Nove
~
Di
segnali stradali assenti
Non
quiete del sonno, ma della breve morte:
quando
il dolore è eccessivo,
bisogna
morire un po' per andare avanti.
– Susanna
Tamaro –
Adesso.
Così
abbozzolato nel lenzuolo bianco, sembrava un pallido, triste bruco,
con due gocce livide a decorare il muso e una calotta di irti aculei
neri attorno al capo.
Il
bruco restava immobile sotto i suoi occhi e John restava immobile
sulla poltroncina. Nessuno aveva avuto il coraggio di fargli notare
l'ovvio. Che vegliarlo ininterrottamente per ore, ignorando le
proprie elementari funzioni vitali, non avrebbe influito in alcun
modo sulla situazione attuale.
John
era un medico, certe cose le sapeva. Ma sopratutto, sapeva di non
sapere certe cose. Ed una cosa che in quel momento era
assolutamente certo di non sapere, era il perché stargli vicino
fosse indispensabile. Tutto quel che sapeva, era di doverlo fare e
basta.
John
percepiva, in un anfratto molto lontano e confuso, che glielo lo
doveva. Lo doveva a lui, a sé stesso. Lo doveva a loro, dove quel
“loro” era inteso come qualcosa di ancora indefinito e
difficilmente quantificabile.
Deboli
scuse ritardatarie per compensare una colpa solo intenzionale che lo
stava divorando – che l'avrebbe divorato ancora, per sempre. Le
intenzioni posso essere più micidiali delle azioni compiute.
Dodici
ore prima.
Non
c'era tempo. Non c'era più tempo.
Era
a malapena in grado di formulare questo pensiero mentre sentiva la
vita scivolargli di dosso a ondate, lasciandolo ogni attimo più
vuoto. Emorragia interna. La sentenza era arrivata da chi? Sapeva che
aveva importanza, ma non riusciva a mettere a fuoco l'identità. Non
riusciva a mettere a fuoco niente.
Mani.
Quelle di John, sostituite poi da altre, estranee. Odori. Acqua di
colonia, cuoio, carta da parati, inchiostro, azalee. Casa di Mycroft.
L'accordo.
Dovevano aver fatto un accordo, lui e John. La telefonata, prima, in
auto. Le parole secche di John contro il microfono del cellulare.
Erano d'accordo e lui ne era all'oscuro. L'avevano scavalcato.
Sorpresa, delusione, rabbia. Poteva dedurlo, ma non l'aveva fatto.
Perché? Gli ormoni, la fiducia incondizionata, le emozioni. Le
emozioni.
Fottute
emozioni.
Era
in piedi o era steso? La percezione dell'equilibrio era sfalsata.
Sherlock
mosse il braccio che gli avevano afferrato – o almeno credette di
farlo. La presa non si allentò. L'ago penetrò la pelle senza che
lui ne avvertisse il dolore. Tutti i recettori erano sovraccarichi.
L'ultimo sprazzo di dolore arrivò direttamente dal ventre e si diluì
nel percorso da lì al cervello. Perduto, annichilito. L'orrore di
stare perdendo anche il dolore.
Davanti
agli occhi ciechi, si stagliava con la chiarezza di una proiezione
cosa stavano per fargli. L'aveva chiaro e, per quanto disperatamente
cercasse di mantenersi vigile, sapeva che il sedativo avrebbe fatto
effetto in minuti, secondi.
Ora.
Stava facendo effetto ora. E lui non avrebbe potuto impedirlo. Lo
stavano esautorando dalla sua stessa vita, impedendogli di prendere
la decisione.
Non
potevano farlo.
No.
No.
John,
no.
Diglielo,
digli di no.
Digli
di no, John.
John.
Glielo
dirai, vero?
John?
Ti
prego.
Adesso.
Fu
un odore. Venne trascinato fuori da quella distorta dimensione
onirica e catapultato nella realtà materiale del mondo da un odore.
Dal sistema limbico ripescò la memoria a lungo termine associata a
quell'odore e per un momento si trovò a chiedersi se non si fosse
addormentato nuovamente davanti alla tv con la testa posata sulle
gambe di John.
Non
era così, ovviamente.
Il
sistema limbico registrava adesso altri odori, meno familiari. Meno
piacevoli. Quello asettico delle lenzuola sterilizzate. Quello
pungente dei detersivi per pavimenti. Quello basico del
disinfettante.
Fu
allora che il sistema limbico lasciò il posto al telencefalo.
Ricordò gli eventi della notte prima e mise a fuoco dove si trovava.
E Sherlock sperimentò una variegata gamma di emozioni cui non ebbe
la forza di sottrarsi. Alla sua destra un bip-bip la cui
frequenza aumentava esponenzialmente, alla sua sinistra un respiro
strozzato e un rumore di stoffa sfregata. La pressione di una mano
calda sulla spalla, la preoccupazione di John che superava la
barriera dei sedativi investendolo di tutta la sua emotività.
Sherlock
deglutì un sapore metallico e sospirò. Di sottrarsi a questo, non
solo non aveva la forza. Non voleva. Era l'unica cosa che lo faceva
sentire almeno un po' vivo in mezzo ai quei tubi e agli elettrodi e
all'assenza chimica del dolore.
Fece
volentieri a meno dell'ultimo dei sensi. Fingere un'opportuna cecità
lo aiutava a superare il trauma che gli causava quella momentanea
menomazione. Era semplicemente agghiacciante non possedere il
completo controllo delle facoltà mentali e fisiche. Non poter
constatare empiricamente cosa gli avevano fatto. Cosa gli aveva
permesso di fare.
Dodici
ore prima.
Valutazione,
decisione, azione.
John
era fuori allenamento, ma certe cose ti s'incidono nel cervello, nel
cuore, in ogni singola cellula. Una di queste cose, incisa
profondamente in John, era il tempo. Quando devi schivare una pioggia
di proiettili, quando devi arrestare un'emorragia, impari
l'importanza dei secondi. La vita è un buon metro di misura per il
tempo. E di situazioni in cui cronometrare il lasso tra vita e morte,
John poteva affermare di averne collezionate un buon numero.
Ma
un paio di volte era successo di peggio. Un paio di volte, si era
trovato costretto a cronometrare il lasso tra due vite e la morte
certa di una delle due. A decidere con una valutazione breve,
insufficiente e passabile di errori, quale dei due soldati avesse più
probabilità di essere salvato. A decidere quale dei due uomini fosse
una superflua perdita di tempo da curare.
Aveva
fatto anche questo, John. Sono cose che capitano in guerra e lui non
si era tirato indietro. Aveva scelto. Aveva scelto e non si era
pentito, perché sapeva che in una tale situazione, con mezzi e tempi
così precari, non avrebbe potuto fare di meglio. Aveva scelto ed era
confortante potersi dare tutte quelle belle scusanti. Non sarebbe
stato suo il compito di spedire a casa la medaglietta accompagnata da
una lettera.
Così
John scelse rapidamente e con insospettabile sangue freddo. Era, se
possibile, anche più facile del previsto. Non c'era da stare a
valutare granché. Le possibilità erano alquanto limitate e lui
conosceva le sue priorità. Le opzioni si erano ridotte ad una sola,
non trattabile.
Disse
loro cosa fare. Lo disse con la consapevolezza esatta di quello che
avrebbe implicato. Lo disse e ritrovò nelle espressioni intorno a
lui pieno appoggio. Non avrebbe potuto essere altrimenti.
Afferrò
il braccio di Sherlock e lo tese, esponendo la pelle diafana alle
dita inguantate di lattice del paramedico. L'ago entrò nella vena
con un movimento fluido. Era bravo e veloce. Non avrebbe sofferto.
Era
il momento di lasciare il suo braccio. Stava stringendo anche troppo.
Era il momento di lasciarlo andare.
Il
letto di mosse e John alzò la testa verso la sala operatoria di
fortuna fatta attrezzare da Mycroft. Scorse le luci abbaglianti,
il pavimento di mattonelle disinfettate, gli strumenti lucidi ben
allineati sul carrello.
Il
letto si arrestò sull'ingresso.
– Vuole
assistere? –
Voglio
assistere?
Lo
stomaco gli si contrasse fino a minacciare un rigetto.
– No.
– disse qualcuno (Mycroft? Sherlock? Lui stesso?).
Una
stretta ricambiata. E la disperata debolezza di quella stretta gli
fece girare la testa. Se non lo guardava adesso, non ne avrebbe avuto
il coraggio. Mai più. Se lo guardava adesso, avrebbe fatto qualche
puttanata. Garantito.
In
seguito, John si sarebbe chiesto per molto tempo se quello che sentì
fu pronunciato davvero o se fu solo uno scherzo del suo cervello
inondato di adrenalina. Ma sul momento capì solo “No”. Ancora
“No”.
Ce
l'aveva davanti agli occhi, scritto su ogni centimetro di quella sala
asettica. Ce l'aveva nelle orecchie, che rombava assieme al sangue
che il suo cuore si ostinava a pompare nelle vene. Ce l'aveva sotto
le dita, mutuato dalla pelle fredda di Sherlock.
John
sentì quel “No” farsi strada dentro di lui, fino ad incrinare
ogni sua certezza. Lo prese per quello che era e ancora una volta
decise. Una scelta. Un bivio.
La
scelta – illogica, assurda, controproducente – fu “No”. Più
tardi avrebbe avuto tutto il tempo di pentirsene.
Adesso.
Il
bruco si muoveva nella sua crisalide. Troppo debole, fragile.
John
staccò l'elettrocardiogramma. Aveva le mani e gli occhi e poteva
usare quelli. Poteva prendere il polso sottile di Sherlock e contarne
le pulsazioni, sentirle reali sotto i polpastrelli. Sangue che
scorreva. Poteva posargli una mano in fronte e avvertirne la
temperatura.
– Va
tutto bene. –
Parole
scontate contro occhi sigillati, labbra chiuse, pelle fredda. Era
tutto chiuso e lontano da lui, così lontano. Si sentì afferrare da
un senso di disagio e inutilità che gli ricordava il suo rapporto
con Harry.
– Sono
qui. –
Lui
deglutì. Anche John deglutì.
– Hai
sete? Ma certo che hai sete. –
Parole,
ancora parole. John non sapeva più dire da quanto tempo fossero
diventate inutili le parole tra di loro, eppure continuava ad usarle per riempire i loro silenzi. Gli servivano da rifugio di fortuna per non
perdersi in quell'uragano che erano loro due.
Cercò
dell'acqua e la trovò, una bottiglietta posata sul carrello di
fianco al letto. Versò un bicchiere.
– Ecco
qua. – mormorò sostenendogli il collo e accostandogli il bicchiere
alla bocca.
Sherlock
bevve. E sigillò nuovamente le labbra. Anche John sigillò le
labbra.
Gli
scostò i capelli appiccicati di sudore e fece scivolare le dita sul
collo. Un sospiro. Due. Veloci, come a voler reprimere qualcosa. John
picchiò duro contro quel palese rifiuto, come se non l'avesse
percepito fin dal principio. Contrasse la mascella e chinò testa. La
mano restò ancora lì per un momento, uno di quei lunghissimi
momenti in cui si resta incastrati nel patetico loop di come uscire
da una situazione in bilico.
Ebbe
infine il coraggio di abbandonare l'incavo caldo. Allora il bruco
ruppe il bozzolo, ma solo un po'. Il tanto giusto perché una zampa
uscisse fuori e afferrasse la mano prima che si allontanasse.
Era
solo un baluginio d'azzurro, un frammento quasi impercettibile. John
lo scorse tra le fessure di quella crisalide e non disse niente.
Perché non c'era niente da dire. Non c'era modo di riempire quel
silenzio, stavolta.
Le
ali erano ancora appannate, ma già si distendevano. John restò a
contemplare quel miracolo. Ogni gradazione, ogni sfumatura del
ritorno alla coscienza di Sherlock. L'azzurro gli vibrò
addosso, per poi nascondersi dietro le ciglia per un attimo, solo un
attimo. La fronte contratta e un sospiro tremulo tra le labbra, le
sue dita conficcate nella mano.
– Mi
hai sentito. –
A
John si spezzò il fiato in gola.
– Forte
e chiaro. –
Le
ali tornarono a vibrare.
Dodici
ore prima.
– Sta
scherzando? –
– No.
Direi di no. –
– Avevamo
un accordo. –
– E
io l'ho rispettato. Adesso non c'è più posto per gli accordi. –
Sherlock
non registrò altro.
La
dimensione ovattata
dei sedativi lo accolse nelle sue soffici spire. Ci
si abbozzolò,
l'anima ripiegata su
sé stessa in
infiniti strati.
Chiuse
fuori
il mondo esterno in
quella labile barriera.
Ci si chiuse e lì
rimase, nel blando, disperato tentativo di difendere loro due.
Gli
viveva dentro, ancora per un poco. Una
crisalide dentro la
crisalide. Era
troppo fragile per proteggerlo da solo e troppo disperato per
lasciarlo andare. C'erano solo loro due e
il resto del mondo che remava contro.
Dolore, più
straziante di quello fisico. L'inutilità della chimica.
Non
aveva mai pregato, Sherlock.
E nemmeno stavolta
lo fece.
Restando perfettamente in linea con la sua natura pragmatica e votata
alla logica, il suo ultimo pensiero cosciente lo rivolse all'unica
persona che, più di una qualche divinità astratta, aveva il potere
di cambiare le cose.
Sherlock
pensò a John.
Adesso.
Un
gomito puntellato sul letto e la testa posata sulla mano. Gli occhi
di John gli scivolavano addosso mentre i sedativi smaltivano
lentamente il loro effetto. Era come la nicotina, ma in qualche modo
peggio. Le sinapsi di Sherlock avevano riacquistato sufficiente
lucidità da permettergli di focalizzare quel momento come non
avrebbe mai potuto.
Il
loro respiri irregolari. La barba malrasata di John. La sua mano sul
suo polso, il pollice che tracciava distrattamente cerchi sulla pelle
scoperta. Quella sfumatura nello sguardo, la voglia di sentirsela
sempre addosso.
Se
la stava facendo sotto, Sherlock. Quello era l'uomo che l'aveva messo
incinto e lui se le stava facendo sotto. Di brutto.
La
sua voce: – Lo so che non è il momento più adatto. –
Non
rispose niente. Aveva di nuovo la gola secca.
E
continuò a non dire niente mentre le dita di John abbandonavano il suo
polso per raggiungere il volto. Le sentì sulla tempia e poi più
giù, a seguire il contorno dell'orecchio, danzando tra un riccio e
l'altro. Gli facevano il solletico. Sherlock socchiuse gli occhi e
l'osservò attraverso le ciglia.
La
stava prendendo alla larga. Era lo sport preferito di John e non si
smentì nemmeno questa volta. Lasciò che indugiasse ancora, prima
con lo sguardo, poi con le dita. Lasciò che le nocche tracciassero
il percorso della mascella fino al mento. Che il pollice si
soffermasse lì, sulla fossetta, indeciso, e che infine premesse,
tirando la pelle a schiudergli le labbra. Che lo sguardo assaggiasse
prima della bocca.
Iniziò
cauto e attento, John, gli occhi ancora aperti e le mosse gentili. I
corpi un po' più vicini e i respiri mescolati e uno sfiorare di
carne quasi impercettibile.
E
poi si stavano baciando.
Umido,
caldo, morbido. John mosse le labbra sulle sue e Sherlock si trovò a
rispondere, inseguendolo. Gli succhiò il labbro, gli fece trovare la
lingua. Seguì quel movimento lento che gli stava sciogliendo i lombi
di un calore bagnato. Ci provava a respirare normalmente, ma si
arrese presto. Si stava facendo tutto meno soffice e più penetrante.
Quando John gli infilò la lingua sotto il labbro, esplorando piano
la mucosa, riuscì solo ad ansimargli addosso e aggrapparsi alle
lenzuola.
– Disturbo?
–
Sherlock
serrò gli occhi mentre John lo liberava da quella dolce morsa.
Mycroft.
Vide
John ruotare appena il capo, impacciato da un imbarazzo che non
sapeva affatto di vergogna.
Si
schiarì la voce e alzò la testa: – Sì. –
– Fuori
dai piedi, Mycroft. – aggiunse per lui.
C'era
un bel silenzio, adesso. Era tutto nuovo e Sherlock si scoprì a
gustarlo.
– Dicevamo?
–
John
lo stava guardando. L'imbarazzo era ancora palpabile tra di loro e la
persistente assenza di vergogna gli dava un brivido che era superfluo
– superfluo, santo cielo – definire.
Si
umettò le labbra, virando subitaneamente la sua attenzione.
– Che
non sarebbe il momento più adatto. –
Gli
sorrise, John. Due fossette ad increspargli le guance e quelle rughe
sottili attorno agli occhi capaci di mutarlo in gioia pura ed
essenziale. Sherlock contrasse le dita sulla sua mano e lui gliele
aprì, una alla volta, delicatamente, infilandovi le sue in mezzo.
Calore,
presenza. Presenza. Presenza.
– Quando
mai c'è stato un momento adatto? –
John
chinò la fronte sulla sua spalla e sospirò. La fatica di alzare il
braccio fu ricompensata dalla consistenza dei capelli sotto il suo
palmo e dal brontolio sordo di John che apprezzava il gesto. Aveva le
dita bloccate nelle sue e una spalla immobilizzata dal peso della sua
testa.
– Mi
hai incastrato. – constatò.
– Non
aspettarti che ti sposi. –
È
già difficile soffocare una risata da soli, figuriamoci in due.
Dodici
ore prima.
Qualcuno
gli chiese qualcosa, che John non afferrò. Non rispose. L'emicrania
pulsava violenta dietro gli occhi. Si premette le mani sulle tempie,
in silenzio. Poi un rumore metallico attirò la sua attenzione. C'era
un bicchiere sul tavolino davanti, con tante bollicine che partivano
dalla pastiglia sul fondo e andavano a morire sulla superficie
dell'acqua.
Acido
acetilsalicilico. Era
quasi certo che ci fosse qualcosa di più forte nella farmacia
domestica di
Mycroft, ma evitò diplomaticamente di commentare.
Bevve
d'un fiato, con le
bollicine che gli raschiavano la gola. Posò
il bicchiere e si
stropicciò gli occhi.
– Grazie.
–
Mycroft
sedette nella poltrona di fianco, allentandosi il nodo della
cravatta. Del gessato con cui l'aveva accolto ore
prima, erano
sopravvissuti solo i pantaloni, la camicia aveva le maniche
arrotolate sugli avambracci, un ciuffo di
capelli era sfuggito
dall'impeccabile
ordine cui era
costretto.
Erano
le cinque del mattino e fuori iniziava ad albeggiare. Le
luci erano fredde e tenui.
– Vorrei
poterle dire qualcosa d'incoraggiante. –
– Vorrei
poter dire che me ne
fregherebbe
qualcosa. –
John
intrecciò le dita sotto il mento e lo guardò stancamente. Mycroft
ricambiò lo sguardo, l'espressione
di curiosa concentrazione e
il capo lievemente inclinato in quella posa così da Holmes.
– Ad
ogni azione corrisponde una reazione
uguale e contraria, dottor
Watson. –
– Avevo
nove in fisica, ma grazie per il ripasso. – ribatté,
sforzandosi di esprimere un sarcasmo del quale non sentiva realmente
l'esigenza.
– Li
hai salvati, John. Entrambi. –
In
qualche modo l'aveva saputo. Fin dal momento in cui era entrato nella
stanza, l'aveva saputo. Ma quella puntualizzazione, accompagnata dal
“tu”, ebbe il bizzarro effetto di spaventarlo.
– Tu
me l'hai lasciato fare.
– rispose,
studiando la sua reazione.
Mycroft
piegò un angolo della bocca e distolse lo sguardo.
– Avevo
scelta? –
Avevo
scelta?
La
scelta se l'erano negata quattro mesi prima,
ma John se n'era
accorto solo adesso.
Avevano superato un
bivio senza rendersi conto che era un punto di non ritorno: non c'era nessuna
segnalazione. John si
era incastrato ed
era una gabbia
stretta quella
in cui si era cacciato. Scoprì che non
avrebbe voluto essere da nessun'altra parte.
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