Waterloo, 18
giugno
1815
Il piano di battaglia era semplice,
ed a detta di Francis
Bonnefoy, un vero capolavoro.
Muovere dritto al centro della linea
alleata in modo da fare
una breccia fra il nemico, tagliarlo in due, spingere la
metà britannica su Hal
e la metà prussiana su Tongres, fare di Wellington e di
Blucher due enormi
tronconi; prendere Mont-Saint-Jean, impadronirsi di Bruxelles, buttare
il
tedesco nel Reno e l’inglese nel mare. Una volta divisi,
Napoleone li avrebbe
bombardati senza tregua. Bisognava far convergere
l’artiglieria su un dato
punto, e tempestare quel punto con la mitraglia e con i cannoni.
Colpire,
colpire, colpire senza tregua. Mai indietro. Il generale contava
sull’artiglieria,
e loro ne avevano eccome.
Duecentoquaranta bocche da fuoco
francesi contro
centocinquantanove inglesi.
Era così
facile.
Quando il giovane Bonnefoy la sera
prima era stato portato
da suo zio, uno dei pochissimi veterani sopravvissuti alla campagna di
Russia
del 1812, al cospetto del generale Napoleone; la vittoria sembrava ad
uno
schioppo di tiro.
Ah, le
Général. Aveva
dovuto pregare suo zio in ginocchio per poterlo finalmente incontrare
di
persona. Quella notte pioveva ed il fango ostacolava i movimenti
più semplici,
eppure il generale aveva acconsentito a riceverli, e Francis aveva
potuto
ascoltare quella che era la perfetta pianificazione della vittoria
direttamente
dalle sue labbra.
Era rimasto ad osservarlo in
silenzio, sforzandosi di
apparire più freddo e composto possibile, quando in
verità si sentiva
trepidante come un bimbetto che aspetta il suo primo regalo. Ma il
regalo più
inatteso era venuto uno volta tornati all’accampamento: lo
zio gli aveva
promesso che sarebbe stato destinato alla Belle-Alliance. Far parte
della
Belle-Alliance significava trovarsi sotto diretto comando di Napoleone,
prendere ordini direttamente dal generale significava tutto, almeno per
lui.
Francis infatti era ancora uno dei
pochi tra i suoi commilitoni a
pronunciare il nome di Napoleone con assoluta reverenza. Dopo la
fallimentare
campagna di Russia e la fuga, in molti cominciavano a guardarlo con
occhi
diversi. Ma Napoleone era tornato, e stavolta avrebbe vinto.
Era così
sicuro
che avrebbe vinto.
Il generale era un genio, uno
stratega superiore a tutti i
capi dell’esercito francese.
Ad Abukir una delle sue palle di
cannone aveva ucciso sei
uomini.
Per il soldato Bonnefoy era impossible perdere quella volta.
S’immaginava l’imperatore a
cavallo, che scrutava il campo di battaglia da un’altura con
il suo cannocchiale,
il suo volto autoritario sotto il cappello a tricorno della scuola di
Brienne,
la divisa verde, soprabito grigio, panciotto e pantaloni di velluto,
stivali
con speroni d’argento e spada al fianco; pronto a scagliare
l’esercito in campo
aperto contro il nemico.
Ma dov’era adesso il
generale?
Con suo gran dispiacere, Francis era
tornato all’ultimo
momento sotto il comando del principe Jérome Bonaparte,
sulla strada di
Nivelles, a Hugomont.
Era lì che si trovava
adesso. Lui ed altri suoi commilitoni,
rintanati come ratti nella cappella del castello.
L’attaco al vecchio
castello di Hugomont era cominciato in
ritardo, così come il resto della battaglia, ed era stato
giudato in fretta e
furia, troppa furia. Francis, deluso, non aveva potuto fare altro se
non
lasciarsi trascinare nel fango dall’intera ala sinistra
francese.
Ne aveva uccisi tre, tutti inglesi. Li riconosceva dalle
divise.
Proprio mentre stava per gettare a
terra la sua carabina ed
afferrare quella appartenuta al cadavere accanto a lui,
riuscì a percepire, tra
il rumore assordante degli spari, una frase distinta:
<< Balle
de
canon! >>
Francis non fece neanche in tempo a
voltarsi, che si ritrovò
a terra fra mille pezzetti di pietra e vetro. Provò un
dolore acuto alle gambe,
fece per gridare dal dolore ma la voce gli morì in gola. Le
immagini si fecero
sfocate, poi una forza sconosciuta lo costrinse a chiudere lentamente i
profondi occhi azzurri.
***
Quando rinvenne la cappella era
diventata una fornace. Francis
era ancora sdraiato per terra, ma oltre a qualche cadavere non
c’era traccia
dei suoi compagni. La testa gli girava, e non riusciva a distinguere
bene le
voci provenienti dall’esterno.
Urla o sussurri? Spari o parole? Voci
inglesi, tedesche o
francesi?
Tossì violentemente a
causa del fumo, e sempre per colpa di
quest’ultimo gli occhi cominciarono a lacrimargli.
Gli
ci vollero pochi
secondi per inquadrare la situazione, e la sua mente ormai provata
restrinse il
campo all’unica spiegazione possibile: quei
cani bastardi degli inglesi avevano
ucciso tutti i suoi compagni ed avevano incendiato la cappella.
Doveva uscire di lì, ma
non riusciva a muoversi, qualcosa
gli bloccava le gambe. Spossato, alzò il collo
più che potè, e con orrore
scoprì che ciò che l’enorme statua in
legno della Madonna appoggiata al muro
gli era piombata addosso, e lo teneva inchiodato al pavimento con tutto
il suo
peso. Tentò allora di mettersi a sedere, reggendosi sui
gomiti insanguinati in
un ultimo patetico sforzo.
Subito ricadde a terra privo di
energie. Chiuse nuovamente
gli occhi e rassegnato, si abbandonò al suo destino.
In quegli attimi ebbe il tempo di rimettersi nelle mani di
Dio e di maledire sè stesso e quella battaglia.
Francis Bonnefoy morì
soffocato dal fumo e dalla stanchezza,
mentre l’unico raggio di sole in quella giornata tetra,
penetrato da uno
spiraglio sul tetto della cappella, si chinava a baciargli il volto.
***
Eccomi qua. Come vedete in questo
capitolo il personaggio
storico non interagisce molto con il protagonista, ma ho voluto
mantenere la
figura di Napoleone distante da quella semplice del giovane soldato.
Ah, e
Francis si sbaglia, furono i francesi stessi ad appiccare
l’incendio alla
cappella a Hugomont. L’hanno lasciato lì
perchè credevano fosse morto. Cosmopolita
e miristar, sono contentissima che
il capitolo di Sesel vi sia
piaciuto, e spero con tutto il cuore che vi piaccia anche questo.
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