non sono stato io! Ti conviene smettere di crederlo. > disse lui riversando tutto il suo potere su di lei, intenzionato a piegarle la mente.
Lei si staccò violentemente dalla sua presa e si alzò in piedi,si ritrovarono a pochi centimetri l'uno dall'altra.
< Non basta un intenso sguardo da bel tenebroso per dissuadermi, caro. Indagherò su questa storia e ne verrò a capo. Farai bene a guardarti le spalle, perché renderò la tua vita un inferno. Verrai smascherato molto presto. >
Rimase sbalordito.
La ragazza lo guardò per un'ultima volta ricolma di fredda determinazione e se ne andò.
Non aveva funzionato. I suoi poteri avevano fatto un buco nell'acqua ed ora Vee girava come una mina vagante.
Incapace di reggere l'agitazione se ne andò anche lui.
Quale spiegazione poteva esserci dietro quel fallimento? Come era successo? Aveva riversato su di lei tutta l forza del suo potere che possedeva, non avrebbe dovuto fallire in quel modo.
Forse le sue capacità stavano svanendo... Ma non poteva accadere, per nessuna ragione.
Non riuscì nemmeno a concepire l'idea di poter ritornare in quella casa del terrore.
Gli si contorsero dolorosamente le budella al solo fulmineo fotogramma dello zio pronto a colpirlo.
Le guance gli bruciarono come se l'avesse colpito sul serio.
Non si accorse nemmeno che aveva preso a correre più forte che poteva, rimanendo senza fiato in corpo.
Si accasciò sul muro esterno dell'edificio cercando di riprendere il respiro, ma il terrore che pian piano cominciava a crescergli nel petto gli occluse i polmoni.
Si piegò sulle ginocchia pregando che quel dolore nel petto, sparisse presto, ma non accennava a diminuire.
L'insicurezza lo divorava da dentro, come un tarlo.
Tirò rabbiosamente un pugno sul muro di mattoni alle sue spalle.
Il dolore che provò si sommò a quello che già gli attanagliava il corpo.
Si guardò la mano sbucciata e strinse i denti rabbioso.
I cadaveri non erano nulla in confronto a quello che aveva già vissuto.
   
 
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