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Autore: RobTwili    21/03/2012    19 recensioni
Alexis sta scappando, non sa nemmeno lei da cosa. A due esami dalla Laurea in Medicina alla Stanford-Brown, decide di mollare tutto e tutti e fuggire lontano.
Attraversa l’America e approda nel Bronx.
Il sobborgo della Grande Mela non le offre un caldo benvenuto e subito si rende conto che non tutta l’America è come l’assolata Los Angeles.
Ryan ha sempre vissuto nel Bronx, sul corpo e sul cuore i segni di una vita vissuta all’insegna delle lotte tra bande e dell’assenza di una famiglia su cui poter contare.
Alexis comincia a cadere in quel vortice che Ryan crea attorno a lei. Vuole a tutti i costi salvarlo, portarlo sulla retta via; non c’è infatti qualche legge che costringe una ragazza ad aiutare chi è senza speranze?
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eagles don't gain honestly'
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YSM
 
 
L’adrenalina scorreva dentro di me e la stanchezza non voleva nemmeno lontanamente sfiorarmi. Sembrava un paradosso ma non riuscivo a dormire, non dopo tutto quello che era successo. L’immagine della gamba di Sick, ricucita dalle mie stesse mani, non ne voleva sapere di abbandonare la mia mente; perché ero stata io, proprio io, Alexis Cooper, a ricucirlo. La piccola Lexi ce l’aveva fatta, era riuscita a salvare Sick.
Ma, nonostante tutto, c’era quel maledetto mal di testa che non mi permetteva di riposare, la sensazione di essere da sola lì, a letto, in quella stanza buia e infestata dai fantasmi del passato. Dovevo smetterla di pensarci, ma non era facile. Non quando le immagini delle ultime ore continuavano a rincorrermi, ricordandomi cosa avevo abbandonato a Los Angeles, ma soprattutto perché.
Mi alzai sbuffando, dirigendomi verso il bagno per farmi una doccia perché speravo di riuscire a rilassarmi un po’, sotto il getto dell’acqua calda. Quando uscii da quella doccia che odiavo, quasi un’ora dopo, il mio corpo era ancora ricoperto dalle chiazze rosse che l’acqua calda aveva creato; avevo raccolto i capelli in una coda alta, anche se erano ancora umidi: era giugno e non avevo nessuna voglia di usare il phon, nonostante a New York non fosse caldo come a Los Angeles.
Indossai un paio di jeans e una maglia, pronta per andare a controllare le condizioni di Sick. Erano le sette e mezza di mattina e speravo che, nonostante fossi andata a letto dopo le tre, i ragazzi fossero svegli.
Bussai piano, sperando di non svegliare chi stava dormendo: ero sicura che se c’era qualcuno di sveglio in cucina mi avrebbe sentita. Infatti, pochi istanti dopo, la porta si aprì, facendomi intravedere il volto di Ryan. Si era ripulito dal sangue sul viso e sui capelli, ma potevo vedere i suoi occhi segnati da profonde occhiaie, come se non avesse dormito. Forse non l’aveva fatto, esattamente come me.
«Ciao, posso entrare?» bisbigliai, sicura che Sick fosse ancora addormentato sul divano. Ryan non rispose, richiuse la porta, togliendo il catenaccio e invitandomi poi a entrare con un gesto del capo.
La stanza era semibuia, quasi tutte le imposte erano chiuse e la luce del giorno che filtrava dalle finestre era poca e concentrata quasi tutta sul tavolo della cucina. Il salotto e i divani, con Sick sopra, erano in penombra, grazie soprattutto a una lampada accesa poco distante.
«Si è svegliato molte volte?» domandai, avvicinandomi al divano per controllare Sick: come pensavo stava ancora dormendo, riuscivo a capirlo dal suo respiro regolare e dai suoi lineamenti rilassati. Non sembrava nemmeno che stesse provando dolore, ma per sicurezza porta una mano a sfiorargli la fronte, sentendola fresca: non aveva la febbre e non era nemmeno sudato. Bene, il taglio non aveva fatto infezione.
«Abbastanza, parlava da solo di film porno, quindi credo stia bene» sbottò ironico Ryan, portandosi una mano sul fianco mentre si sedeva, lentamente, sulla sedia. Strano, mi sembrava quasi di aver scorto una smorfia sul suo viso, mentre si muoveva. Prese una sigaretta dalla tasca dei jeans, accendendosela e cominciando a fumarla, così tornai a guardare Sick, ancora addormentato. Volevo controllare la ferita, per sicurezza. Cercando di non muoverlo troppo spostai la coperta, lasciando la gamba scoperta.
La fasciatura che gli avevo fatto qualche ora prima era intatta, non era sporca di sangue e sembrava non essersi allentata, così, sfiorandolo il meno possibile, cominciai a disfarla.
«Chi cazzo rompe?» mugugnò Sick, portandosi un braccio davanti al viso perché la luce non lo infastidisse. Quel suo gesto mi intenerì: sembrava quasi un bambino alla mattina. Lo vidi sbirciare per controllare chi lo stesse infastidendo e uno strano sorriso si disegnò sul suo volto stanco e provato. «Oh ciao. Tocca dove vuoi» esordì, un po’ più lucido e quasi divertito. Sì, sembrava che Sick stesse guarendo in fretta.
«Sto controllando la ferita» specificai, attenta a non sfiorare la sua gamba: avevo dimenticato di prendere un paio di guanti sterili e non volevo aumentare il rischio di infezioni. Sembrava tutto apposto, anche i punti non sembravano aver fatto infezione, così, lentamente, ricominciai ad avvolgere la garza, tenendo la sua gamba sollevata senza però farlo affaticare.
«Cazzo, sei davvero uguale a quella del film. Però mi è venuto in mente che era James Dean che aveva fatto il film con la dottoressa, quella porca. Ma non sei tu, perché lei era bionda e aveva il culo più grande del tuo». Si sistemò meglio contro il bracciolo del divano per essere più comodo, tanto che portò un braccio dietro alla nuca, spostando la gamba perché riuscissi a medicarlo meglio. «Dimmi, Lexi, come mai questa notte ho sognato te? Mi chiedevi di raccontarti di quel film porno con Stoya». Alla sua affermazione sussultai, non sapendo che rispondere. Non era stato un sogno, ma solo il mio stupido tentativo di tenerlo sveglio mentre lo medicavo. Come potevo dirgli che non era stato un sogno? Ero sicura che se gli avessi detto la verità, la situazione sarebbe peggiorata.
«Non saprei…» mentii, sperando che qualcuno – Ryan per esempio, visto che era l’unica persona oltre a noi due presente in quella stanza – non decidesse di fare l’idiota e spifferare ai quattro venti la verità.
«Sai Sick…» cominciò infatti lui, senza però riuscire a terminare la frase, visto che Dollar e Brandon entrarono in cucina, sbadigliando rumorosamente e stiracchiandosi. Si avvicinarono a Sick, tirandogli una pacca sulla spalla e sorridendo nel vederlo sveglio; poi, senza nemmeno salutarmi, si accomodarono sull’altro divano, accendendosi una sigaretta.
«Allora? Come stai?» chiese Dollar, ammiccando verso di me. Era comico: l’occhio che gli avevo medicato la sera prima, a causa della pomata che gli avevo dato, era diventato ancora più nero, facendo risaltare il verde dei suoi occhi.
Dopo aver finito di sistemare la fasciatura di Sick, mi allontanai dal divano, evitando di ascoltare quello che si stavano dicendo: raccontavano quello che era successo la sera prima, ricordando a Sick quello che aveva fatto visto che, probabilmente a causa del dolore, i suoi ricordi erano confusi.
«Così, insomma, io mi sono preso una coltellata per Ryan?» ghignò a un certo punto, sollevandosi a fatica sul divano per cercare di guardare Ryan che era ancora seduto sulla sedia.
Mi sembrò quasi strano, visto che non commentò con nessuna battuta alla domanda di Sick, ma si limitò solo a sorridere, rimanendo seduto. Quel comportamento sorprese anche i ragazzi, che si zittirono per qualche istante, fino a quando Brandon, fingendo di andare a prendere qualcosa in frigo, si avvicinò a Ryan per chiedergli qualcosa che però non riuscii a capire, a causa degli schiamazzi di Sick e Dollar che stavano imitando non avevo ben capito chi.
Non ero riuscita a sentire cosa si erano detti inizialmente, ma sembrava che, qualsiasi cosa fosse, avesse irritato parecchio Brandon che continuava a ringhiare contro Ryan: «Devi dirle la verità». Gli puntava l’indice contro il viso, sovrastandolo, visto che era in piedi davanti a lui.
«Sta zitto, cazzo» sbottò Ryan, massaggiandosi il viso con una mano. Il suo sguardo si fermò per qualche istante su di me, per poi spostarsi su Dollar che stava ancora scherzando con Sick che non riuscivo a vedere, ma che però sentivo:  stava deridendo Dollar avrebbe dovuto vedersi con Butterfly quella sera.
«Come vuoi» tagliò corto Brandon, prendendo un contenitore di latte dal frigo e cominciando a bere senza nemmeno prendersi un bicchiere. Dovevo ricordarmi di non chiedere mai del latte a loro, se non volevo trovarmi con strane sorprese sul contenitore. «Io e Dollar andiamo a prendere le sigarette, a dopo». Brandon diede una pacca sulla spalla di Ryan che imprecò, spaventandomi.
«Cazzo, sei un coglione». Un urlo, ecco che cosa era stato. Dollar e Sick smisero di parlare, attirati dal tono di voce alto di Ryan. Vidi Sick cercare di alzarsi dal divano per poter vedere che cosa stesse succedendo, senza però riuscirci perché probabilmente i punti gli facevano male e non riusciva a muoversi molto.
«Scusa Ryan, non mi sono più ricordato che hai male…». Il ghigno sul volto di Brandon sembrava quasi schernirlo, come se volutamente gli avesse mollato quella pacca.
«Dove hai male?» chiesi istintivamente, attirata dalle parole di Brandon che finse stupore, portandosi la mano davanti alle labbra, come se avesse appena svelato un segreto inconfessabile.
«Scusami Ryan, non dovevo proprio darti quella pacca sulla spalla. Vieni Doll, andiamo a prendere le sigarette, a dopo Sick. Ciao Lexi». Ammiccò verso di me, senza che Ryan lo vedesse, e poi, assieme a Dollar, uscì, richiudendosi la porta alle spalle.
Nella stanza calò un improvviso silenzio, rotto solamente dal respiro pesante di Ryan, che aveva i pugni stretti sopra al tavolo, come se fosse arrabbiato e stesse cercando di trattenersi. Mi avvicinai a lui con calma, quasi per non spaventarlo con movimenti bruschi e, una volta giuntagli davanti, tornai a ripetere la mia domanda: «Dove ti fa male?». Speravo che non facesse lo stupido come il suo solito, rispondendomi che non aveva male da nessuna parte e che non era nulla. Sapevo che quella sarebbe stata una bugia; un dolore avrebbe spiegato il suo strano comportamento di quella mattina, il suo rimanere sempre seduto sulla sedia senza intervenire troppo durante i nostri discorsi.
«Non è niente» sbottò, rimanendo comunque seduto. Non mi stava nemmeno guardando, il suo sguardo era fisso alla finestra che lasciava entrare un po’ di luce. Sentii un movimento provenire dal divano: probabilmente era Sick che cercava di vedere che cosa stesse succedendo, senza però riuscirci.
«Posso dirlo io, visto che sono un medico?» domandai, senza attendere veramente una risposta. Mi aspettavo piuttosto un suo sbuffo infastidito e poi il suo spiegarmi dove aveva male, invece Ryan si degnò solamente di spostare il suo sguardo su di me, ironico.
«Mi sembrava avessi detto che non eri un medico, poche ore fa». Quel ghigno mi urtò i nervi, tanto che strinsi i pugni tenendo le braccia tese contro i fianchi e cercai di respirare lentamente per non rispondergli a tono.
«Cosa? Non sei un medico? E chi cazzo mi ha cucito la gamba, una pornostar?» strillò Sick, cercando di attirare l’attenzione su di lui, nonostante non potessimo vederlo. Non lo ascoltai nemmeno, arrabbiata com’ero con Ryan che non voleva dirmi cosa lo facesse stare male.
«Non posso operare, ma so curare» puntualizzai, ancora in attesa di un suo movimento. Che avesse male a una gamba, visto che era rimasto seduto tutto il tempo? No, non poteva essere, mi aveva aperto la porta e poi si era andato a sedere, senza zoppicare. Doveva essere qualcosa che faceva male muovendosi troppo, qualcosa che…
«Che due coglioni, Brandon è una testa di cazzo. Non è niente, mi fa male qui». Si indicò all’altezza delle coste, sul lato sinistro del corpo. Coste, poteva anche essersene rotta una o più, visto che aveva lottato la sera prima. Ricordando lo zigomo di Brandon capii che la situazione poteva essere molto più seria di quello che Ryan voleva farmi credere.
«Fammi vedere, potresti esserti rotto o inclinato qualche costa» cercai di spiegargli, avvicinandomi di un passo a lui per guardare meglio.
Ryan alzò gli occhi al soffitto, prima di spostare la sedia e alzarsi in piedi sbuffando, per rimarcare che non gli faceva piacere che lo visitassi. Non piaceva nemmeno a me farlo, ma non volevo rimanere con il dubbio di Ryan con una costa rotta. Non appena rimase immobile davanti a me, con le braccia lungo i fianchi, alzai lo sguardo per incontrare il suo, parecchi centimetri più su.
«Qualcuno mi può spiegare che succede?» si lamentò Sick, cercando di attirare l’attenzione su di lui, ancora disteso sul divano e incapace di vederci. Non risposi, guardando Ryan che aspettava una mia mossa.
«Devi toglierti la maglia». Con un gesto stupido indicai la maglietta blu che portava. Come potevo visitarlo e capire se aveva una costa rotta con la maglia? Ryan sembrò infastidito, ma obbedì, gemendo per il dolore quando cominciò a sfilarsela lentamente.
«Perché deve togliersi la maglia? Che cosa state facendo?». Di nuovo Sick, che chiedeva spiegazioni senza essere nemmeno ascoltato. Un po’ mi dispiaceva, ma non riuscivo a rispondergli, non con il corpo di Ryan mezzo nudo davanti.
Il suo torace era ricoperto da diversi tatuaggi, il più grande raffigurava un’aquila ad ali spiegate che stringeva una bandiera americana, disegnato proprio sopra al cuore. Lungo le braccia c’erano altri tatuaggi che non avevo mai notato, come quello sul bicipite sinistro con un albero e un bambino, chiaro riferimento a The giving tree, una storia che conoscevo molto bene. A contornare quei disegni c’erano cicatrici più o meno grandi, alcune più rosse –quindi più recenti – e altre più vecchie. Spostai lo sguardo sul suo fianco, all’altezza del punto che aveva segnato sopra alla maglia: c’era un grande ematoma scuro che mi fece rabbrividire. Poteva indicare due cose: o si era inclinato una costa o se l’era rotta.
«Adesso ti tasto un po’, se ti fa male dimmelo» mormorai, schiarendomi la voce e spostandomi nervosamente un ciuffo di capelli dal viso. Non appena sfiorai con i polpastrelli la sua pelle liscia, Ryan rabbrividì, gemendo. «Ti ho fatto male?» domandai preoccupata, alzando il viso per guardarlo.
«Hai le mani gelate, cazzo» sibilò, ammonendomi con lo sguardo e accigliandosi. Stavo per ribattere, con molta ironia, che stavo proprio per scusarmi a causa delle mie mani fredde, ma Sick parlò di nuovo.
«Che cosa sta succedendo? Perché l’hai fatto spogliare e adesso lui ha detto che hai le mani fredde? Ragazzi, se state facendo qualcosa di porno voglio vedere anche io, perché potrei risparmiare tutti i soldi dell’abbonamento della TV via cavo, anzi, se volete avvicinarvi un po’ a me…» propose, mentre lo sentivo muoversi nel divano.
Quando capii il disguido che c’era stato con Sick cominciai a ridere  nervosamente, portandomi una mano davanti alle labbra per non ghignare troppo rumorosamente. Ryan però non riuscì a trattenersi e mi seguì, appoggiandosi al tavolo con entrambe le mani, probabilmente perché gli faceva male la costa.
«Che c’è? Qualche posizione strana che fa ridere? Ditemi, che sono in ansia». Una nota isterica nella voce proveniente dal divano che mi fece ridere ancora più forte. Sick era assolutamente una persona pazza  e, forse, addirittura la più malata di sesso che io avessi mai conosciuto. Il sesso era il suo unico pensiero fisso. E lo dimostrava anche con una gamba suturata con più di venti punti.
«Girati, devo vedere anche dietro» mormorai, indietreggiando di un passo e cercando di ritornare seria senza prestare attenzione a Sick, che continuava a chiedere cosa stesse succedendo, avido di particolari piccanti.
Quando Ryan mi diede le spalle, trattenni il respiro per la sorpresa: se ero rimasta stupita dall’aquila che c’era tatuata sopra al cuore, non potevo non esserlo per quella che gli decorava la schiena. Era talmente grande che partiva dalle scapole e arrivava fino alla vita. Un’aquila appollaiata su un ramo, con la bandiera americana avvolta attorno al corpo. Di nuovo un’aquila. Eagle.
Cercai di non guardare nemmeno le due profonde cicatrici che c’erano all’altezza della vita, sicura che se le fosse procurate durante qualche rissa. La mia attenzione si soffermò però su una cicatrice a forma di cerchio, poco sotto la scapola destra. Istintivamente alzai il braccio per sfiorarla, alzandomi in punta di piedi per controllare meglio. Sembrava… sembrava una cicatrice dovuta a un colpo d’arma da fuoco.
«Allora?» domandò Ryan, inarcando leggermente la schiena perché non sfiorassi ancora la cicatrice. Si voltò appena con il viso, per guardarmi e io abbassai lo sguardo, imbarazzata. Mi sembrava di essere stata scoperta durante una marachella, come se non avessi dovuto guardare. In verità era una cosa stupida vergognarsi, ma sapevo che Ryan mi aveva chiesto – perché costretto  – di controllare solo il suo fianco.
«Perché gli hai chiesto di farti vedere il culo? Sono sempre stato convinto che Ryan fosse fornito». Alla domanda di Sick sussultai spaventata: mi ero dimenticata che c’era anche lui, ma non mi degnai di rispondergli ancora una volta, impegnata com’ero a guardare il fianco di Ryan, marchiato da una botta nera.
«Se ti fa male dimmelo, cercherò di fare piano» mormorai, portando le mani una davanti e una dietro il suo fianco e premendo appena per sentire se ci fosse qualche costa rotta.
«Cazzo» si lamentò subito Ryan, non appena lo sfiorai. Forse la situazione era molto più seria, magari si era davvero rotto qualche costa e non solo incrinata.
«Ryan, andiamo, resisti! Non fare brutta figura proprio con me davanti! Forza Lexi, fammi sentire cosa è capace di fare una californiana». Non l’avevo nemmeno ascoltato, ma Ryan probabilmente sì, perché esplose, appoggiandosi contro al tavolo a causa del dolore.
«Chiudi quella cazzo di bocca, Sick. Sta guardando se ho qualche costa rotta» ribatté, talmente arrabbiato che mi spaventai e tolsi le mani dal suo busto.
Sick non rispose, non sentivo nemmeno il suo respiro, probabilmente si era reso conto del suo errore e non aveva nemmeno il coraggio di parlare per scusarsi.
«Prova a tossire, se ti fa male probabilmente c’è qualcosa» spiegai a Ryan, portando di nuovo le mani all’altezza del fianco e premendo un po’ di più. Sapevo che, di sicuro, gli avrebbe fatto male, ma dovevo capire se c’era solo una costa incrinata o se si era rotto qualcosa. Quando Ryan tossì, fortunatamente, non riuscii a sentire niente spostarsi, quindi non c’era niente di rotto. «Ti fa male?» domandai, allentando un po’ la pressione delle mie dita.
«Sì, cazzo» sibilò lui, digrignando i denti per il dolore e stringendo i pugni lungo i fianchi. Cercava di non far vedere quanto stesse soffrendo, anche se in verità la costa gli doleva molto.
«Non hai coste rotte, credo ce ne sia solamente una di incrinata, questa la senti?». Premetti un po’ di più, all’altezza della botta nera che c’era sul suo fianco. Ryan gemette, inarcandosi sotto le mie mani.
«Sì cazzo, la sento, smettila di farmi male» grugnì, facendomi ridere. Sembrava improvvisamente che il grande e grosso Ryan avesse male, così male da dimostrarsi debole per una volta. Era sbagliato e antiprofessionale ed ero quasi sicura che se avessi fatto una cosa così dentro all’ospedale avrebbero anche potuto togliermi dall’albo dei medici, ma io nemmeno ero iscritta e la situazione non si sarebbe ripetuta presto.
«Devo controllare meglio» borbottai, cercando di non ridere. Schiacciai un po’ più forte il suo fianco, sentendo di nuovo i muscoli della sua schiena tendersi e un lamento che faticò a trattenere. Non c’era bisogno di controllare, ma mi aveva presa in giro talmente tante volte che non mi sentivo nemmeno in colpa per quello che stavo facendo. «Sì» finsi, schiacciando un’ultima volta, «credo proprio che non sia rotta ma solamente incrinata. Devi stare a riposo ed evitare risse per qualche settimana, Ryan. Dovrei anche fasciarti, se vuoi guarire prima». Stavo già camminando verso la porta per andare a prendere l’occorrente, senza che Ryan mi dicesse che voleva guarire il prima possibile. Ero quasi sicura che picchiare per lui fosse importante tanto quanto respirare; forse di più, vista la frequenza con cui l’avevo visto con il volto ricoperto da lividi.
Dopo aver preso una garza e qualche cerotto, tornai nel loro appartamento, trovando Ryan esattamente nello stesso punto in cui era pochi minuti prima; non avevo controllato, ma sicuramente Sick era ancora disteso sul divano, sbuffante perché non riusciva a vedere che cosa stesse succedendo.
«Devo stringerla per tenere fermo il busto, ma tu devi riuscire a respirare, ok?». Iniziai ad avvolgere la fascia attorno al suo busto, girandogli intorno per non farlo muovere: l’avevo torturato anche troppo. Terminai di sistemargli la garza, fermandola con un cerotto e assicurandomi che non fosse troppo stretta. «Ti dà fastidio?» domandai, alzando lo sguardo per accertarmi che non mi stesse mentendo per farsi vedere forte.
«No». Cercò di muoversi, per capire quanto gli dolesse la costa, ma sembrava abbastanza soddisfatto, fino a quando non prese tra le mani la maglia, per potersi rivestire: la fasciatura gli impediva di alzare troppo il braccio e non riusciva a infilarsi la t-shirt.
«Aspetta, siediti che così ti aiuto» proposi, prendendo la maglia dalle sue mani e indicandogli la sedia. Ryan si sedette senza protestare, rimanendo in silenzio mentre aspettavo che infilasse un braccio dentro alla manica della maglia e lo aiutavo a infilare l’altro. Ci trovarono così, Dollar e Brandon, quando rientrarono: sentii la porta aprirsi, lasciando subito dopo spazio a uno scoppio di risa che mi fece voltare verso di loro, incuriosita. Brandon e Dollar ci stavano additando, mentre cercavano di parlarsi, tra una risata e l’altra.
«Che-che cosa è successo, qui dentro?» domandò Dollar, appoggiandosi alla spalla di Brandon per non cadere. Sembrava avessero visto qualcosa di divertente, perché non li avevo mai visti ridere così.
«Cosa succede?». Di nuovo Sick, che si faceva sentire ancora, dopo interminabili – per lui –momenti di silenzio.
«Alexis sta rivestendo Ryan, come se fosse un bambino. Il nostro piccolo Ryanuccio» commentò sarcastico Brandon, mentre Ryan prendeva l’accendino che c’era sopra al tavolo e lo scagliava verso di lui in un chiaro invito a smettere di prenderlo in giro.
«Cazzo, lo sapevo. Hanno fatto sesso a pochi metri da me, ragazzi siete stati troppo poco rumorosi» si lamentò Sick, irritandomi. Quante volte dovevamo dirgli che non avevamo fatto sesso ma che lo stavo semplicemente medicando?
«Sick, cavolo! Ha una costa inclinata, non ho fatto sesso con lui» sbraitai, fuori di me. Speravo che, sentendo la mia voce potesse capire che non era successo niente. Mi ero anche avvicinata a lui perché potesse guardarmi in viso: ero io, senza capelli arruffati, viso arrossato o altri segni di attività fisica.
«Sì… come volete». Sick mi stava semplicemente dando ragione per zittirmi, per questo decisi di non continuare, sicura che non avrebbe cambiato idea per nessuna ragione al mondo. Ecco una nuova qualità di Sick, da aggiungere alla lista dopo malato di sesso e volgare: testardo, come un mulo.
«Andiamo a trovarti questo lavoro. Brandon, vieni con me. Tu, Dollar, ascolterai tutto quello che ti dice di fare Sick e lo farai fare agli altri, comanda lui, d’accordo?» ordinò Ryan, con tutta l’intenzione di chiudere il discorso che aveva cominciato Sick. Dollar annuì, avvicinandosi al divano con Sick disteso sopra e sedendosi di fianco a lui, in attesa di ordini. «Muovetevi». Ryan guardò prima me e dopo Brandon, indicando la porta con un gesto del capo.
Dovevamo uscire in quel momento per andare a cercarmi un lavoro? Brandon si avvicinò alla porta senza dire una parola e decisi di seguire il suo esempio, prima di sentire Ryan ringhiare qualche ordine per costringermi a seguirlo. Volevano trovarmi un lavoro? Bene, sfida accettata.
«Dove andiamo?» chiesi, una volta usciti dallo stabile. Nessuno dei due mi rispose, voltarono solamente a destra, in direzione di Randall Ave. Con un ghigno soddisfatto mi preparai a fare la mia battuta in tono saccente, ricordandogli che il MoGridder era solamente un camioncino, ma, con mia grande sorpresa, svoltarono a sinistra, nella direzione opposta. Nessuno dei due parlava, camminavano fianco a fianco, fumando, senza pensare di rallentare il passo per evitare che corressi: non riuscivo infatti a rimanere di fianco a loro.
«Questo è il Phoenix. Tu lavorerai qui. È vicino a casa e non ci sono Misfitous da queste parti» spiegò Ryan, indicando una porta di vetro ricoperta da fogli di giornale. Posto allettante, insomma, visto che nemmeno riuscivo a vederci dentro.
«Forse dovrei prima fare un colloquio, no?». Non ne ero sicura, ma di solito anche per fare le cameriere ci voleva un minimo di esperienza, che io non avevo.
«John è un nostro amico» mi spiegò pazientemente Brandon, mentre Ryan entrava nel locale, senza nemmeno tenere la porta aperta per farmi entrare. Riuscii a non prendere la maniglia sullo stomaco grazie a Brandon che allungò il braccio, tenendola aperta. Bene, come inizio non era per niente male.
«Lei è Alexis e lavorerà qui» esordì Ryan, indicandomi. Gli occhi di tutti i presenti si posarono su di me, mentre un silenzio imbarazzante calava nel piccolo locale.
«Ryan, io… noi non abbiamo bisogno di cameriere» squittì un ometto piccolo e magro. Sembrava quello che più – secondo la mia idea – si avvicinava a una persona viscida. Le voci cominciarono a borbottare, indicando prima Ryan e poi me. Mi sentivo al centro dell’attenzione, proprio l’ultimo posto in cui volevo stare; cercai perciò di nascondermi dietro a Brandon, che mi sorrise per tranquillizzarmi.
«Lei si chiama Alexis e lavorerà qui» ribatté Ryan, con la voce che di solito usava per dare ordini ai ragazzi. L’omino indietreggiò, tamponandosi, con lo straccio che aveva in mano, la fronte imperlata di sudore e diventando, se possibile, ancora più piccolo. Incrociò il mio sguardo, quasi disprezzandomi, poi si rivolse a Ryan che sembrava quasi stanco di rimanere in quel posto.
«Se lavora qui i nostri patti cambiano?». Il suo tono di voce sembrava davvero uno squittio in confronto a quello di Ryan, così roco e basso. Cercai di avvicinarmi a loro, per farmi conoscere  da quel nuovo e strano capo che sembrava provare antipatia per me, nonostante non mi avesse mai parlato, così, per sembrare un po’ più simpatica e disposta a lavorare per lui, sorrisi, cercando di risultare il più naturale possibile.
«No, lei lavorerà per te e non cambierà niente» tagliò corto Ryan, dando le spalle al barista e uscendo poco dopo, seguito da Brandon. Non sapevo quando avrei cominciato e soprattutto se dovevo solamente servire un paio di birre al tavolo.
«Buongiorno, mi chiamo Alexis, come ha detto Ryan». Tesi il braccio per sembrare più professionale presentandomi  con una stretta di mano, ma l’omino, che sembrava tanto spaventato da Ryan, cambiò improvvisamente sguardo, spaventandomi.
«Mi chiamo John. Lavorerai qui tutti i giorni, per dieci ore. Non mi interessa quali turni farai, c’è sempre bisogno. La paga non è garantita ogni mese, e non voglio che Ryan sappia questa cosa. Quando avrò i soldi, te li darò. Non fare domande e non istigare risse tra i clienti. Se vogliono ubriacarsi lasciali fare. Una sola domanda, di chi sei la Signora?» concluse, lanciandomi addosso, in malo modo, un grembiule macchiato di birra e vino. Il mio sguardo doveva esprimere tutta la mia confusione; dov’era andato l’uomo spaventato che squittiva a ogni ordine dato da Ryan? Perché si era trasformato in un autoritario e stronzo che avrei volentieri preso a pugni?
«No, sono la loro vicina» spiegai, ricordando che una volta avevo sentito Ryan parlare di Butterfly e dire che lei si sentiva una Signora, pur non essendolo. Quindi, il mio nuovo capo, mi stava accusando di andare a letto con qualcuno degli Eagles?
«Sì, la loro vicina, certo. Di chi sei la Signora? Non li ho mai visti così verso qualcuno» rimbeccò, tamburellando impaziente con le dita sul bancone. Non sapevo se mettermi a ridere o se spiegargli, ancora una volta, che non ero la Signora di nessuno, ma semplicemente la loro vicina. Mi soffermai a guardarlo in viso, in quegli occhi chiari che non avevano niente di rassicurante; i capelli neri, decisamente sporchi, erano appiattiti lungo la fronte e le tempie, arrivando a sfiorare le sopracciglia folte.
«Sono la loro vicina, mi hanno solamente aiutata a trovare lavoro. Un favore, ecco». Così doveva essere più chiaro per lui, visto che avevo specificato che Ryan mi aveva condotta al Phoenix solo perché gli avevo fatto un favore. John però non sembrò soddisfatto, perché sbuffò, ghignando in modo quasi maligno.
«Gli Eagles non fanno favori a nessuno, si fanno pagare per tutto. Se tu sei la loro vicina, dove abiti?» si informò, cominciando a riempire di birra dei boccali e indicandomi il lavello poco distante, pieno di bicchieri sporchi. Cominciai a risciacquarne un paio, sotto al suo sguardo indagatore. Non volevo rispondere perché non riuscivo a capire perché avrebbe dovuto cambiare idea sapendo il mio indirizzo; era pur sempre il mio nuovo capo e quindi non potevo fare brutta figura.
«Abito nello stesso palazzo di Ryan e dei ragazzi, sono all’interno C». In fin dei conti Ryan mi aveva fatto capire che John era uno degli Eagles, forse non un Hard-Cores, ma uno di quelli che si dichiarava Eagles per protezione: un Perhiperal, probabilmente.
«Bene. Allora se è vero che non sei la Signora di nessuno, se vengo a sapere che hai detto a Ryan o a qualche altro che non ti pagherò ogni mese o altro, sappi che ti licenzierò, e non potrò più riassumerti, visto che sarò morto. Tu stai zitta e fingi di prendere lo stipendio ogni mese e noi ci facciamo vedere tutti contenti ogni volta che un Eagle entra da quella porta, intesi?». Mi guardò con uno sguardo che mi spaventò e mi ritrovai ad annuire prima ancora di rendermene conto.
John non era un omino impaurito che non sapeva che fare; lui aveva solo paura di Ryan, ma aveva trovato lo stesso il modo per minacciarmi. Ok, non mi avrebbe pagata regolarmente, ma con i soldi che mi ero portata da casa potevo pagarmi i primi due mesi di affitto, poi mi avrebbe pagata e sarei riuscita comunque a mettere da parte un po’ di soldi. In fin dei conti il mio stile di vita non era così costoso, solo qualche libro ogni tanto oltre alla spesa.
«Finirai il turno stasera alle sette. Non un minuto prima» specificò, prima di andare da due ragazzi, seduti ad un tavolo lì vicino, e cominciare a parlare, probabilmente di me: continuavano a indicarmi e a sogghignare, come se avessi qualcosa fuori posto. Cercai di sistemarmi i capelli, lisciando anche le pieghe di quell’uniforme sudicia di birra che mi aveva dato qualche minuto prima, ma le loro risate non terminarono fino a quando, un paio di ore dopo, uscirono dal locale, salutando John con una pacca sulla spalla.
Il tempo dentro al Phoenix sembrava non trascorrere mai, era come ripetere le stesse azioni di continuo: prendere nota del numero delle birre, correre a spinarle, portarle al tavolo e ritornare al lavello con dei bicchieri sporchi da lavare. Per questo, quando il grande orologio appeso al muro annunciò che erano le sette di sera, sospirai sollevata: era il mio primo giorno di lavoro e mi ero impegnata al massimo per non fare disastri, sapere che ci ero riuscita mi sollevava il morale.
«John, io… io avrei finito il turno» bofonchiai, avvicinandomi a lui, mentre scherzava, sorridente, con Aria, l’altra cameriera. Avevo provato a parlarci e sembrava anche simpatica, quando però, dopo che mi aveva chiesto come ero stata assunta al Phoenix, le avevo spiegato che ero la vicina dei ragazzi, si era leggermente alterata e non mi aveva più parlato. Un po’ mi dispiaceva, visto che sembrava simpatica.
«Vattene» sbottò John, girandomi le spalle e ricominciando a parlare con Aria. Lei mi sorrise, facendo un gesto con la mano per salutarmi; almeno, dentro quel buco di locale, c’era qualcuno gentile.
Appesi il grembiule con la piccola fenice disegnata sulla tasca anteriore all’attaccapanni vicino al retro del locale e uscii, respirando l’aria fresca di New York, come avessi trattenuto il respiro per ore: dentro a quel locale, infatti, c’era una puzza di fumo che raggiungeva i livelli del salone dell’appartamento di Ryan. A quel pensiero cominciai a camminare verso casa lentamente; ero così stanca che ogni passo mi costava sempre più fatica e non vedevo l’ora di arrivare in camera mia per poter dormire un po’, visto che quella notte, a causa della gamba di Sick e dei fantasmi del passato, non ero riuscita a dormire nemmeno per dieci minuti.
Salii le scale per arrivare al mio appartamento quasi strisciando i piedi a causa della stanchezza, continuavo a rallentare il passo, sicura che non sarei riuscita ad arrivare nemmeno al divano, provata com’ero. Presi le chiavi dalla borsa per aprire la porta, ma mi accorsi che era socchiusa.
Strano, ero sicura di aver chiuso la porta quella mattina, prima di andare a medicare Sick, e l’avevo richiusa anche quando ero ritornata a prendere la benda per Ryan. Che fossero stati i ragazzi? Magari erano entrati perché gli serviva qualcosa e non l’avevano richiusa; in fin dei conti quando Sick e Dollar avevano fatto la spesa per me, erano entrati in casa scassinando la porta e poi richiudendola, forse si erano semplicemente dimenticati di farlo.
Aprii l’uscio, sgranando gli occhi per la sorpresa: la casa era sottosopra. Le ante dei mobili della cucina erano tutte aperte e c’erano alcune confezioni di cibo per terra. No, così non funzionava. Volevano prendere il sale, lo zucchero o qualsiasi altra cosa dal mio appartamento? Bene, se non ero in casa e ne avevano un disperato bisogno potevano farlo, ma la casa dovevano lasciarla in ordine e la porta doveva rimanere chiusa.
Arrabbiata, camminai a grandi passi verso il 3B, cominciando a bussare furiosamente. Non mi interessava se stavano dormendo, mangiando o qualsiasi altra cosa: mi avrebbero ascoltata e si sarebbero resi conto che il loro comportamento era da maleducati.
«Che c’è, lentiggini?» domandò Ryan, ghignando quando si accorse che ero io. Non lo salutai nemmeno, avanzai, scostandolo per entrare in casa e far in modo che tutti potessero sentirmi.
«Se entrate in casa mia almeno non lasciate la porta aperta e soprattutto non distruggetemi casa. Prendete quello che dovete prendere e poi andatevene. Mi ci vorrà tutta la sera per mettere a posto quel disastro, dannazione». Presi un respiro profondo per calmarmi e guardai Dollar e Brandon, in piedi in mezzo alla cucina. Mi osservarono per qualche secondo stupiti e confusi, poi, dopo aver scambiato qualche parola tra di loro, Brandon si avvicinò a Ryan, senza smettere di lanciarmi strane occhiate.
«Ryan, nessuno di noi è entrato in casa sua».

 
 
 
 
Salve ragazze!
Allora, ecco qui il nuovo capitolo.
Intanto mi scuso per le note assenti del precedente, ma avevo pubblicato davvero di frettissima. Riguardo a quel capitolo ci tenevo a dire che non sono un medico e quindi, nonostante abbia fatto ricerche, spero perdonerete eventuali errori. So però che di solito una ferita all'arteria femorale causa la morte per dissanguamento, per questo Lexi era sollevata nel vedere che tutto era apposto e c'era solo una ferita profonda.
Per quanto riguarda Ryan e il suo chiamare 'topo' il malcapitato che viene derubato da loro... quello l'ho inventato di sana pianta, mi serviva qualcosa che potesse far capire quanto si sentiva in trappola il malcapitato.
In questo capitolo invece... ancora una volta, non sono un medico (non ho acquistato nessuna Laurea in Medicina da una settimana all'altra e mai lo farò) e quindi le mie informazioni si basano solo su Internet e qualche corso di Anatomia. So però che le coste sono soggette a fratture durante le lotte e che un metodo per capire se è rotta è quello di tossire o far girare il busto (se la frattura è scomposta la costa rotta si muove in direzione contraria).
Il Phoenix nel Bronx non esiste, mi serviva un locale sotto la giurisdizione degli Eagles e non ho cercato nessun locale, l'ho inventato, in ogni caso credo non sia poi così difficile l'esistenza, visto che è un normale e sudicio pub.
Come al solito vi ringrazio per le bellissime parole che spendete per questa storia ogni volta e vi ringrazio per inserire Ryan e Lexi tra i preferiti/seguiti e da ricoradare. E grazie anche alle coraggiose che hanno inserito questa pazza tra gli autori preferiti.
Per quanto riguarda lo spoiler di Dollar che avevo inserito nel gruppo... mi scuso, ma non c'è stato in questo capitolo, o sarebbe risultato ancora più luuuungo e pesante. Poco male, uno spoiler in più del capitolo 8! :)
Vi ricordo che se volete iscrivervi al gruppo spoiler, lo trovate qui: Nerds' corner. E' gratis e non vi chiedo codici IBAN.
Alla prossima settimana.
Un bacione!

 


   
 
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