Nonostante non sia sicura che
dopo tutto
questo tempo ci sia ancora qualcuno disposto a leggere, io ci provo.
Ho avuto parecchie ragioni - più o meno serie - che mi hanno
impedito di portarla avanti prima.
Non starò qui ad elencarle. Posso dire che non ho intenzione
di metterci più tutto questo tempo per aggiornare.
Spero solo abbiate voglia di provare a darmi fiducia ancora una volta.
Bon, a voi l'ardua sentenza.
Impiegai diversi minuti per
convincere Charlie che no, non avevo battuto la testa contro l'asfalto
e no, non vedevo uccellini azzurri e stelline girarmi in tondo sopra la
testa.
Riuscii addirittura ad evitarmi il giro in ambulanza, solo dopo essermi
sottoposta alle prove di mio padre che, a parer mio, assomigliavano
tanto alla procedura che usava quando fermava un auto e sospettava che
il conducente fosse in stato di ebbrezza.
L'ambulanza fu chiamata per il povero malcapitato alla guida del
furgone che stava per trasformarmi in una frittella. Nell'urto si era
procurato un grosso taglio sopra l'occhio destro e potevo solo
immaginare il mal di testa che ne sarebbe seguito e al quale, ero
sicura, avrebbe contribuito lo sceriffo con una delle sue ramanzine.
Stranamente riuscii anche a convincere Charlie a restare alla centrale
per occuparsi delle scartoffie relative all'incidente e, di
conseguenza, a lasciarmi andare da sola al luogo dell'ultimo
ritrovamento.
Ovviamente, come condizione, dovetti promettere che sarei passata prima
all'ospedale a farmi
dare una controllata. Giurai che ci sarei andata,
premurandomi di tralasciare nella mia promessa la parola "prima".
Lui parve non accorgersene e io mi sentii autorizzata a non sentirmi in
colpa.
Nonostante il pensiero dell'assurda apparizione di quel ragazzo mi
ronzasse ancora in testa, decisi di accantonare momentaneamente la
faccenda per concentrarmi sul caso.
Ci avrei ragionato più tardi.
Parcheggiai davanti all'officina del signor Palmer, recuperai dal
sedile del passeggero valigetta e giacca e scesi dall'auto.
La zona era molto tranquilla, nessun rumore a parte lo
sciabordìo pacato dell'acqua, dato dalla vicinanza del molo
e il
verso di qualche gabbiano di passaggio. Sarebbe potuta sembrare una
zona disabitata se non fosse stato per i due vecchietti seduti davanti
alla vetrina del vecchio Fred, il barbiere. Vedendomi, interruppero il
loro fitto chiacchiericcio e seguirono con lo sguardo la mia figura,
mentre camminavo verso l'officina distante una ventina di chilometri.
Alzai il braccio in segno di saluto e in cambio ricevetti due cenni
accennati del capo. Sentii i loro sguardi piantati tra le scapole
finchè non attraversai l'ingresso.
L'interno era esattamente come la si potrebbe immaginare: uno spazio
mediamente grande, decisamente poco ordinato e disseminato di attrezzi,
pezzi di ricambio - a terra e su tavoloni di legno - e olio. Olio da
motori che chiazzava ovunque il cemento grezzo del pavimento e il cui
odore forte impregnava l'aria. Un paio di auto erano parcheggiate verso
il fondo del locale, pronte per essere controllate. A vederle,
tuttavia, sembravano più che altro pronte per lo
sfasciacarrozze.
Sembrava non ci fosse nessuno ma un forte e continuo rumore metallico
mi suggerì il contrario. Feci qualche passo avanti e, da
sotto
una delle sue auto, vidi spuntare due gambe fasciate da un paio di
vecchi jeans logori e macchiati di scuro in più punti.
Mi schiarii la gola per palesare la mia presenza e subito il clangore,
provocato dagli attrezzi, cessò.
“Eccomi, arrivo subito!” La voce arrivò
attutita da sotto il veicolo.
Il carrellino su
cui era sdraiata la figura scivolò in avanti e
le ruote produssero un cigolìo abbastanza fastidioso.
L'uomo si
alzò a fatica. Doveva avere all'incirca settant'anni,
i capelli bianchi e radi, chiazzati di grigio in alcuni punti. La barba
folta e lunga copriva parte della salopette che indossava e che,
probabilmente, in passato non lo strizzava nell'area dell'addome come
invece faceva ora. L'impietoso
scorrere del tempo.
Il suo sguardo
curioso e attento mi riscosse dai miei pensieri, così
allungai una mano verso di lui.
Mi sorrise cordiale, facendomi notare però le condizioni
delle
sue, mentre tentava inutilmente di ripulirle dall'unto con un vecchio
straccio che forse un tempo era stato bianco.
Risposi con un sorriso, abbassando la mano.
“Buongiorno,
lei è Jedediah Palmer?”
“In
carne, ossa e artrosi, Miss!” disse con un curioso
accento texano.
“Piacere,
signore. Mi chiamo Isabella Swan, sono qui per la telefonata che ha
fatto quasta mattina alla centrale.”
Un lampo di consapevolezza illuminò i suoi occhi, seguita
anche
da quella che mi sembrò un'ombra di terrore nel sentire la
parte
finale della mia frase.
“Oh,
Swan! Lei dev'essere la dottoressa, la figlia del buon Charlie!
Ne parla spesso, sa? Ho letto qualche articolo su di lei e sul suo
lavoro. Sa, mia moglie - Peggy Sue - è un'appassionata di
queste
cose. Conosce a memoria ogni battuta di ogni puntata della Signora in
Giallo! Impressionante, mi creda!” sorrisi, divertita
dall'incompatibilità tra me e Jessica Fletcher e le
rispettive
professioni.
“Sono
io, signore. Alla centrale c'è stato un piccolo - uhm - imprevisto,
ma a breve arriveranno degli agenti per circoscrivere la zona a dovere.
Io sono un'antropologa. Collaboro spesso con la polizia in queste
situazioni.” specificai, notando lo
sguardo confuso dell'uomo al
termine "antropologa". “Avrei bisogno di dare
un'occhiata al...vorrei
che mi mostrasse quello che ha rinvenuto.”
Evitai di nominare il termine cadavere,
dato che il pover'uomo sembrava già sufficentemente scosso
all'idea di tornare sul luogo.
“Oh,
certo...certo. Le-le faccio strada, Miss.” balbettò
flebilmente. Appunto.
Uscimmo dall'officina e mi condusse verso una vacchia rimessa distante
una decina di metri. Andammo sul retro e a quel punto l'incedere
dell'uomo si arrestò quasi di colpo. Si girò
verso di me,
mentre i suoi occhi saettavano ovunque come impazziti, senza posarsi
mai su qualcosa di preciso e le mani torturavano lo straccio sporco
d'olio che ancora stringevano.
“E'
là, qualche passo più avanti...Io...Io non...” La
voce gli usciva tremante, così lo raggiunsi e posai una mano
sulle sue, fermandole.
“Stia
tranquillo, signor Palmer. Non deve venire con me. Perchè
non torna in officina? Prima ho interrotto il suo lavoro.” gli sorrisi
incoraggiante, stringendo un po' la presa.
Mi rispose con un sorriso tirato ma chiaramente riconoscente e, con un
cenno del capo, ritornò indietro decisamente spedito per un
vecchietto affetto da artrosi.
Quando lo vidi sparire all'interno, mi diressi dove mi aveva indicato.
Intorno a me l'erba era giallognola e secca in diversi
punti, alta e incolta. Tuttavia non dovetti faticare molto per trovare
quello che
cercavo. Poco più in là, l'erba era piegata a
formare uno
spiazzo circolare. Al suo interno un corpo immobile.
Mi avvicinai maggiormente e potei constatare che si trattava di una
donna. I vestiti, strappati in più punti, erano sporchi ma
questa volta non c'erano tracce di sangue su di essi.
Mi piegai sulle ginocchia, appoggiando a terra la valigetta ed
estraendo i guanti in lattice per poi indossarli.
Ad una prima occhiata, la donna doveva avere intorno ai quarantacinque
anni. Le braccia erano strette al petto, come a proteggersi, e le gambe
erano piegate verso l'addome. Con cautela spostai leggermente il viso,
girato di lato verso il terreno, e scostai i capelli scuri che
coprivano il collo.
Ed ecco che il dubbio che - come un tarlo - mi aveva tormentato da
quando avevamo ricevuto quella telefonata, divenne una certezza.
Due fori.
Identici a quelli dell'altra vittima.
In quel momento sentii il rumore di pneumatici avvicinarsi. Mi rialzai,
presi l'IPhone dalla tasca dei jeans e scattai una foto al corpo e una
nel dettaglio ai due segni. La
polizia ne avrebbe fatte altre per il caso, ma io ne avevo bisogno
subito. Dovevo mostrarle a qualcuno e quella era la mia tappa
successiva.
Mi allontanai, tornando verso l'officina. Mentre mi avvicinavo, scorsi
mio padre e Mike parlare con il signor Palmer, mentre altri due agenti
scaricavano il necessario dalle auto della polizia.
“Charlie.”
Mio padre
alzò il viso dal taccuino su cui, con ogni
probabilità, stava appuntando le informazioni fornitegli da
Jedediah.
“Bells.
Stavamo per raggiungerti.” fece cenno di aspettare
ai due
uomini e mi raggiunse. Ci spostammo di qualche passo per evitare al
signor Palmer i dettagli.
“Allora,
che mi dici?”
“E'
una donna, sui quaranta. Stessi segni.” risposi, grave e
concisa.
Charlie mi fissò, uno sguardo deciso ed inequivocabile
quanto la domanda implicita che celava.
Non esitai a rispondere.
“Temo
che ci troviamo davanti ad un seriale, papà.”
Rimase a guardarmi immobile per qualche secondo, poi con uno sbuffo si
passò una mano tra i capelli, grattandosi la nuca. Era teso,
preoccupato e decisamente confuso.
In effetti l'idea di un serial killer in un paesino come Forks aveva
dell'incredibile.
“Ok,
mando i ragazzi.” fece un cenno a Newton,
che richiamò i due agenti e si diressero tutti e tre verso
la rimessa.
“Papà,
io devo andare in un posto. Devo chiedere un parere ad
un vecchio amico. Ci vediamo più tardi a casa, va bene? Ho
l'impressione che per un po' dovrò restare.” dissi, con un
sorriso amaro.
“D'accordo,
Bells. A dopo. Ah!” mi richiamò
quando avevo
già fatto qualche passo verso la mia auto. “Che ti ha detto il
dottore?”
Purtroppo ci misi qualche secondo di troppo a collegare e il mio
sguardo confuso dovette tradirmi, perchè Charlie mi rivolse
un'
occhiata di rimprovero.
“Bells...” il tono era sicuramente
di rimprovero, misto però anche a rassegnazione.
“Ci
sto andando. Guarda: sto andando...” sorrisi furba, aprendo
lo sportello dell'auto.
Misi in modo, ridendo alla vista dello sceriffo che scuoteva la testa,
mentre si incamminava verso il signor Palmer.
Fermai l'auto nel parcheggio davanti all'ospedale. Recuperai la borsa e
scesi.
Mentre mi incamminavo verso l'entrata, vidi uscire due figure, un uomo
e una donna. A giudicare dall'aspetto dovevano avere più o
meno
la mia età.
Il ragazzo aveva il viso teso e lo sguardo di uno che avrebbe preferito
andare in guerra piuttosto che rimettere piede in quel posto. Era
biondo, alto e snello. Decisamente bello. La ragazza lo teneva a
braccetto, sorridendo e accarezzandogli lentamente il braccio. Aveva i
capelli neri e corti, scompigliati ad arte. Era minuta e aggraziata.
Pronta per salire su una passerella. Senza dubbio innalzavano
drasticamente il livello estetico della città, considerando
la
media di Forks.
Quando ci trovammo a pochi metri di distanza, vidi lei alzare lo
sguardo e puntarlo senza esitazione nel mio. Il suo sorriso si
allargò ulteriormente e, non appena fummo spalla contro
spalla,
parlò.
“Buona
giornata, Bella!”
Mi fermai immediatamente, voltandomi confusa a guardare le loro schiene
allontanarsi. Salirono su una Mercedes nera e partirono.
Rimasi imbambolata a fissare l'auto, finchè la vidi svoltare
ad un incrocio e sparire.
“Cosa...?”
Ero certa di non
conoscere quella ragazza. Ne ero più che
sicura, la mia memoria fotografica era uno dei miei punti forti. Allora
come?
Certo, Forks era un piccolo paesino. Le persone si conoscevano tutte e
sapevano tutto di tutti. Ipotizzai che avesse sentito parlare della
figlia
dello sceriffo. Eppure un particolare stonava.
Mi aveva chiamata Bella. E quello era un soprannome che solo le persone
a me più vicine conoscevano e usavano.
Ripresi a camminare, entrando nell'edificio scuotendo la testa,
frastornata.
Quella giornata stava diventando ogni minuto più strana.
“Buongiorno,
posso esserle utile?”
L'infermiera al banco accettazione mi sorrise cordiale. Era una donna
sui cinquant'anni, un viso tondo e paffuto e un'espressione tanto
gentile.
“Si,
la ringrazio. Se fosse possibile avrei bisogno di parlare con un
medico. Ho avuto un piccolissimo incidente stamattina e, avendo un
padre abbastanza apprensivo, vorrei controllare che sia tutto ok.”
spiegai.
“Certo,
mi può dire il suo nome?” chiese la donna,
iniziando
già a picchiettare le dita tozze sulla tastiera del pc.
“Isabella
Swan.”
La donna sollevò di scatto il viso, inchiodandomi con uno
sguardo tra il sorpreso e l'eccitato. Sembrava le avessi appena
rivelato di essere la First Lady.
“Lei
è la figlia dello sceriffo!!” urlacchiò,
elettrizzata, facendo voltare diverse teste - tra pazienti e personale
medico - nella nostra direzione.
Imbarazzata, mi sporsi ulteriormente verso il bancone, abbassando il
tono.
“Ehm,
già...”
“Oh, ma
che bello! Sai - oh, posso darti del tu? Certo, sei
così giovane che potresti essere mia figlia! - ho letto
tutti
gli articoli che ti riguardano! Sei una celebrità qui a
Forks!
Giovanissima e uscita da poco dall'università hai affiancato
il
tuo mentore in quel caso che poi è finito su tutti i
giornali.
Che brutto fattaccio! E se non ricordo male, sei stata fondamentale
nella risoluzione!! Oh, cara! Che bella sorpresa trovarti qui, sei
venuta a trovare tuo papà? O forse sei qui per lavoro?”
concluse con fare cospiratorio.
Ero rimasta interdetta. Un po' per la parlantina-che-stordisce della
donna, un po' per la quantità di informazioni che sembrava
conoscere sul mio conto.
Ancora quel
caso. Era la seconda volta quel giorno.
Decisi di mettere fine alla situazione, avevo una certa fretta e non
potevo sprecare il pomeriggio per quella stupida e inutile visita
medica.
“Uhm,
entrambe” sorrisi cordiale “Senta, se ora
è un momentaccio posso passare più tardi...”
La donna si
riprese e agitò la mano in aria come a scacciare un insetto.
“Che
dici, cara! Ti chiamo subito un medico.” mi assicurò,
riprendendo a pigiare sui tasti. “Vediamo...ah! Ecco, il
dottor Cullen
dovrebbe aver finito ora una visita. Aspetta che lo rintraccio!”
Sollevò
la cornetta e premette tre tasti, poi restò in
attesa continuando a sorridermi. In modo vagamente inquietante.
Mi guardai intorno, giusto per spezzare l'imbarazzante connessione di
sguardi, e notai che in effetti la sala d'aspetto del pronto soccorso
era semi-deserta. Nessun ferito grave, a giudicare dall'assenza di
pezze insanguinate tra le mani di quelli presenti.
“Ecco,
cara.”
tornai a prestare attenzione alla donna che stava
posando il ricevitore “Secondo piano, in fondo
al corridoio sulla
destra. Sulla porta c'è la traghetta col nome. Dottor
Cullen,
non puoi sbagliare!” concluse con un sorriso.
La ringraziai e raggiunsi l'ascensore. Prima che le porte si
chiudessero del tutto la vidi sventolare la mano con fare frenetico
nella mia direzione.
“Avanti.” Una voce calda e gentile
rispose al mio bussare.
Aprì la porta ed entrai nella stanza. Individuai
immediatamente
la figura dell'uomo, in piedi accanto ad una scrivania in legno scuro,
intento a leggere quella che sembrava una cartella clinica.
Alzò lo sguardo e mi sorrise gentile.
“La
signorina Swan, presumo.” mi venne incontro
allungando la mano.
La strinsi, sorprendendomi di quanto fosse fredda e liscia.
“Sono
io.”
risposi, contraccambiando il sorriso.
Hanno spostato la
settimana della moda a Forks?
mi ritrovai a pensare. In un solo giorno avevo incontrato tre persone
che avrebbero tranquillamente potuto essere modelli delle griffe
più rinomate.
Quattro. Mi
corresse il mio subconscio. Il ragazzo di stamattina...
“Piacere,
Carlisle Cullen. Allora, signorina Swan. Come posso
aiutarla?” La voce del dottore mi
riportò alla realtà.
“Oh,
vede, stamattina ho avuto un banale incidente. Tuttavia, mio
padre è un po' apprensivo e ha voluto che venissi a fare un
controllo.” spiegai, ripetendo
più o meno quello che avevo detto all'infermiera.
Lo vidi annuire e fissarmi intensamente. Per qualche strano motivo
avevo la sensazione che sapesse perfettamente di che incidente
parlassi. Assurdo.
“Conosco
Charlie e direi che sarebbe meglio farlo questo controllo,
così da rassicurarlo.” disse, facendomi segno
di sedermi sul
lettino.
Annuii
distrattamente, persa ancora nei miei ragionamenti.
Lo osservai
meglio, mentre indossava i guanti in lattice.
Improvvisamente un particolare mi colpì in pieno. Il colore
dei
suoi occhi era talmente insolito, per non dire unico, che era difficile
non notarlo. Infatti, grazie anche alla mia famosa memoria fotografica,
mi tornarono in mente le immagini dell'incontro di poco prima fuori
dall'ospedale.
Quei due
ragazzi...
All'inizio non ci
avevo dato troppa importanza, distratta dalla frase
della ragazza. Entrambi avevano gli occhi del medesimo colore del
dottore. Ambra.
E subito un paio
di occhi ancora più magnetici tornarono nella mia mente.
Il ragazzo che mi
aveva salvato quella mattina.
Non c'era dubbio.
Il colore era lo
stesso.
Alla
prossima.
(Se mai qualcuno avesse davvero letto il capitolo XD)
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