It's the story of my life
Titolo: [ Special Chapter ]
It's the story of my life
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[
10727 parole fiumidiparole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Tabella/Prompt: Animali
› 05. Tartaruga
Genere: Generale,
Sentimentale,
Fluff,
Malinconico
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai,
What if?, Spoiler!, Narrazione al presente, Prima parte raccontata da
un bambino di cinque anni
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
Sono
seduto sul tappeto, tra pupazzi e macchinine, e sulle
gambe ho il mio orsetto, ma mi annoio un po’.
Mi
giro verso il tavolo, dove ‘Ka-san è seduto da
tanto.
Ha
il volto concentrato, mentre la penna che ha in mano va veloce sui
fogli che ha
davanti.
Ormai
è sempre così. Io
gioco da solo e lui lavora.
Mi
mancano quelle volte in cui giocavamo insieme con ‘To-san.
Prima
era tutto diverso.
Quando
gli chiedo perché, ‘Ka-san dice sempre che sono
piccolo per capire bene.
Ma
ho quasi cinque anni, non sono piccolo!
Non
mi dice mai niente.
Anzi,
è raro che parli, certe volte.
Si
siede lì e lavora per ore, concentrato ma triste.
Forse
è perché ‘To-san non
c’è.
Sbuffo
un po’, prendo l’orsetto fra le braccia e corro
verso il tavolo.
«‘Ka-san?» lo chiamo,
tirandogli poi l’orlo della camicia.
Si
gira appena, sistemandosi quei così che chiama occhiali sul
naso prima di
guardarmi con quegli occhi scuri scuri.
Ogni
volta che li vedo, mi sembra di osservare il cielo durante la notte.
Sono
belli, però, mi piacciono.
Anche
se a volte mi fanno un po’ paura.
Mi
arrampico sulla sedia libera, poggiando le braccia sul bordo del tavolo
pieno
di carte.
Curioso,
‘Ka-san solleva un sopracciglio fino. Metto
la testa di lato, imbronciandomi.
«Vuoi
giocare con me ‘Ka-san?»
gli chiedo, abbandonando l’orsacchiotto su uno dei suoi
fogli.
Mi
sorride ancora un po’ triste, allungando una mano per
scompigliarmi i capelli,
rimediandoci da me un piccolo sbuffo contrariato.
Lo
sa che mi da fastidio, ma lo fa sempre.
«Ho
del lavoro arretrato, Jaz», mormora, con la voce dolce che
usava con ‘To-san. «Scusami davvero
piccolo». Dice
sempre così.
Ogni
sera.
Si
mette lì dopo mangiato e lavora.
Non
è giusto, però.
Mi
imbroncio ancora, cercando di farlo sentire in colpa.
«Ma
io mi annoio...»
borbotto, ricevendo un altro suo sguardo scuro.
Sospira.
Quel
sospiro che fa sempre quando non sa che fare.
Lo
vedo abbassare la penna per lasciarla poi sulle carte, su cui vedo
appena uno
di quei disegni che mi piacciono tanto.
Si
scompiglia poi i capelli neri, lasciando la fronte scoperta prima di
togliersi
gli occhiali.
Mormora
qualcosa a bassa voce, e io non lo sento.
E’
una di quelle rare volte in cui parlotta da solo, dicendosi
chissà cosa.
Lo
lascio fare, finché non mi guarda di nuovo.
«Ti
annoi davvero tanto?»
mi chiede, e il suo tono mi sembra quasi dispiaciuto.
Annuisco,
vedendo che si alza per venire più vicino a me.
Istintivamente
allungo le braccia verso di lui, sentendo poi le sue prendermi per
fianchi
prima di mettermi in piedi sulla sedia e prendermi in braccio.
Strofino
il viso contro la sua spalla, sentendola calda.
Anche
se è estate, come dice lui, è piacevole.
Anche
le volte in cui mi prende in braccio sono rare, e quando posso me le
godo.
«Scusami,
Jaz»,
mi dice ancora, baciandomi la testa. «In questo periodo sono
stato occupato e
non mi sono preoccupato molto di te. Sono una pessima mamma».
Lo
dice con un tono che sembra voler far ridere, ma lo guardo triste.
E’
vero che è sempre stato a lavoro.
Ma
non è una pessima mamma, anche se non
capisco bene cosa vuol dire.
E
anche il suo viso è triste.
Gli
butto le braccia al collo, scuotendo piano la testa contro di lui.
«Non
è vero, ‘Ka-san»,
dico piano, come per rassicurarlo. «Io ti voglio
bene».
Ride
un po’, leggero e silenzioso come fanno sempre lui e
‘To-san.
Mi
bacia di nuovo i capelli, prendendomi meglio in braccio prima di
incamminarsi
insieme a me verso il soggiorno della casa nuova.
«Ti
voglio bene anche io»,
dice sottovoce, chinandosi appena per prendere uno dei pupazzi che ho
lasciato
in giro.
Me
lo porge, e lo stringo a me poggiando la testa contro il suo petto.
Sento
il cuore che batte, quasi cullandomi.
Se
chiudo gli occhi mi addormento, sono sicuro.
Li
chiudo però lo stesso, sentendo la mano di ‘Ka-san
poggiarsi sulla mia testa
per accarezzarmi i capelli.
Lenta
e calda, come le ninna nanne che mi canta la sera.
Comincia
lui stesso a coccolarmi, forse per farmi addormentare.
Mi
piace quando fa così.
Mi
ricorda prima, quando stavo nel lettone con lui e ‘To-san.
Il
caldo delle lenzuola e le loro voci.
I
giochi che facevamo ogni tanto.
I
momenti che passavano con me.
Adesso
invece dormo da solo.
‘Ka-san
mi fa dormire con lui solo quando faccio brutti sogni.
Non
so perché. Prima
che andassimo alla casa nuova dormivamo insieme.
Mi
diceva paroline dolci all’orecchio e mi stringeva fra le sue
braccia, dicendo
che avremmo chiamato ‘To-san il giorno dopo.
E
manteneva la promessa, giocando poi con me.
Ora
lo chiama poco e lo vediamo poche volte.
Ho
provato a chiedere anche questo, ma la risposta non cambia mai.
Sono
piccolo, ma io non mi sento bambino a volte.
Però
‘Ka-san insiste.
E
la smetto di domandarlo solo quando vedo i suoi occhi scuri
intristirsi.
Allora
gli do un bacio sulla guancia e prendo il libro di ‘To-san.
Quello
è l’unica cosa che mi distrae un po’.
Sento
‘Ka-san che continua ad accarezzarmi la testa, mentre il
rumore dei suoi passi
riempie il silenzio.
Non
parla, come sempre.
Ma
sospira.
Alzo
la testa e le palpebre, vedendo appena il suo viso.
Le
labbra sottili sono all’ingiù, imbronciate.
«‘Ka-san?» lo chiamo di
nuovo, e lui abbassa lo sguardo, sorridendomi un pochino.
Ma
vedo ancora la tristezza.
Siamo
in corridoio, adesso, forse per andare nella mia cameretta.
«Dimmi, piccolo»,
dice ancora piano.
Gonfio
un po’ le guance per come mi ha chiamato, però non
gli dico niente e non mi
arrabbio come faccio di solito.
Mi
accoccolo solo contro il suo petto ancora una volta, aggrappandomi con
una mano
alla sua camicia mentre abbraccio il mio pupazzetto.
«Perché
sei triste?»
gli chiedo, sentendo un battito in più.
Mi
carezza i capelli, riprendendo a camminare.
«Non
sono triste»,
mi risponde, ma la voce mi sembra strana. «Sono solo un
pochino stanco».
«Allora
perché lavori, se sei stanco?» gli faccio
un’altra domanda, e lui ride un poco,
come prima.
«Perché
altrimenti non mangiamo».
«E
perché?»
I
suoi occhi neri mi osservano.
Un
po’ chiusi.
«Jaz...» dice, senza
aggiungere altro.
Ma
io ho capito, e strofino un po’ di più il viso.
«Va
bene, ‘Ka-san, la smetto...» borbotto. Quando
comincio a fare domande e poi lui dice solo il mio nome significa
sempre che
non gli va di rispondermi.
Voglio
insistere, ma ‘Ka-san è triste e non voglio
intristirlo di più.
Anche
se mi dice che è solo stanco io non ci credo.
«Ti
va un gelato?»
lo sento dire, e ritorno a guardarlo.
Mi
sta sorridendo, sembra quasi che mi voglia distrarre.
Scuoto
la testa, tornando ad accoccolarmi contro di lui, sentendolo sospirare
ancora
un po’.
Accende
la luce nella mia cameretta, avvicinandosi al lettino per poi lasciarsi
cadere
sopra.
Mi
trovo seduto sulle sue gambe, e mi scompiglia ancora una volta i
capelli,
portandomeli dietro alle orecchie.
«E’
ora di andare a nanna»,
mi dice, sorridendo ancora un po’. «Domani ti
prometto che giocheremo
insieme, okay?»
Mi
imbroncio di nuovo, chinando il capo.
Io
non ho sonno, voglio giocare.
Però
annuisco, e ‘Ka-san mi prende in braccio per mettermi poi in
piedi sul
materasso.
Lo
vedo aprire il cassetto e tirare fuori il pigiama, ma stavolta non mi
dice di
metterlo.
E’
lui che mi sveste e me lo infila, senza che parlo.
Ora
ne sono sicuro.
‘Ka-san
è triste.
Dopo
avermi sistemato il pigiamino mi da un bacio sulla fronte, togliendomi
un altro po’ i capelli dal viso.
Mi
infilo sotto le coperte da solo portando con me il mio pupazzetto, e
lui me le
rimbocca subito dopo.
Quella
brutta espressione, però, è rimasta.
Mi
intristisco anche io, prendendo le lenzuola fra le manine.
«Sei
triste perché non c’è
‘To-san, ‘Ka-san?» glielo domando, e
stavolta i suoi occhi
scuri si aprono un po’ di più.
Si
siede sul letto, girato un po’ verso di me.
Allunga
una mano per accarezzarmi i capelli, lentamente.
Il
sorriso che ha sul volto non mi piace.
Non
è un sorriso.
«Un
pochino»,
mi risponde, sottovoce. «E’
da tanto che non lo vediamo».
Annuisco,
imbronciandomi e nascondendomi un po’ di più.
E’
vero.
‘To-san
non viene più.
Con
una mano mi strofino una guancia.
Mi
viene da piangere.
«‘Ka-san... ma perché siamo qui senza
‘To-san?»
Glielo
chiedo per non piangere, anche se sento che sto per farlo.
Perché
sono triste anche io, adesso.
Quando
lo sono piango sempre. ‘Ka-san
invece non lo fa mai.
Nessun
grande lo fa mai.
Vedo
‘Ka-san sospirare, poi mi accarezza di nuovo i capelli.
«E’
un po’ difficile da spiegare, Jaz», risponde piano,
sempre più triste. «Te lo dirò fra
un paio d’anni». Ancora
con la storia che sono piccolo, lo sapevo.
Ma
quanti sono un paio d’anni?
«Adesso
dormi, dai»,
dice ancora, e stavolta vedo i suoi occhi chiudersi un po’.
Passa
due dita sopra uno di essi, le labbra sono di nuovo
all’ingiù.
Però
mi sembra che tremino.
Allora
mi alzo, avvicinandomi a lui.
Lo
guardo bene in viso.
E
poi la vedo.
Una
di quelle gocce salate.
«‘Ka-san...» lo chiamo,
tirandogli un po’ la camicia. «...stai
piangendo?»
Glielo
chiedo e lui mi stringe forte forte, forse per non farmi vedere il suo
viso.
Non
so che cos’ha, ma è molto triste e riprende ad
accarezzarmi piano i capelli,
coccolandomi e cullandomi fra le sue braccia.
Solo
di poco riesco a guardare la sua faccia.
E
ancora una goccia salata gli scende dagli occhi.
Vede
che lo sto osservando e subito si passa una mano sul viso, sorridendo.
Ma
lo sento che quel sorriso nasconde il vero.
Nasconde
quelle gocce che cadono ancora.
Quella
fu la prima volta che vidi ‘Ka-san piangere.
Da Central City ‘To-san mi ha
inviato un libro.
L’ha spedito dieci giorni addietro, in modo che arrivasse in
tempo per il mio undicesimo compleanno.
Adesso lo sto osservando girando qualche pagina con
lentezza, quasi per paura di rovinarlo.
Dall’ingresso sento la voce di ‘Ka-san, che sta
parlando
animatamente al telefono con ‘To-san.
Mi sembra un pochino arrabbiato.
Scendo dal divano per affacciarmi oltre la soglia del
soggiorno, dove immediatamente mi giunge il buon profumo della torta al
cioccolato che sta preparando ‘Ka-san.
«Avevi detto che ti saresti
liberato per il suo compleanno», sta dicendo con
tono quasi accusatorio, reggendo forte la
cornetta. «Sono quasi quattro
mesi che non ti vediamo».
Voglio avvicinarmi di più per sentire almeno quello che ha
da dire anche ‘To-san, però non voglio che la mia
presenza accanto al telefono
sia un pretesto per litigare.
A volte succede.
«Non tirare in ballo il fatto che potrei venire io
lì,
adesso», borbotta, tamburellando con le dita sul tavolino.
«Il mio lavoro di
Generale è ben diverso dal tuo, lo sai».
Sospiro in silenzio, sempre nascosto dietro lo stipite per
evitare che ‘Ka-san possa vedermi.
Anche quelle parole non fa altro che ripeterle sempre,
quando parla al telefono con ‘To-san.
«Senti, lasciamo stare...» dice adesso, rendendo la
voce
dolce. «Davvero non ce la fai a liberarti per venire qui?
Magari domani?»
Mi sporgo un po’ reggendo bene
il libro, a quelle parole.
Spero che ‘To-san dica di sì.
Non fa niente se non ci sarà al mio compleanno.
Ma se ci sarà domani, festeggeremo nuovamente con lui.
«Ah...» fa
però ‘Ka-san, in tono rammaricato.
«L’ispezione...»
E tutti i miei progetti vanno in fumo.
‘To-san non verrà qui.
Lo capisco dalla voce di ‘Ka-san.
«Pensavo fosse la settimana prossima», riprende,
sempre
più dispiaciuto. «Ecco spiegato
perché anche Maes ha disertato
l’invito».
Non so cosa voglia precisamente dire così, ma
‘Ka-san ha
ragione.
Lo zio Maes, che di solito è il primo a volermi vedere, ha
chiamato ieri dicendo che non veniva.
La cosa un po’ mi dispiace, anche se spesso lo zio
è un vero
rompiscatole.
Sento ‘Ka-san parlare un altro
po’ della festa, di me e poi
del lavoro.
Chiacchiera tanto su quell’argomento, spiegando cose un
po’
complicate.
Da dove mi trovo continuo a sentire, guardandolo poi mentre
si gira di spalle.
Questa volta ridacchia, tenero come non l’ho mai sentito.
«Aye, ci stavo pensando anche
io l’altra sera», mormora,
dolcissimo.
Parla così solo con ‘To-san.
O quelle rare volte con me quando cerca di farmi collaborare
in cose che non voglio fare.
Con ‘To-san però è sempre
più dolce, come se condividessero
un segreto.
«Non sai quanto mi piacerebbe averti qui e giocare, in questo
momento», dice
allegro, marcando parecchio la parola.
Anche il termine giocare lo usa spesso, a telefono.
Rimediandoci sempre una sgridata da parte di ‘To-san che
riesco a sentire persino io. «Oh aye, di questi tempi le mie
fantasie sono aumentate», ride un po’,
leggero.
Ecco un’altra cosa che fa sempre.
Ride senza un motivo con la cornetta del telefono
all’orecchio.
Scherza e ride anche con me, ma quella è una risata strana.
Complice.
«Hai mai provato il sesso telefonico?» dice ancora
sghignazzando, e stavolta lo sento bene.
La voce di ‘To-san che lo
ammonisce subito.
Inviperita e parecchio alta, tanto che ‘Ka-san allontana il
ricevitore.
«Sei un
depravato, Colonnello dei miei stivali!» esclama
dalla cornetta.
‘Ka-san ride ancora una volta, tornando a parlargli.
Altri scambi di convenevoli, altre risatine divertite da
parte di ‘Ka-san.
Poi riattacca con il sorriso sulle labbra, sorriso che vedo
di più quando si volta verso di me.
Mi vede e resta immobile lì, sbattendo le ciglia
scure.«Da
quanto sei lì?» mi chiede, con una strana nota
nella voce.
Sbuco ormai dal mio inutile
nascondiglio, con il libro sotto
braccio.
Di poco scrollo le spalle, disegnando con il calzino che ho
al piede un cerchio invisibile.
«Da un po’, ‘Ka-san», gli dico,
tanto sarebbe inutile
mentire.
Lo vedo spalancare un pochino la bocca e arrossire.
Ancora non capisco perché arrossisce sempre. Ormai
ho undici anni.
Ho persino perso il conto delle volte che l’ho sentito
parlare di quello con ‘To-san.
Si gratta dietro al collo, tossendo un
po’ prima di
avvicinarsi a me.
«Quindi... hai sentito tutto?» mi domanda ancora,
stavolta a
disagio.
Non ci penso su nemmeno due volte.
Annuisco e basta.
Si scompiglia i capelli scuri con fare frustrato, scuotendo
poi la testa.
Borbotta qualcosa fra sé e sé, masticando delle
paroline fra
i denti.
I suoi comportamenti sono sempre così strani.
Proprio non lo capisco. «Non dovresti origliare»,
se ne esce poi, come a voler ammonire me.
Era lui che parlava di certe cose.
Mica io.
«Non volevo farlo»,
gli tengo subito presente. «Volevo solo
parlare con ‘To-san. Non verrà, vero?»
Faccio risuonare questa domanda in tono triste, abbassando
lo sguardo.
Speravo di passare del tempo tutti insieme.
Ma invece nulla. Proprio come quando ero più piccolo.
Sento ‘Ka-san avvicinarsi a
me, per prendermi poi il mento
e
alzarmi il viso.
Guardo i suoi occhi color pece, tristi come la sera di tanti
anni addietro. «Non è colpa sua,
Jaz», cerca di
andare in sua difesa. Ma vedo bene che invece vorrebbe imprecare come
lo sento
fare spesso.
Una volta è stato ore a borbottare in cucina e a dire
volgarità mentre cucinava.
Tra tutte le parolacce che gli ho sentito dire, ci potrei
fare un vocabolario dividendolo fra quelle semplici da manuale e quelle
più
spinte che si possono sentire solo da uno scaricatore di porto.
«Ha cercato di venire qui, ma non ha fatto in
tempo», lo
giustifica ancora.
Io penso invece che già lo
sapeva.
Altrimenti non mi avrebbe mandato il regalo con due giorni
d’anticipo.
Odio quando ‘Ka-san tenta in tutti i modi di non far
ricadere la colpa su ‘To-san.
E’ colpa sua quanto lo è della stessa
‘Ka-san.
Ma non me la sento di giudicarli entrambi.
Sono adulti.
Sanno quello che fanno.
Io sono solo un bambino un po’ più
grande.
Il giorno del mio compleanno,
invece, capii che la vita non era affatto
facile.
La scuola non è poi
così male, se sai bene come giostrarti.
Io me ne sto semplicemente seduto a scaldare la sedia,
facendo finta d’ascoltare le noiose lezioni
dell’insegnante mentre è il mio
migliore amico a prendere appunti anche per me.
Sono due anni che ci conosciamo, ormai.
Cedric Berk. Dall’indole vivace e una gran mole.
Qui a Central, dove mi trovo adesso con ‘Ka-san e
‘To-san, è
l’unico amico fidato che ho. L’unico a conoscenza
della mia vera famiglia.
A volte mi dispiace doverlo schiavizzare così, ma non
più di
tanto.
Infatti spesso è lui ad offrirsi di aiutarmi.
Perché dovrei negargli questo privilegio?
Osservo svogliato la sua mano che scrive
veloce sul foglio,
seguendo le parole dettate.
Mi chiedo sempre come diavolo faccia.
E’ peggio dell’ormai Maggiore Falman, uno della
brigata di mamma.
Stiamo seguendo entrambi i corsi estivi.
La cosa non mi va giù, ma non me la sono sentita di farlo
notare a ‘To-san e a ‘Ka-san.
Quest’ultimo ha già il suo “personale
problema” da
affrontare.
E non è una cosa facile.
E’ successo da poco infondo, deve ancora farci i conti.
Così come me per quel che è accaduto.
Sembro tranquillo adesso, vero, ma a volte quelle immagini
ritornano.
La mano non ancora del tutto guarita poi, spesso brucia come
a volermi dolorosamente ricordare la colpa che ho commesso.
Ma, anche se avrei voluto non farlo, sono convinto che fosse
la cosa giusta.
‘To-san e ‘Ka-san dipendevano da me.
Sospiro un po’, guardando con
la coda
dell’occhio Cedric.
Non gli ho raccontato quello che è successo
all’incirca due
mesi fa, anche se più volte in questo periodo ha provato a
chiedermelo.
Potrei anche farlo, ma non ne ho il coraggio.
Si sono accavallate troppe cose, una peggiore dell’altra.
Però non mi è sfuggito il modo in cui ha fissato
‘Ka-san
quando è venuto a trovarci il mese scorso.
E’ stato in quel momento che ha cominciato a fare domande.
E posso capirlo.
L’avrei fatto anche io.
Mi riscuote un suo veloce sguardo, e lo
vedo lasciare sul
banco la penna.
Si stiracchia, coprendosi la bocca e sbadigliando.
Quando torna a guardarmi, ha gli occhi un po’ lucidi di
sonno.
Li posa poi sul mio quaderno aperto, bianco come al solito,
scuotendo la testa.
«Non scrivi mai nulla, eh?» ironizza in tono di
rimprovero.
Non ci faccio caso più di
tanto.
Si lamenta sempre ma poi lascia perdere.
Tanto sa che non prenderò appunti.
Faccio spallucce, come ad indicare
disinteresse. «Sono qui
solo per scaldare la sedia, non per altro», scherzo a mia
volta.
Alza gli occhi al soffitto, quasi
sbuffando. «Quando
spegnerai le candeline la settimana prossima, sarò io
ad esprimere un desiderio», dice sarcastico, sottovoce per
non
farsi sentire
dal professore. «Chiederò che questi
diciott’anni ti
facciano entrare un po’ di
sale in zucca».
Sorrido, divertito.
Ecco perché è il mio miglior amico.
Sempre a preoccuparsi per me anche se non lo da a
vedere. «Sarebbe un desiderio sprecato»,
gli faccio
notare, ricevendo un’occhiataccia.
Chiacchieriamo un altro po’ del più e del meno
sempre
tenendo il tono basso.
Ci manca solo che quel rompiscatole del professore ci faccia
un richiamo.
Chi li sente, poi, ‘Ka-san e ‘To-san!
Finalmente passano quel paio d’ore di carcere forzato, e
siamo fuori a respirare l’aria fresca e pulita dalla
fragranza di
fiori estivi.
In una bella giornata come quella siamo stati costretti a
scuola.
E’ violenza bella e buona, e anche gratuita, quella!
Fortuna che almeno per questa settimana, è finita. Domani e
anche domenica possiamo rilassarci.
«Che fai, vieni da me o torni
a casa?» domando a Cedric,
voltandomi un po’ verso di lui.
Sbadiglia sonoramente sistemandosi lo
zaino in spalla, prima
di scompigliarsi i capelli e stiracchiarsi come non mai.
«Se non sono di disturbo...» butta lì,
anche se so che alla
fine verrà lo stesso.
Ha solo preso l’abitudine di dirlo da quando ha visto
‘Ka-san.
«Muoviti, idiota»,
sbotto, incamminandomi quando sento il suono d’un clacson.
E’ Jean, costretto come al solito a venirmi a prendere.
Quando saliamo in macchina borbotta come sempre un saluto,
masticando fra i denti il filtro della sua solita sigaretta.
Da un po’ fuma come una ciminiera.
O forse l’ha sempre fatto e non lo sapevo.
Non ci scambiamo nemmeno una parola, ma lo sentiamo bene che
impreca fra i denti qualcosa, forse rivolto alla mia cara mamma che lo
schiavizza.
Mi evito di ridere, mentre vedo con la coda dell’occhio
Cedric
tentare di fare lo stesso.
Certe scene le vediamo due giorni si e uno no.
E’ troppo divertente.
Arriviamo a casa e con un altro saluto
Jean ci lascia e se
ne va, partendo alla volta di casa sua.
Poveraccio, quell’uomo, certe volte.
Salite le scale e aperta la porta dell’appartamento, sento
un bel via vai.
Di sfuggita poi, vedo ‘To-san con una scatola.
Stiamo finalmente ristrutturando un po’ casa, e in special
modo la mia camera.
Posso vantarmi di avere finalmente quel tanto agognato letto
a due piazze, adesso.
E anche delle pareti decenti.
«‘Giorno, Signor
Elric», dice Cedric al mio fianco,
richiamando la sua attenzione prima che sparisca nel corridoio
adiacente.
Si volta verso di noi quasi stupito, per
poi issarsi meglio
sul braccio d’acciaio la scatola.
«Havoc ha fatto presto
stavolta?» sghignazza invece
divertito. «Comunque ciao ad entrambi, ora scusate che devo
finire un po’ di
sistemare in giro».
Alzo un pochino lo sguardo al soffitto,
scuotendo la testa.
Fanno sempre di testa loro. «Vi avevo detto di
aspettarmi», dico, come a volerlo ammonire. «Tu e
‘Ka-san non dovreste affaticarvi troppo».
I medici avevano infatti detto che sarebbero dovuti restare
ancora in ospedale.
Riabilitazione sotto osservazione.
E non avrei dato loro torto, se non avessero voluto
costringere anche me a stare lì.
Fortuna che sia ‘To-san che ‘Ka-san avevano dato
sfoggio del
loro potere militare minacciando l’ospedale di
chissà cosa se non ci avessero
fatti tornare a casa entro una settimana.
I volti sconvolti dei dottori ancora me li ricordo
perfettamente.
Si sa però che i miei tutori non sono tipi da starsene con
le mani in mano.
Quando vogliono divertirsi,
forse.
Ma non se devono star relegati in un letto ospedaliero.
Ferite o altro a quel punto passano in secondo piano.
Forse perché ci sono abituati, chissà.
Anche se credo che almeno ‘Ka-san avrebbe dovuto seguire il
consiglio.
Appena un po’,
‘To-san agita distratto una mano, facendo
attenzione che non gli cada nulla.
«Sono passati due mesi, stiamo benissimo»,
borbotta,
facendo valere la sua autorità di padre.
Proprio benissimo, però, non direi.
Di recente si sono visti allo specchio?
Vedo di sfuggita Cedric aprire la bocca, forse per chiedere
qualcosa, e come colto da un’illuminazione mi fiondo a
tappargliela.
So cosa vorrebbe chiedere.
E ancora non posso permetterglielo.
Mugola tentando di liberarsi, sfruttando la sua mole.
Fortuna, però, che ho un po’ di forza nelle
braccia per
contrastarlo.
«‘Ka-san?» domando, cambiando
tempestivamente discorso.
Sebbene mi stia ora osservando con un sopracciglio inarcato,
‘To-san accenna con il capo al soggiorno.
«Gli ho detto di andare a
sedersi un po’», risponde,
guardando poi Cedric che continua a sbraitare contro la mia mano senza
che si
capisca quello che dica.
Premo ancora il palmo sulla sua bocca, indietreggiando verso
quella direzione.
«Cominciava a
sbandare?» chiedo di nuovo.
‘To-san scrolla un
po’ le spalle.
«Diciamo che dopo un paio d’ore a fare avanti e
indietro ha
cominciato a far fatica a tener conto della
profondità», lo dice con tono
leggero, ma sento che ci sta male.
Decido di non aggiungere nulla o di
chiedere altro, annuendo
soltanto.
Mi trascino dietro quell’idiota patentato del mio amico,
lasciandolo andare solo quando siamo a distanza di sicurezza dalle
orecchie di
‘To-san.
Guardandomi con aria di stizza, incrocia le braccia al
petto.
«Io non capisco»,
borbotta. «Sembra quasi un argomento
tabù».
E lo è, infatti.
Ma meglio non dirglielo.
Mi limito solo a fare
spallucce. «Ced, te lo
dirò io quando me la sentirò di farlo»,
gli dico,
cercando di
rendere il tono affranto così da fargli pena. «Non
chiedere nulla ai miei».
«Sei mio amico, Jaz, lo sai
che mi preoccupo», fa
ancora, imbronciandosi. «Non ho avuto tue notizie per un
po’, e quando poi sono
venuto qui il mese scorso stavate uno peggio dell’altro. Non
posso sapere
quello che è successo?»
Lascio che mi sfugga un lamento.
Mannaggia ai migliori amici, certe volte.
Tentano sempre di aiutarti anche se non vuoi che si
complichino la vita.
Questa, però, è una cosa difficile da spiegare.
E non so come reagirebbe.
Forse è per quello che non ho il coraggio di
dirglielo. «Lo saprai a tempo debito»,
provo di nuovo.
Mi sfida con lo sguardo, forse per
tentare di farmi cedere.
Dopo poco, però, lascia perdere sospirando pesantemente.
Ha capito che non ce la faccio, almeno.
«Va bene, va bene», borbotta, un po’
ferito. «Aspetterò
ancora un po’, ma poi dovrai dirmelo».
Sorrido, accordandoglielo.
Glielo devo, in fondo.
E’ l’unico vero amico che ho.
Perderlo mi dispiacerebbe.
Chiusa quella conversazione ci incamminiamo nuovamente, e
passando accanto al salotto mi affaccio un po’ per sbirciare
all’interno.
Vedo ‘Ka-san seduto sul divano, con un libro aperto.
Non cambierà mai.
Anche se sa che non deve sforzare l’occhio legge comunque.
«Ciao, ‘Ka-san», lo saluto, e lui alza la
testa dalle pagine
per voltarsi.
Mi regala un sorriso, che rende
più a mandorla quel suo
unico occhio color pece.
La benda che indossa è leggermente coperta dalla frangetta
scura, anche se mi sembra che se la sia tolta o che l’abbia
spostata.
Non si è ancora abituato.
E’ stato un vero shock, per lui.
Quando i medici gli hanno detto che l’occhio non sarebbe
guarito e che non sarebbe più riuscito a vedere credevo
cadesse in uno stato di
depressione cronica. Ricordo che in ospedale si toccava in
continuazione la
fasciatura, come se non se ne capacitasse.
La copriva con una mano cominciando poi a guardarsi intorno,
osservando qualsiasi cosa.
Come se cercasse di abituarsi.
E in quei momenti l’espressione addolorata di
‘To-san non mi sfuggiva mai.
Il mese scorso l’ho addirittura visto davanti allo specchio
del
bagno di casa senza benda.
Aveva il volto contratto in una smorfia.
Come se il suo stesso lato del viso gli facesse ribrezzo.
Una lunga cicatrice sfregiata glielo solcava dal
sopracciglio, arrivando poi sullo zigomo quasi fino alla guancia.
Forse era per questo che era disgustato ogni volta che lo
vedeva.
Accettava cicatrici ovunque, ma non sul volto.
Il suo stesso corpo era pieno di cicatrici di guerra.
L’ho persino visto dare un
pugno allo specchio, quel giorno.
Poi si è seduto sul pavimento osservandone i frammenti,
quasi con un velo di tristezza e pianto in quell’occhio che
gli è rimasto. È strano come certe cose cambino
le persone.
Prima che questo avvenisse, non
avevo mai visto ‘Ka-san comportarsi
così.
Domani compirò
diciott’anni.
E’ il terzo compleanno che festeggio con ‘To-san.
Ma non credo poi che ci sia molto da festeggiare.
Ho persino detto ai miei tutori che una festa non era
necessaria.
Non hanno però voluto sentir ragioni.
Secondo loro, avrei bisogno di “svago”.
Di momenti tranquilli da passare come un qualsiasi ragazzo
della mia età.
Però non sono un “ragazzo qualsiasi” da
tanto, ormai.
O forse in realtà non lo sono mai stato, chissà.
Non ne sono poi così sicuro.
Mi rigiro nel letto, guardando svogliato
il soffitto.
Non riesco a dormire.
Tutto a causa di questi pensieri.
E’ da bambini dormire con ‘To-san e
‘Ka-san?
Può darsi, ma mi alzo lo stesso.
Attraverso il corridoio con passo felpato, fino a raggiungere
la loro camera.
Mi affaccio con fare esitante, scrutando nella lieve
penombra.
Vedo le loro figure indistinte, i loro profili tremano alla
luce argentea della luna.
Li distinguo appena, ma mi sembra che sia il mio papà quello
tirato su a mezzo busto.
«Oto-san?» lo
chiamo, per accertarmene.
Si volta appena verso di me e, subito dopo, una piccola
luce soffusa proveniente dal comodino inonda la stanza.
Aye, è lui ad essere ancora sveglio.
«Che ci fai in
piedi?» mi domanda, sussurrando per non
svegliare ‘Ka-san. «E’ notte
fonda».
Mi limito a mordicchiarmi un
po’ il labbro inferiore, come
quando sono nervoso.
Lo faccio sempre.
Di sfuggita, noto che ‘To-san ha la punta delle dita della
sinistra adagiate leggermente sul volto sopito di ‘Ka-san, ad
accarezzare
appena la lunga cicatrice.
Non indossa quell’esagerata benda.
La notte forse la toglie.
Anche durante il giorno una volta se la tolse.
Proprio il primo periodo di convalescenza forzata.
Cominciò a borbottare di quanto fosse inutile quel pezzo di
stoffa, perché secondo lui serviva solo a nascondere la
conseguenza d’un gesto
che lui avrebbe ripetuto se fosse stato nuovamente necessario. Diceva
d’esser fiero delle cicatrici che portava.
Questo prima che la vedesse.
Era stato tutto il giorno senza benda, forse per far finta
che quell’occhio ci vedesse ancora.
E l’illusione aveva funzionato finchè non si era
ritrovato
così, distrattamente, a fissare la sua immagine riflessa nel
vetro della
finestra della cucina.
A quel punto, la maschera fittizia che si era creato era
andata in frantumi.
Si era portato una mano tremante a sfiorare le cicatrici
ancora fresche, rosee e in via di cauterizzazione. Non le
aveva mai toccate.
Era ‘To-san, prima, che si occupava della fasciatura e
tutto.
Adesso ‘Ka-san non glielo permette.
Da quel giorno non ha più avuto il coraggio di togliersi la
benda in presenza di qualcuno.
Lo fa soltanto quand’è sicuro d’essere
solo.
O a letto con ‘To-san, a quanto pare.
Non tutte le cicatrici si possono mostrare, infondo.
«Senti,
‘To-san...» comincio finalmente, sentendomi un
bambino. «Solo per questa volta, posso... posso dormire
insieme a voi?»
Che mi chiamino pure moccioso.
Non me ne frega un accidente di niente.
Però un sorriso si disegna sulle labbra di
‘To-san, che si
sporge un po’ oltre ‘Ka-san per picchiettare il
lato vuoto
del letto. Non dice nulla, ma quello è un chiaro invito.
Stringe un po’ più a sé
‘Ka-san,
permettendomi così di
prendere posto.
«Non riesci a dormire?» mi chiede poi, una volta
che mi
sono
infilato sotto il lenzuolo.
Lo guardo stringendomi nelle spalle.
Più o meno ha ragione. «Diciamo di
sì»,
mormoro, spostando la mia attenzione su
‘Ka-san.
Il volto è disteso e rilassato nel sonno.
Le dita di ‘To-san ancora accarezzano piano le
cicatrici. «Gli fa ancora male?» stavolta
sono io a
fare domande, ed è
invece ‘To-san quello che si stringe nelle spalle.
Sospira pesantemente, massaggiandosi poi
con la mano
d’acciaio una delle sue nuove cicatrici, ben in mostra visto
che è a petto nudo
per il caldo.
Anche per lui è stato un duro colpo.
Oltre alle cicatrici al ginocchio e al braccio che risalgono
a quand’era bambino, a quelle disseminate poi per tutto il
corpo a causa dei
colpi d’arma da fuoco, vi si sono aggiunte delle altre.
Quel giorno è stato tremendo per tutti e tre.
Ne siamo usciti distrutti e lacerati.
«Fisicamente no», mi
risponde, amaro. «Ma non smetterà mai di fargli
male».
Abbasso il capo, sconfortato.
Certe volte mi domando se sono io, la causa di tutti i guai.
Forse porto sfortuna.
Mi sono ritrovato solo quand’ero piccolo e ho
rischiato
di farlo di nuovo troppe volte.
Esprimere questa mia teoria a voce però sarebbe peggio.
Ci rimedierei solo una sgridata con i fiocchi da entrambi.
Già mi sembra di sentirli.
Però quest’idea la coltivo da quando sono accadute
tutte
quelle cose.
Mi sento stupido, adesso.
Gli angoli degli occhi mi bruciano.
Alzo la mano fasciata, azzardandomi a
sfiorare appena il
volto di ‘Ka-san.
Forse è vero, è colpa mia.
«‘To-san», lo chiamo ancora, guardandolo
di sfuggita.
Lo vedo voltarsi verso di me con un cipiglio incuriosito.
Quel solito cipiglio che la dice lunga. «Credi che... credi
che vi sarebbe successo lo stesso tutto
questo, se non mi avreste adottato?»
Ho il coraggio di chiederglielo, ma già mi sembra che si sia
irrigidito. Quello che temo?
Una risposta negativa, forse.
Una cosa del tipo “Nay, avremmo avuto una vita
tranquilla.”
Ma non lo biasimerei se mi rispondesse con una frase del
genere.
Però, quello che mi sorprende, è che mi colpisce
alla testa
con l’auto-mail.
Non molto forte, ma abbastanza da farmi sfuggire un
prolungato lamento e portare entrambe le mani al punto leso.
«Non te ne uscire
più con certe stronzate, Jason», mi ammonisce in
tono severo,
diventando persino quasi sboccato nonostante lo odi. Questo
è un chiaro segno che si sta arrabbiando.
Sento ‘Ka-san mugolare infastidito, e ‘To-san gli
accarezza
i capelli per conciliargli il sonno prima di riprendere a
parlare.
«Nessuno può prevedere gli avvenimenti, nessuno»,
dice
ancora, con tono di stizza. «Forse sarebbe successo lo
stesso,
forse no. Così
come forse non sarebbe accaduto nulla anche se sei nostro figlio. Il
mondo è bello perché vario, non si può
sapere
cosa può succedere da un giorno
all’altro».
Mortificato, abbasso lo sguardo.
A diciott’anni a sentirmi la paternale... non sono cresciuto
affatto.
«Però...» provo lo stesso, venendo
subito ammonito.
«Stammi bene a sentire,
Jaz», comincia, scostandosi qualche ciuffo di capelli
dalla fronte. «Quando siamo venuti
all’orfanotrofio, e ti sei aggrappato con le
manine al mio pantalone, sia io che Oka-san non ce la siamo sentita di
lasciarti lì...» si concede una pausa, prima di
continuare. «E il tuo visino
sorridente mentre uscivi mano nella mano con Roy mi ha riempito il
cuore di
gioia, quel giorno».
Trae un lungo sospiro, alzando il viso verso di me.
Solleva appena un angolo della bocca. «Non dire
più cose del genere», dice di nuovo.
Poi tace, lo sguardo perso nei ricordi di quegli anni.
È triste e sorridente al
tempo stesso.
Un’espressione simile non l’ho mai vista.
A nessuno dei due.
Quella notte, invece, fu
‘To-san a versare qualche lacrima.
Primo giorno all’Accademia
Militare.
Così come avevo deciso, alla fine mi sono iscritto.
Divido la stanza con Cedric, tanto per cambiare, l’ultima
camera
del dormitorio maschile sul
lato destro dell’edificio.
Si può dire che trovare l’esatta collocazione
è
stata una
tragedia, visto che il capo camerata era sparito chissà dove
e
ci abbiamo messo
mezza giornata per cercarlo.
Per svuotare le sacche con i vestiti poi, anche peggio.
Ore di litigate per chi doveva prendersi un lato o l’altro
della stanza.
Fiero di dire, però, che tanto poi ho vinto io e ho
letteralmente rivoltato il mio migliore amico come una tartaruga,
lasciandolo a pancia all'aria.
Ho preso il letto vicino alla finestra, alla scrivania e al
comodino, così non devo fare troppa fatica per prendere la
divisa da indossare
il giorno dopo.
Stanco dopo quella prima giornata, adesso, sono avvolto
nelle lenzuola.
Sono in uno stato di dormiveglia, sento
appena quello che mi
succede attorno.
Un lieve russare dall’altro letto, il ticchettio della
pioggia contro la finestra.
Non so se definirlo uno stato piacevole o meno.
Mi piacerebbe che ci fosse più silenzio, ma devo
accontentarmi di quello che ho.
Affondo di più la testa nel cuscino, strofinando il viso
contro la federa.
E’ un po’ ruvida e odora di chiuso.
Forse avrei dovuto provare a rubare di nuovo il cuscino di
‘To-san o quello di ‘Ka-san e portarlo con me.
Quelli sì che sono morbidi.
Ci si dorme che è un piacere.
Peccato, però, che non ci sono riuscito.
Mi hanno beccato subito, non appena ho aperto l’armadio.
Sembra quasi che ‘Ka-san abbia affinato in qualche
misterioso modo l’udito.
Che si affidi a quello quando l’occhio si stanca?
Molto probabile.
Mugolo qualcosa che non capisco nemmeno
io mentre mi muovo
un po’.
Forse finalmente mi sto addormentando.
Le palpebre sono pesanti, i suoni si affievoliscono.
Anche la pioggia è ora uno sciabordio sommesso in
lontananza.
Aye, sto per cadere fra le braccia di Morfeo.
Perdo la cognizione del tempo, conscio e non dei dintorni.
Sogno, forse.
Non so di preciso cosa.
Ma sogno.
Un sogno strano, un susseguirsi d’immagini.
Parole e voci si mescolano, forse sono urla e spari quelli
che si fondono subito dopo.
Qualcuno mi chiama piano, in un mormorio.
Però scuoto la testa e comincio ad agitarmi.
La voce insiste, diventando più imperiosa.
Un tocco sulla spalla, pesante.
A quel punto apro di scatto le palpebre drizzandomi a
sedere, urlando qualcosa e colpendo qualcos’altro con il
dorso della mano.
Sento il battito a mille del mio cuore e sento persino di
avere gli occhi dilatati, mentre mi specchio in quelli di Cedric.
Ha acceso la luce sulla scrivania e mi osserva.
Credo spaventato.
Non ne sono sicuro.
Deglutendo, si allontana un
po’, sedendosi poi sulla sponda
del suo letto.
«Mi sembrava che...» comincia, agitato
quasi quanto lo
sono io. «...che stessi male, ti agitavi e...»
Si interrompe continuando a guardarmi.
Negli occhi gli vedo un velo di panico, o forse timore.
Però adesso non ci faccio caso.
Sono più occupato a stabilizzare i battiti del cuore.
Respiro a grandi boccate, portandomi una mano al petto.
Batte all’impazzata.
Colpa del mio subconscio.
Ancora non ho superato quel trauma.
Basta un tocco durante il sonno per farmi ridurre in quel
modo.
‘To-san e ‘Ka-san infatti non lo fanno quasi mai,
adesso.
Quando devono svegliarmi mi sfiorano appena.
E se invece possono evitarlo, nemmeno mi toccano.
Respiro di nuovo, scostandomi dalla fronte i capelli madidi
di sudore.
Guardo Cedric di sottecchi, vedendolo poi umettarsi un po’
le labbra.
Le sente secche, probabilmente.
Proprio come me.
«Jaz...» mi
chiama, anche se incerto.
«Sicuro di
sentirti bene?» Che dovrei dirgli, adesso?
“Nay, sto uno schifo?”
Così poi devo trovarmi pure una scusa per quella risposta.
«E’ per quella storia accaduta un po’ di
tempo fa,
vero?» dice ancora.
Beccato in pieno.
Maledizione, ancora mi stupisco di quanto sia percettivo
‘sto ragazzo.
Capisce subito i miei sentimenti o come mi sento.
Eh... il fratello che non ho mai potuto avere.
Proprio vero.
Sospiro pesantemente, ritrovandomi a
ravvivare i capelli
all’indietro.
Scappa qualche ciuffo che finisce sulla fronte, ma gli altri
stanno al loro posto.
Lo guardo di sottecchi, tenendomi una mano a sorreggere il
viso.
I traumi vanno affrontati.
E’ quello che mi ripetono sempre i miei tutori.
Un conto, però, è affrontarli da solo.
Un altro, invece, raccontarlo ad altri.
E in questo particolare caso, al mio miglior amico.
«Per... Per me è difficile parlarne...»
comincio sottovoce,
quasi sentendo lo stomaco attorcigliarsi.
Vorrei che le cose restassero così come sono, tra noi.
Con un segreto troppo grande da essere espresso a parole.
Ma so anche che lui è l’unico ad essermi stato
vicino in
questo periodo oltre i miei e gli zii.
«A me puoi dire tutto, lo
sai», lo sento dire, in tono
leggero. Un po’ nervoso forse, ma non insistente.
Mi concedo tutto il tempo necessario.
Devo provare a raccontarglielo, e a non bloccarmi ad un
certo punto.
E’ tutto troppo... triste, crudele. Mi guardo quasi
inconsciamente il palmo della mano, facendo
scorrere lo sguardo su ogni anfratto di pelle cicatrizzata.
Ecco quello che è rimasto della bruciatura.
Una bruciatura che si è allargata dopo quel determinato
avvenimento.
E sono stato fortunato a cavarmela solo con quelle ustioni.
Di secondo grado, certo.
Ma se avessi continuato sarebbero state peggiori.
Scuoto forte la testa per scacciare quei pensieri, tornando
a guardare Cedric.
Sembra stia solo aspettando una mia parola.
E non tardo ancora a parlare.
«Se dopo quanto ti avrò detto mi disgusterai, non
ti
biasimerò... okay?» gli dico, anche se mi sento
già terribilmente arrabbiato e
solo. La voce mi trema un po’.
La sento insicura.
Vedo Cedric sollevare un po’
un sopracciglio, prima che
sbatta le palpebre. «Ma che stai dicendo?» mi
domanda, stupito. «Perché mai dovrei
farlo?»
Dice così, adesso.
Non sono sicuro però che sarà ancora
così, dopo.
«Perché...
Perché io...» comincio a parlare con un basso
tremolio, lasciando
che le parole mi scorrano via dalle labbra come un fiume in piena.
Gli racconto praticamente tutto.
Dal primo momento fino all’ultimo.
Anche di quello che ho fatto.
E ad ogni mia parola, noto i suoi sussulti sempre più
crescenti.
Il primo spaventato per quello che poteva accadermi quelle
notti terribili, sia nel parco che in quel lurido magazzino.
Poi un altro, quando parlo delle mie origini.
Gli ultimi sono quelli che mi colpiscono di più e che sento
più terrorizzati.
Gli occhi di Cedric, adesso che ho finito di parlare, mi
osservano quasi sconvolti.
Come sembro ai suoi occhi, ora?
Un mostro sotto le
sembianze d’un ragazzo?
Non ho più il coraggio di dire nulla.
Abbasso lo sguardo.
Non riesco a sostenere il suo.
Serro i pungi sulle ginocchia, le mani mi tremano.
Perché non parla, maledizione?
Perché non dice nulla?
Un peso sul mio letto però non mi permette di formulare un
altro pensiero.
«Razza di stupido!»
mi esclama subito
all’orecchio la voce
di Cedric, quasi rabbiosa, e quando mi volto un po’ per
guardarlo
vedo i suoi
occhi un po’ lucidi di lacrime.
Credevo scappasse, che so.
Che uscisse urlando dalla camera.
Che mi desse dell’assassino.
Tutto mi aspettavo tranne quello.
Mi afferra per il colletto del pigiama, scuotendomi. «Ti sei
tenuto dentro un peso del genere tutto questo tempo?!»
sbraita
ancora,
infischiandosene dell’ora. «Diavolo, Mustang, sono
o non
sono il tuo miglior
amico?!»
Resto basito a fissarlo, sentendomi come
una bambola di
pezza mentre continua a scuotermi.
Senza preavviso, poi, mi molla un pugno.
Ed è a quel punto, che sono davvero sconcertato.
«Avresti
dovuto dirmelo prima, avresti dovuto confidarti con me!»
riprende
abbassando il capo, cominciando a colpirmi il petto con pugni leggeri,
come un
bambino. «Davvero pensavi che sarei stato tanto meschino da
trattarti
diversamente!? Razza di... idiota che non sei altro...»
Affievolisce il tono della voce, nonostante si senta ancora
una nota arrabbiata.
I colpi diventano più deboli, finché non si
arrestano del
tutto.
Anch’io guardo altrove sentendomi fuori posto, con un groppo
sempre più crescente in gola.
Mi mordo il labbro inferiore per
reprimere quello che forse
è un singhiozzo.
Non lo so, non ne sono così
sicuro.«Scusami...» riesco solo a mormorare, con
voce spenta.
In risposta, però, ottengo solo un grugnito.
Un borbottio che sembra volermi ammonire di qualcosa.
Non aggiungo quindi altro, restando in quello strano quanto
imbarazzante silenzio.
O almeno finché non sento le grandi braccia di Cedric
stringermi forte, come a volermi dare, in quel suo modo bizzarro, un
po’ di
protezione.
«Non metterti più i
guai simili, demente», mi dice, quasi
costringendomi a poggiare il mento sulla sua spalla. «Ma se
proprio non riesci
a farne a meno, non lasciarmi indietro».
Forse lo aggiunge per alleggerire la situazione, non lo so.
Ma sono felice di averlo come amico.
Chiudo gli occhi umidi, annuendo
soltanto.
E la sua presa diventa più salda, più
protettiva.
Stretto e
piangente ad un uomo che non fosse ‘To-san
o ‘Ka-san,
capii che i miglior amici erano quelli che ti erano vicini al cuore
anche senza saperlo.
Questa che è sorta oggi
è una giornata come tante.
Sono passate appena un paio di settimane da quando abbiamo
iniziato l’Accademia e da quando ho raccontato tutto a
Cedric.
Da quel momento mi tiene ancor più sottocontrollo. Non
mancano, però, i momenti in cui combiniamo casini.
Forse sarà per questo che il nostro comandante in seconda ha
scomodato ‘Ka-san.
Ci troviamo con lui fuori, adesso, quasi vicino al poligono.
L’occhio truce di ‘Ka-san che ci squadra non mi
piace
affatto.
Mi ricorda quello d’un rapace che tiene sotto mira la sua
preda.
E sono io, la preda.
Non capisco però che abbiamo fatto di così
sbagliato.
E’ stato il nostro comandante, infondo, a dirci di dover
usare i fucili d’addestramento.
Assestamento tattico sul campo di battaglia.
Ha detto proprio così.
Non capisco di cosa si lamenti.
«Due settimane, solo due
misere settimane», sento borbottare
‘Ka-san, mentre cammina a grandi falcate in direzione
dell’ala ovest
dell’edificio. «Due settimane e
già mi vengono a dire che attentate alla vita dei vostri
comandanti, perfetto». Che esagerazione.
Io mica l’ho fatto apposta.
E’ stato lui a dire di sparargli contro in stile bersaglio.
O forse stava scherzando?
Forse stava usando solo un eufemismo?
Dirlo a ‘Ka-san però complicherebbe solo le cose.
E poi non sono stato l’unico.
Tre o quattro ragazzi l’hanno preso alla lettera come me e
Ced.
«Due teste vuote, ecco che
siete», riprende a parlottare fra
sé. «Se mai riuscirete a diplomarvi e vi
presenterete alla sede Centrale e sarò
io il Comandante Supremo vi sbatto
fuori a calci». Aye, dice sempre così.
Comandante di qua, Comandante di là.
Ma intanto resta sempre Generale.
Di corpo d’armata, adesso.
Ma sempre Generale è.
«Signor Mustang, andiamo...
non ne faccia una tragedia», si
azzarda a ribattere Cedric.
Mossa sbagliata e stupida.
L’occhio di ‘Ka-san lo fulmina
all’istante.
Avvicina il pollice e l’indice al suo viso, con
un’espressione indemoniata.
E Ced si allontana un po’, timoroso. «Non ne devo
fare una
tragedia, eh?» fa ‘Ka-san, e il suo tono mi mette
un
po’ i
brividi. «Chi credete che dovrà starsene ore in
più
in ufficio per rimediare
alla vostra bravata?»
Ecco spiegato il motivo della sua aria arrabbiata.
Gli toccheranno degli straordinari.
Vado in aiuto del mio amico,
allontanando la mano di
‘Ka-san.
Non vorrei che in un momento di stizza decidesse davvero di
schioccarle, quelle dita.
A volte con lo Zio lo fa. «Dai, ‘Ka-san,
puoi sempre utilizzare la scusa della stanchezza», provo a
farlo ragionare, sentendo quella perla nera puntata su di me, stavolta.
In quest’ultimi tempi, quando
si annoia di lavorare, va
sempre a lamentarsi da chi di dovere dicendo che sforza troppo la
vista.
“Sono ancora in convalescenza” ,
“L’occhio deve
ancora
abituarsi” , “Ho mal di testa per essermi sforzato
troppo” o cose del genere.
Quando però vede che le scuse non bastano con la sua
diligente Riza, allora fa di peggio.
Assume un’aria sconsolata e mesta, accarezzandosi la benda.
Proprio come un cane bastonato.
Borbotta qualcosa fra sé e sé e poi fa per
togliersela.
E, anche se tutti sanno che non se la toglierà davvero, alla
fine si impietosiscono.
Nessuno dei suoi sottoposti se la sente ancora di non
accontentarlo in ogni piccolo capriccio.
Se chiedesse la luna sono sicuro che troverebbero il modo
per portargliela.
Chi non ci casca affatto, è lo Zio Maes. Non lo calcola
minimamente, quando fa così.
Anzi, gli ha persino affibbiato un soprannome.
O meglio, un nomignolo.
Guercino, lo chiama scherzosamente.
E anche se a ‘Ka-san a volte da fastidio, poi ci ride su.
Quel
che mi fa piacere, almeno, è che si sia ripreso un
po’.
Prima non voleva nemmeno che si facesse presente che aveva
un occhio cieco. Adesso invece la prende alla leggera.
Anche se certe volte si lascia andare a quel vago retrogusto
di tristezza.
Il dolore resterà proprio come ha detto ‘To-san,
ma sembra
affievolito.
E quella è una chiara testimonianza di quanto sia forte di
spirito.
«Non oso immaginare cosa
combinerete in questi due anni»,
mi riporta alla realtà la sua voce, e lo vedo mentre si
scompiglia i capelli,
ravvivandoseli poi all’indietro in modo di tener scoperta sia
la fronte che la
benda. «Vi spediranno a pulire le latrine ogni
giorno, me lo sento».
Lo seguo ancora verso il dormitorio e lo
lascio borbottare,
facendo finta di nulla.
Di tanto in tanto lancio qualche occhiata a Cedric, che sospira
pesantemente.
Non gliel’ha fatta il padre la paternale, gliela fa la mia
mamma.
Che ironia della sorte.
«E come se non bastasse devo riattraversare la
città per
tornare al Quartier Generale e finire il mio turno, con tutto che
ancora non
dovrei guidare», continua a lagnarsi, bofonchiando.
«Sappiate che se mi
fermano vi prendete la colpa anche di questo».
Come al solito, ci rifila sempre le
solite cose.
Dice che per colpa nostra è costretto a fare avanti e
indietro in macchina.
E, visto che non può scomodare Oto-san per farsi
accompagnare dove vuole, è lui a mettersi al posto di guida
nonostante non
possa.
Come minimo dovrebbe far passare un bel po’ di tempo, per
farlo.
Sospiro pesantemente seguendolo fin sopra le scale, visto
che ci sta praticamente accompagnando
dentro al dormitorio.
Incasso la testa nelle spalle quando vedo gli altri pochi
ragazzi presenti nel corridoio, che ci osservano come a capire il
perché della
presenza della mia mamma.
Ci mancava solo questa.
Non basta il mio cognome.
Adesso anche la bella presenza di
“papà”.
Dopo questo sono sicuro che verrò preso di mira da quelli
dell’ultimo anno.
Preferirei solo sotterrarmi, in questo momento.
Il sistema accademico, dai tempi di ‘Ka-san, è
cambiato un
po’.
Ora ci si entra superando concorsi e test d’ingresso.
Scritti e psicologici.
Non tutti vengono accettati.
E la maggior parte dei ragazzi lì presenti si è
fatto un
culo così per riuscirci.
Io invece sono passato subito.
Semplicemente perché queste cose per me sono facili, come
l’alchimia.
Loro, però, quando hanno saputo il mio cognome, hanno tirato
le somme.
Certe volte odio il lato “eroico” di
‘Ka-san.
Come adesso.
Mi volto appena verso Cedric, vedendolo
pensoso.
Ha la fronte leggermente corrugata.
Forse si starà preparando a ricevere una strigliata anche da
suo padre.
Come ‘Ka-san infatti, è a sua volta un militare.
Non a caso Ced ha deciso di iscriversi anche lui
all’Accademia.
Me lo disse un giorno a scuola, quando avevamo entrambi
quindici anni.
Di preciso non ricordo quando, ma proprio i primi tempi
credo.
Di sfuggita vedo
‘Ka-san aprire la porta della nostra camera, facendoci poi
cenno d’entrare.
“Veloci e senza protestare”, sembra che dica
quell’occhio
che ci scruta.
Fulmina con lo sguardo anche i ragazzi restanti, che fanno
finta di nulla prima di riprendere a camminare non curanti o entrare a
loro
volta nelle proprie stanze.
Quando è incazzato, ‘Ka-san fa paura.
E di brutto anche.
Nessuno vuole ritrovarsi col culo bruciato quando ha la luna
storta.
«Papi, potevi
anche evitare di accompagnarci», gli faccio notare,
enfatizzando
sull’appellativo in tono mieloso.
Come se quello basti.
Peccato che stavolta non funzioni.
Difatti indica ancora la stanza, maggiormente stizzito.
«Smettila di tergiversare e
muoviti», sbotta, spostando la sua attenzione verso
Cedric. «Anche tu forza, non ho tempo da perdere con tutti e
due. Ho del lavoro
in arretrato e ora mi tocca anche quello che mi è stato
affibbiato per colpa
vostra. Senza contare il fatto che dovrò avvertire tuo
padre», tiene presente, indicando
il mio amico. «Il ché significa che mi
toccherà scendere di due piani fino agli
uffici interni del Tribunale Militare per cercarlo e raccontargli
l’accaduto».
Aggiunge questo quasi tutto d’un fiato, mentre gli vedo una
leggera vena sulla fronte.
Stavolta mi sa che l’abbiamo combinata davvero grossa.
Cedric, però, fa per
ribattere, con cipiglio preoccupato.
«Non è mica così necessario
avvisarlo»,
prova, con tono leggermente nervoso.
Un’altra occhiataccia lo
fulmina. «Volete che vi porti con me al Quartier
Generale per far
firmare a voi le scartoffie?» ribatte ‘Ka-san
esageratamente tranquillo,
nonostante la vena pulsi di più.
Meglio lui che ‘To-san, almeno, in questo momento.
Mi ritrovo a pensare quello, mentre li sento battibeccare
come bambini.
Se ci fosse stato ‘To-san non ce la saremmo cavata con
così
poco.
Difatti ‘Ka-san se ne va solo dopo averci fatto una bella
tirata d’orecchi.
E bella davvero, visto che mi fanno male.
Ma se invece di lui avessero convocato ‘To-san, sarebbe
stato anche peggio.
Quindi siamo stati fin troppo fortunati.
Mi lascio cadere sul letto mentre mi
massaggio ancora
l’orecchio, imbronciato.
Vedo Cedric fare lo stesso, prima di stendersi a braccia
spalancate sul materasso.«E per fortuna che per mezza volta
abbiamo eseguito gli
ordini», borbotta, voltandosi appena verso di me per
guardarmi.
«Figurati
se non l’avessimo fatto».
Sospiro e mi stendo anche io, osservando
il
soffitto. «Credo proprio che ‘Ka-san abbia
ragione», ironizzo, per sdrammatizzare. «Finiremo
davvero a pulire le latrine ogni giorno».
«Non mi sono mica iscritto qui
per pulire i cessi», ribatte lui.
Lo guardo con un sopracciglio
inarcato. «Perché secondo te farlo
è sempre
stato il mio sogno, eh?» replico,
ancor più sarcastico di prima.
Quella giornata almeno, è
stata una delle poche in cui mi
sono davvero sentito, dopo tutte le brutte cose che mi sono accadute,
un
ragazzo normale.
Un ragazzo di diciott’anni e mezzo che passa la giornata
insieme al suo miglior amico.
Fu quello, forse,
l’inizio d’una vita con un fardello più
sostenibile.
Ho avuto la mia prima, vera, licenza.
Non come la prima volta, che sono quasi scappato.
A casa, però, non ho avvertito nessuno.
Non l’ho ritenuto necessario.
E sarebbe anche stupido farlo, arrivati a questo punto.
Sono già davanti al portone, indeciso se salire subito o
meno.
Vorrei andare a farmi un giro, ma sono anche stanco per il
viaggio.
Il viaggio sì, visto che da un paio di mesi siamo stati
trasferiti in un’Accademia fuori città.
Il perché non lo so, forse per ristrutturazione o simili.
Sto per indietreggiare quando mi tradisce uno sbadiglio.
Sono troppo stanco per uscire.
Controllo distratto l’orologio
da taschino che mi ha
regalato ‘To-san, notando che sono appena le quattro del
pomeriggio.
A quest’ora sono a lavoro.
Fortuna che ho sempre con me le chiavi di casa.
Sbadiglio ancora mentre apro il portone, salendo le scale a
due a due.
Non vedo l’ora di sdraiarmi su un letto comodo.
Il mio, quello dei miei o persino il divano mi vanno bene.
Se non fosse duro dormirei anche sul pavimento.
Apro piano la porta quando raggiungo
finalmente
l’appartamento, venendo subito avvolto da un silenzio
così netto che quasi mi
rimbomba nelle orecchie.
So che è il mio battito quello che sento, ma la quiete di
quel tipo mi fa sempre uno strano effetto.
Altrettanto silenziosamente mi richiudo la porta alle
spalle, lasciando la sacca che mi sono portato dietro accanto al
mobiletto
presente nell’ingresso.
Mi libero anche del berretto, lanciandolo quasi su un
braccio dell’attaccapanni.
E sorrido come un idiota quando lo colpisco.
Le piastrine che indosso le lascio in bella mostra sulla
canotta, togliendomi solo la giacca.
Fa un po’ caldo in casa, ma è un caldo piacevole.
Un caldo familiare.
Quel caldo che si sente quando si sta tutti insieme.
Camminando piano, stando attento che i
miei scarponi non
facciano rumore, attraverso il corridoio, inspirando a fondo il profumo
di
casa.
Si sente ancora il caffè che hanno preparato quella mattina.
Vado in cucina per vedere se ne è rimasto un po’,
trovando
la macchinetta mezza vuota.
C’è solo un goccio, ma non mi va di prepararlo.
Borbotto un po’ tra me e me, uscendo nuovamente in corridoio
mentre mi stiracchio sempre più e sbadiglio sonoramente.
Quel che mi ci vuole, prima d’una bella dormita, è
un bel
bagno rilassante.
Entro quindi in camera mia, prendendo vestiti puliti e
leggeri.
Mentre mi dirigo alla biblioteca però, mi ricordo una cosa
importante.
Il bagno secondario non ha la vasca.
Solo quello in camera dei miei ce l’ha.
Che tirchi.
Potevano farlo anche lì.
Sbuffando, ritorno sui miei passi,
andando verso la loro
stanza.
Non credo che gli dispiacerà se lo uso per un po’.
E nemmeno se consumo mezzo contenitore di bagnoschiuma, no?
Mi scappa un altro sbadiglio mentre apro la porta senza dar
più peso al silenzio visto che sono solo in casa, e
socchiudo di poco gli occhi
lacrimanti.
Sto per fare un passo all’interno quando, una volta
focalizzata l’immagine, mi blocco lì, sulla soglia
della camera con i vestiti
sotto braccio.
Due occhi dorati mi fissano sconcertati, mentre l’altro,
nero come la pece, è dilatato come non mai.
Dire a chi appartengono sarebbe superfluo e anche
scontato...
«E... E tu cosa diavolo ci fai
qui!» esclama ‘Ka-san rosso in volto, in una
posizione un po’... beh... più che contro
facente al suo ego e al suo
orgoglio maschile.
Vorrei distogliere lo sguardo, ma non ci
riesco.
E forse vorrei anche ridere, ma non riesco a fare nemmeno
quello.
Così guardo ‘To-san, la cui schiena è
leggermente nascosta
dal lenzuolo che per miracolo non è scivolato via, mentre si
trova sopra
‘Ka-san. Aye, sopra.
Non voglio andare oltre con i dettagli.
Sembra boccheggiare un po’, anche lui rosso in viso.
Non so se sia per la mia presenza o per quello che ho
interrotto.
Però non voglio indagare oltre.
Meglio restare nel dubbio.
«Tu dovresti...»
comincia anche ‘To-san, e lo vedo
distintamente deglutire.
Ma ormai io non ci faccio più nemmeno caso.
Li ho beccati tante di quelle volte a farlo che nemmeno
dovrebbero arrossire.
Forse è per il cambio di ruoli?
Credo proprio di sì, visto che ho notato che
‘Ka-san ha
chiuso l’occhio come per far finta che sia tutto un
bruttissimo sogno.
Peccato per lui che non sia così.
Adesso ho visto anche il suo essere completamente donna.
«Scusate il
disturbo», mi limito a dire scrollando le
spalle, ritornando tranquillo sui miei passi.
Non appena mi richiudo la porta alle
spalle sento il letto
che cigola appena, segno che si stanno muovendo per rialzarsi e
rendersi
presentabili.
O forse per ricominciare come se nulla fosse, chissà.
Dubito però di questa mia seconda ipotesi, rifugiandomi in
cucina.
Quel caffè quasi quasi mi tenta, stavolta...
Mi riempio una tazza, accomodandomi al
tavolo per
sorseggiarlo mentre aspetto.
Non ci mettono più di cinque minuti a raggiungermi, anche se
‘To-san ha ancora la camicia aperta e si sta affrettando a
sistemarsela insieme
ai capelli come meglio può.
Quello che mi fa ridere in questo momento sono le loro
espressioni.
Specialmente quella di ‘Ka-san.
E come dargli torto.
Almeno a letto, ero sempre stato sicuro che avesse il controllo della
situazione, visto che
quando li beccavo era sempre lui quello che comandava.
Adesso, invece, quella mia certezza è sfumata.
‘Ka-san è sottomesso
in tutti i sensi.
Mentre continuo a bere li vedo lanciarsi occhiate, quasi
nervosi.
Poi noto di sfuggita ‘Ka-san sistemarsi meglio la benda, e
sono pronto a scommettere che il colorito arrossato del suo volto
supera di
gran lunga quello di ‘To-san.
Fa poi per aprire la bocca, ma gli viene subito tappata.
«Che hai combinato,
stavolta?» si rivolge a me Oto-san in sua
vece, con tono calmo ma oserei dire un po’ isterico.
Si vede lontano un miglio che gli dispiace che gli ho
interrotto il gioco.
E non darei torto nemmeno a lui.
Agito appena una mano finendo il caffè, voltandomi poi per
sorridere ad entrambi.
«Stavolta ho una vera licenza,
ecco cos’è successo», dico, un
po’ anche per sbeffeggiarli. «E ho pensato di
sfruttarla passando un po’ di tempo con voi. Non siete
contenti?»
Dall’espressione di
uno dei due non si direbbe.
Proprio quest’ultimo riesce a liberare la bocca, inveendo
contro di me.
«Ti ci strozzo con quelle piastrine che hai al
collo!»
sbraita, tenuto subito dopo a freno da ‘To-san.
Di nuovo domato.
Altro che cavallo
selvaggio.
L’orgoglio del mustang
si è perso da tanto, mi sa.
«Quello che Oka-san voleva
intendere è che non ti aspettavamo», ribatte
‘To-san quasi afflitto, mentre vedo ‘Ka-san
continuare a sbraitare contro la
mano d’acciaio che gli tappa la bocca.
Sorrido spavaldo, alzandomi.
«Non dovresti agitarti così tanto,
‘Ka-san», gli dico,
schernendolo. «Ti fa male alla salute, soprattutto dopo quel
sano movimento».
Detto questo scappo svelto verso la
soglia della cucina,
venendo subito seguito dagli strepiti di ‘Ka-san, ormai
libero dalla presa di
‘To-san.
Che si sia liberato da solo o che sia stato Oto-san a
decidere di gettare la spugna è difficile da dire.
Ma non è mamma
quello che mi raggiunge in biblioteca.
E’ lo stesso ‘To-san, con in volto dipinto un
ghignetto
divertito.
«Lascialo perdere»,
mi dice subito, avvicinandosi al divano sul quale mi sono
accomodato per darmi una leggera pacca sulla spalla. «Anche
se fa così, è
felice che sei tornato». A
quell’affermazione, sorrido anche io.
Sbraita e si lamenta in continuazione, ma poi mi accontenta
in ogni minima cosa.«E’ solo imbarazzato per quanto
hai visto», continua, lasciandosi sfuggire un
piccolo sbuffo d’ilarità, vagamente orgoglioso.
Ridacchio anche io.
Ci credo che è imbarazzato, ‘Ka-san.
E ci credo che ‘To-san invece se la ride.
Becco sempre lui sotto!
«Cos’era, oggi, la rivincita dei
passivi?» lo prendo un po’
in giro, perché so bene com’è la
situazione.
‘To-san, da quando ne ho memoria, ha sempre e solo avuto
‘Ka-san.
Anche un po’ prima che mi adottassero, da quanto mi ha
detto.
Le sue uniche conoscenze in quel campo, quindi, sono con
‘Ka-san.
Non ha mai avuto nessuna donna a differenza sua.
Lo vedo arrossire un po’,
segno che ho fatto centro.
Si gratta distratto una guancia, guardando altrove.
«Se vogliamo metterla così...» borbotta,
anche se gli scappa
un sorrisino.
Qualche soddisfazione doveva pur averla anche a letto,
infondo.
Meglio abbondare quando si può. E poi, quello
sarà un buon modo per prendere in giro
‘Ka-san.
Mi viene quasi da ridere, non so perché.
Non che non vedessi ‘To-san così...
intraprendente.
Solo, non mi sarei mai aspettato che ‘Ka-san facesse il
passivo.
Non voglio nemmeno sapere perché hanno deciso di cambiare.
Questi sono strettamente affari loro.
E io non mi immischio.
«Hai già
mangiato?» mi chiede ‘To-san,
riscuotendomi.
E’ uno dei suoi modi per mettere da parte i discorsi.
Chiedere se hai pranzato e se hai fame.
Un classico.
Gli sorrido ancora, annuendo.
«Aye, ma ad una cena
in famiglia non si dice mai di no», sghignazzo serenamente,
vedendolo
sorridere a sua volta.
E’ da tanto che non passiamo del tempo tutti e tre insieme.
Se possiamo, tanto vale sfruttare l’occasione.
Chissà quando ce ne capiterà un’altra.
Lo seguo in cucina, dove
‘Ka-san sta ancora borbottando fra
sé e sé.
Ormai anche quello è diventato d’abituale routine.
Vedo però che è un piccolo sorriso, quello che
gli increspa
le labbra.
In fondo, è pur sempre la mia mamma.
Il susseguirsi di eventi
tranquilli, dopo, fu molto più presente di
quanto io stesso potessi sperare.
«Guercino!»
E’ incredibile quanto risuoni
alta la voce dello Zio nella
piazza dinnanzi al Quartier Generale.
Eppure, con tutti i ragazzi di fine Accademia che sono lì
radunati, dovrebbe confondersi nel trambusto e nel vociare dei
presenti.
Ci troviamo lì anche noi, tutti in ghingheri.
‘Ka-san nella sua uniforme graduata, con tanto di meriti e
medaglie in bella mostra.
A sua volta anche ‘To-san, anche se è andato
-Sotto mia “umile” richiesta- alla
ricerca di Cedric e di suo padre per scattare una foto tutti insieme.
Io, invece, indosso per la prima volta la divisa.
Sono diventato un militare, proprio come i miei genitori.
Mi sento entusiasta come non mai.
Anche perché sto già pensando all’esame
per Alchimista di
Stato.
Non dovrei correre così tanto, ma oggi non riesco a stare
dietro ai miei pensieri.
E’ come se scappassero via da soli.
«Guercinooooo!
Ehi!»
Lo Zio, intanto, continua a chiamare ‘Ka-san.
Ma come sempre, lui fa finta di nulla.
Si volta sì nella sua direzione, però non lo
calcola
minimamente.
Guarda un punto oltre a lui, concentrando l’attenzione del
suo unico occhio un po’ più avanti.
Oggi, in via eccezionale, ha deciso di fare a meno della
benda.
E’ un po’ a disagio e si vede, ma cerca anche di
non
pensarci.
Quando gli ho chiesto perché ha semplicemente detto che gli
andava.
Ha però nascosto un po’ la cicatrice con la
frangetta, che
porta un po’ più lunga sul lato sinistro.
Forse proprio per coprirla in casi come quello, chissà.
Non ho voluto domandargli anche questo.
Se basta a farglielo affrontare del tutto, tanto meglio
così.
«Guercino!»
Ancora un richiamo.
Più alto dei precedenti.
E a questo punto, spazientito, ‘Ka-san lo guarda dopo tanto.
«Che cazzo vuoi,
coglione!» esclama a sua volta, richiamando
l’attenzione di
parecchie persone.
Roy Mustang.
La mia mamma.
La finezza fatta persona...
Un tantino perplesso, lo Zio si ferma a
poco distanza da noi,
sbattendo le palpebre.
Ma poi sorride più che mai, gettandosi letteralmente addosso
a ‘Ka-san.
«Andiamo, come sei scorbutico!» si lagna,
cominciando, con
le
nocche della mano destra, a scompigliargli i capelli, quasi fosse un
ragazzino. Vedo ‘Ka-san tentare di scrollarselo di dosso,
stizzito più che mai.
Poi dicevano di me e Ced.
Loro, a cinquant’anni e passa, sono peggio di noi.
«Tuo
figlio si diploma e tu sei così
nervoso?» continua
lo Zio prendendolo in giro, guardando poi me con quel solito sorriso.
Però non mi piace poi tanto, quel sorriso...
Difatti, eccolo lasciare
‘Ka-san per avventarsi su di me,
cingendomi il collo con un braccio.
«Congratulazioni!» esclama divertito, scompigliando
anche a
me i capelli. «E’ proprio vero, allora! Tale padre
tale figlio!»
Tento di dire qualcosa, ma
‘Ka-san mi precede.
«In realtà sarei la madre,
ti ricordo...» ribatte, vagamente risentito.
Lo Zio lo guarda, allentando un po’ la presa e permettendomi
così di respirare.
«Mica parlavo di te,
infatti!» sghignazza, ricevendo
un’occhiata letteralmente infuocata.
E per fortuna che stamattina ‘To-san gli ha impedito di
indossare i guanti proprio per evitare che desse fuoco a Zio
Maes!
Ormai libero mi permetto di ridere anche io, guadagnandoci
la medesima occhiata.
Ma non ci faccio poi tanto caso.
Sono di routine quelle occhiatacce, tanto.
Mentre loro due cominciano a litigare
come al solito, tra
borbottii sconnessi e false minacce di morte, ne approfitto per
allontanarmi il più possibile prima della cerimonia
d'apertura,
guardando distrattamente verso il cielo azzurro sopra di me una volta
solo. Ne ho passate tante, in questi ultimi anni, e quasi credevo che
non sarei riuscito a cavarmela in sveriate occasioni. Eppure eccomi
lì, ancora
vivo, insieme ai miei genitori.
Questa è la storia
della mia vita.
Un po’ triste, certo.
Ma è la mia bellissima vita.
_Note inconcludenti dell'autrice
E
dopo questa one-shot praticamente chilometrica, con la quale avevo una
voglia matta di concludere la raccolta, eccoci finalmente giunti alla
fine. Avevo scritto questa storia tantissimo tempo fa, e in essa volevo
racchiudere alcuni dei momenti più significativi di Jason,
personaggio nato quasi per caso al quale io e la mia nipotola abbiamo
voluto più bene di quanto noi stesse ci
aspettassimo.
L'abbiamo praticamente visto crescere, da bambino di tre anni a
ragazzo, ed è fin troppo normale che ci affezionassimo in
questo
modo a questo nostro Original Character e a tutto il background dietro
ad esso. Non sono mancati i sorrisi, le lacrime, le nuove amicizie e
gli amori, e a lui alla fine abbiamo affiancato Cedric,
suo migliore amico e altrettanto combinaguai; si è aggiunto
in seguito anche Dick,
suo commilitone nell'esercito, facendo sì che nascesse il
Monster Trio, se proprio vogliamo chiamarlo in questo modo.
C'è stata tutta una vita da vivere, in pratica, e posso
candidamente affermare di essere orgogliosa come non mai della storia
che io e la mia nipotola Red Robin abbiamo messo su.
Chiedo scusa per queste inutili precisazioni, ma ci tenevo davvero a
scriverle.
Spero
alla
prossima.
♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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