Tre mesi.
Dean non riusciva a dormire. Il
timore di scivolare nel sonno e farsi trascinare per l’ennesima volta in uno dei
suoi sogni malati era più forte della stanchezza. Aprì gli occhi, trovò il
buio. Guardò a destra e cercò Sam. Disteso sul letto poco distante dal suo,
girato su un lato, gli dava le spalle. Spalle ormai larghe, irrobustite dagli
anni e dalla fatica, nascoste da una leggera maglietta bianca. Non si era
nemmeno infilato sotto le coperte, si era limitato a buttarsi sul letto. Una
cattiva abitudine che, forse, aveva preso da lui.
Lo sentì respirare, riconobbe il
ritmo e l’intensità, e capì subito che era sveglio.
Il primo istinto fu quello di
alzarsi, sdraiarsi dietro di lui, sentirlo vicino.
Chiuse gli occhi, si passò una
mano sulla faccia per scacciare quel pensiero.
Rimase lì dov’era, tornò a
fissare il soffitto. Sincronizzò il respiro con quello di suo fratello.
“Brutti pensieri?” chiese
ghignando, e la voce risuonò nella stanza.
Sam, sveglio quanto suo fratello,
aprì gli occhi. E anche lui fu costretto ad affrontare una battaglia. Combatté
con la voglia di raggiungerlo, abbracciarlo, prenderlo a pugni, supplicarlo di
restare. Ma, proprio come Dean, non si mosse. Rimase immobile sopra le coperte,
con gli occhi spalancati sul nulla.
Invece di rovesciargli addosso
tutte le suppliche che covava da mesi, disse “Ti manca casa?”.
Dean si stupì, preso in
contropiede da parole che non si aspettava. Il ghigno sparì.
“Non dico la nostra casa a
Lawrence,” aggiunse Sam. “Intendo… una
casa. Quattro pareti, un tavolo, due sedie, un letto. Mobili e mattoni che sono
lì per noi, a ricordarci che abbiamo un posto caldo e sicuro che ci aspetta.
Niente Impala né sedili scomodi, niente radio né benzina. Solo… una casa.”
“Un posto dove poter tornare?
Dove poter restare? Un posto che ci faccia sentire al sicuro, nonostante la
merda che vediamo tutti i giorni?” chiese Dean, che aveva già capito tutto, che
quella casa l’aveva addirittura vista e vissuta, che quella casa l’aveva
sognata e, senza rendersene conto, desiderata.
“Sì… ti manca?”
Voltò la testa, tornò a puntare
lo sguardo sulle spalle di suo fratello. Gli occhi si erano abituati al buio e
poteva scorgere le vene sulle braccia tese, i capelli sparpagliati sul cuscino,
la linea delle gambe, così lunghe che i piedi uscivano dal letto. Ripensò a
tutte le volte in cui erano stati feriti, colpiti, insanguinati. Pensò a tutte
le armi che erano stati costretti ad impugnare, a tutti i proiettili sparati, a
tutte le lacrime che avevano dovuto ingoiare. E pensò anche a quella sensazione
che aveva sempre provato quando il mostro di turno era stato sconfitto, quando
l’incubo del giorno era finito, e loro due – insieme – tornavano in
macchina. Si sedevano uno accanto all’altro, pronti a ripartire. E in tutte
quelle partenze c’era sempre un ritorno. Un ritorno da lui. Un ritorno in un
posto caldo, sicuro, che apparteneva soltanto a loro. Capì ciò che aveva sempre
saputo: tutte le volte che era accanto a Sam, lui era casa.
“Siamo a casa, Sammy.” disse.
Quattro parole che fecero subito
sorridere il fratello minore, perché le aveva capite, perché erano state dette
con una tale sincerità che era impossibile non crederci, ma con un’intensità
che svelava che quella casa a breve sarebbe stata distrutta per sempre.
Dean chiuse gli occhi, sentì il
respiro di suo fratello cambiare e seppe che stava piangendo.
Sam si svegliò prima dell’alba.
La testa era pesante, gli occhi bruciavano, e realizzò due cose: aveva pianto tanto
e aveva dormito poco. Nella penombra della stanza, distinse il profilo di suo
fratello che dormiva sulla pancia, un braccio intorno al cuscino. Sembrava
rilassato, tranquillo, gli sembrò addirittura di scorgere sulle labbra un
sorriso. Un sorriso che contagiò subito anche lui. Non se la ricordava più,
l’ultima volta che aveva sentito Dean ridere. Quella risata piena e contagiosa
che lui aveva sempre amato.
Si trascinò fino al bagno, fece
una doccia veloce e, facendo di tutto per non svegliare suo fratello e
strapparlo dai sogni che sembravano dargli pace, si vestì. Recuperò le chiavi
dell’Impala e lasciò la stanza.
Qualche minuto più tardi
raggiunse un vecchio magazzino, sperduto e isolato in una zona industriale. Sapeva
che era sicuro e abbandonato, perfetto per lui. Aveva già fatto un sopralluogo
nel pomeriggio, mentre Dean era andato a comprare la cena e a informarsi su
possibili nuovi casi. Fece scorrere la pesante porta di metallo, scese una
rampa di scale e si ritrovò in una stanza umida, buia e spaziosa. In un angolo aveva
già disposto tutto il materiale di cui aveva bisogno. Per prima cosa accese le
candele, poi si chinò sul pavimento e iniziò a disegnare il cerchio, le linee,
i simboli. Mischiò gli ingredienti in una ciotola e gli dette fuoco, un istante
dopo parole latine ormai familiari riempirono la stanza.
Seguì ogni passaggio con la
massima calma e concentrazione, accompagnato da un silenzio carico di
aspettativa e dai suoi respiri profondi e regolari.
Si sedette sul pavimento, con le
gambe incrociate. Si portò le mani congiunte sotto il mento.
Il demone non tardò ad arrivare.
Apparve al centro del cerchio, un’espressione scocciata sulla faccia. Si
ritrovò davanti Sam e lo guardò incredula. Il cacciatore ricambiò lo stupore:
non si aspettava una ragazza minuta, con un viso grazioso e una cascata di
capelli biondi che le ricadevano sulle spalle. Provò subito a fare qualche
passo, ad avvicinarsi a Sam, ma rimase bloccata contro un muro invisibile. Si
guardò i piedi e, sbuffando, notò il disegno.
“Spero che tu abbia davvero un
buon motivo per tirarmi fuori da là sotto, Winchester.” La voce della ragazza
tagliò l’aria come una lama affilata.
“Ho bisogno di alcune
informazioni.” disse Sam con calma, scandendo ogni parola. Si alzò dal
pavimento e si piazzò proprio davanti alla sua faccia, sulla quale danzavano le
luci soffuse delle candele. “Se farai la brava bambina, potrai tornare subito
in quel buco di merda dal quale ti ho tirato fuori.”
Il demone scosse la testa, un
mezzo sorriso arrogante sulle labbra.
“Voglio il nome del demone che
detiene il contratto di mio fratello.”
La risata della ragazza risuonò
nella stanza vuota e nelle orecchie di Sam.
“Sai di cosa sto parlando, vero?”
insistette. “Mi conosci, sai come mi chiamo. E conosci anche lui. Sai del suo
patto.”
“Oh… certo che vi conosco,
cacciatore. Tutti vi conoscono.” disse aprendo le braccia. “E tutti sanno del
patto che ha piegato e messo in ginocchio uno dei famosi fratelli Winchester.”
“Bene, perfetto.” continuò. “So
chi ha stretto il patto, so che tutto è nato con il demone dell’incrocio. Ma
non è lui che lo può sciogliere, giusto? Non funziona così.”
“Vedo che qualcuno ha fatto i
compiti! Bravo il mio ragaz-“
“Dimmi chi ha quel contratto.
Dimmi come si chiama e dove posso trovarlo.”
Il demone continuò a sghignazzare,
guardandolo con un misto di curiosità e compassione. “Credi davvero che te lo
dica, Sam?”
“Dimmi-dov’è-quel-fottuto-contratto!”
urlò, perdendo la calma, arrivandole a pochi centimetri dalla faccia.
“Nervoso, Winchester? Che c’è, il
ticchettio dell’orologio ti sta facendo impazzire?” sorrise. “I tre mesi che vi
restano iniziano a diventare pesanti?”
L’espressione di Sam cambiò.
Aggrottò le sopracciglia, gli occhi si riempirono di sorpresa e confusione. Ripensò
a quando era tornato in vita, fece un calcolo veloce. Si sentì gelare il
sangue, le orecchie iniziarono a fischiare. Gli sembrò che il cuore si fosse
fermato, senza la forza di continuare a battere.
La ragazza se ne accorse subito,
non si lasciò sfuggire nemmeno una sfumatura di quel cambiamento. Alzò un sopracciglio,
spalancò la bocca, e ricominciò a ridere.
Il rumore delle chiavi nella serratura lo scuotono dal torpore. È
disteso sul divano, davanti alla televisione, con il telecomando in una mano e
una bottiglia di birra che si sta per rovesciare nell’altra. Spalanca gli
occhi, si passa una mano sulla faccia, posa la birra sul pavimento e aspetta di
vederlo.
E lui arriva, dopo essersi chiuso la porta alle spalle ed essersi tolto
il cappotto. Entra in soggiorno,
lo vede e gli sorride. Un sorriso spontaneo, luminoso, improvvisamente spogliato
della stanchezza.
Indossa un abito blu scuro, una camicia bianca, la cravatta a righe.
È vestito da federale, pensa Dean, chissà se ha scoperto qualcosa sul
caso. E subito dopo un altro pensiero, più nascosto: non gli ho mai detto
quanto gli sta bene, quel vestito scuro.
Ma poi vede la ventiquattrore lasciata cadere sulla poltrona, nota la
faccia stanca ma pulita di suo fratello, un’espressione soddisfatta lontana secoli
e chilometri da uno dei loro soliti casini.
E capisce.
“Tutto bene in ufficio?” si sente domandare a Sam.
Passandosi una mano sul collo e muovendo la testa per farlo scrocchiare,
si avvicina al divano su cui è sdraiato Dean. “Sì,” risponde. “ma il lavoro è
tanto. Bello, appassionante, ma tanto.”
Dean, vedendolo arrivare, si mette seduto e fa cenno a Sam di sedersi
sul pavimento, tra le sue gambe. L’altro obbedisce con un sorriso.
“Non ti avevano avvertito alla Stanford che avresti dovuto sudartelo il
tuo bello stipendio?” gli chiede scherzando, iniziando a slacciargli la
cravatta da dietro.
“No, mi hanno soltanto insegnato come morire su una pila di libri più
alta di me.” Raggiunge le mani di Dean e finisce di slacciarsi la cravatta. Si
toglie anche la giacca. “Tu invece? Tutto bene in officina?”
“L’Impala continua a darmi problemi. Ma vincerò io… quella bellezza non
mi può abbandonare.”
Sam ridacchia, ma smette quando sente le mani di Dean intrufolarsi nel
colletto della camicia, fare pressione sul collo, allentare con un massaggio la
tensione che aveva accumulato durante la giornata. Chiude gli occhi e si gode
quell’indescrivibile sensazione.
“Dio, Dean…” sussurra, la testa che lentamente si lascia cadere
all’indietro. “…le tue mani.”
“Shh” lo zittisce. E continua a premere le dita sulla sua pelle.
Dopo qualche minuto di silenzio, Sam domanda all’improvviso, “Te lo
chiedi mai?”.
“Cosa?”
Sam si volta, mettendosi in ginocchio tra le gambe di suo fratello. Gli
punta gli occhi addosso.
Dean non molla la presa sulle sue spalle, continua ad accarezzarlo.
“Come sarebbe stata la nostra vita, se avessimo davvero trovato papà.”
“Ogni giorno.” risponde, la voce ad un tratto più cupa.
“E…?”
“E non lo so.”
“Saremmo sempre dei cacciatori? Sarebbe ancora quella la nostra vita?”
“Non lo so, Sammy. Ma di sicuro non saremmo qui. A casa nostra, io e
te.” Adesso le parole sono un sussurro. “So soltanto questo.”
Dean sente le spalle di suo fratello tornare ad un tratto tese, rigide.
E ha abbandonato la testa, appesantita dai pensieri, su una delle sue ginocchia.
Gli da una pacca sul braccio. “Forza, vieni qui.”
Sam si alza, Dean si distende. Gli fa posto accanto a sé sul divano,
con un braccio disteso pronto ad accogliere la sua testa. Suo fratello lo
raggiunge, abbracciandolo, circondandogli la vita. Dean allunga la mano libera e
gli accarezza la guancia, il collo, i capelli.
“Grazie, Dean.” sussurra.
Continua a coccolarlo per qualche minuto, poi sente il respiro appesantirsi
e sa che si è addormentato. Sorride.
“Ti amo, Sammy.”
Nello stesso istante in cui nel
sogno si lasciava cadere insieme a Sam nell’incoscienza del sonno, nella realtà
si svegliò. Si mise seduto, consapevole che non sarebbe riuscito mai e poi mai
ad abituarsi a tutto ciò che vedeva e sentiva quando chiudeva gli occhi. Ma,
nonostante quella consapevolezza, la cosa più dolorosa fu ritrovarsi in una
stanza spoglia, anonima, estranea. Fece fatica a lasciar andare l’altra vita, a
lasciar andare quella nuova e improbabile versione di se stesso. In un modo per
lui incomprensibile, si era quasi affezionato a quell’invenzione. Ebbe una
punta di fastidio alla bocca dello stomaco e riconobbe la nostalgia. Nostalgia
per qualcosa che non aveva mai avuto, e che non avrebbe mai potuto avere.
In quel torpore confuso tra sogno
e realtà, si ritrovò a chiedersi dove fosse, quel Sam Winchester in giacca e
cravatta, che torna a casa dal lavoro dei suoi sogni, stanco e soddisfatto, e
cerca lui.
Poi alzò lo sguardo e lo vide.
Seduto sulla sedia davanti al
letto, le dita premute sulle tempie e due occhi di fuoco che lo puntavano. Gli
bastò un secondo dentro quegli occhi per capire tutto quello che il fratello
stava provando: rabbia, dolore, delusione, disperazione. Ma non sapeva il
perché.
Non aprì bocca, non chiese nulla.
Non ce n’era bisogno, Sam sarebbe scoppiato a momenti.
E così fu.
“Un anno,” sibilò. “un
fottutissimo anno.”
Ah, quello. Aveva scoperto la
verità.
“Sam,” iniziò, con tutta la calma
che riusciva a mettere insieme.
“Un-fottutissimo-anno!” esplose,
alzandosi in piedi. “Che cazzo ti passava per la testa, Dean? Come hai fatto ad
accettare? Come hai potuto tenermelo nascosto?”
“Come l’hai scoperto?” gli chiese,
ancora seduto tra le lenzuola.
“Ha importanza?” urlò. “A chi
cazzo importa come ho fatto a scoprire che mio fratello morirà tra tre
maledettissimi mesi?”
Dean si passò una mano sulla
faccia, chiuse gli occhi. Provò a fingere che quelle parole non lo stessero
squarciando, provò a convincersi che quel dolore che sentiva nella voce di suo
fratello non li avrebbe distrutti entrambi.
“Lo sai quanti sono tre mesi,
Dean?” aggiunse, con le lacrime agli occhi. “Niente, non sono niente! Non
abbiamo niente!”
“Sam, calmati.”
“No, porca puttana, non mi
calmo!” Un altro boato, e poi si aggrappò allo schienale della sedia, piegato
in due, scosso dalle lacrime. Continuò a singhiozzare a testa bassa. “Non
capisci.”
Dean si staccò dalla testiera del
letto, afferrò le coperte e le scaraventò lontano. Si mise seduto ad un lato del
letto, in boxer e maglietta, i piedi congelati a contatto con il pavimento
freddo.
“Invece sono l’unico che può
capirti, lo sai.”
Sam alzò la testa e lo guardò. Quando
Dean si specchiò nei suoi occhi capì che non si sarebbe mai perdonato. Non c’è
perdono se riduci la persona che ami di più al mondo in un cumulo di macerie.
Allo stesso tempo, sapeva di aver fatto la cosa giusta, ne era convinto, e,
tornando indietro, avrebbe ripercorso esattamente gli stessi passi.
“E allora perché?” Aveva smesso
di urlare, di sbraitare. Adesso era solo disperazione fatta persona, che parlava
e si muoveva. “Perché mi fai questo? Perché mi lasci?”
“Sam, vieni qui.” disse, dopo un
respiro lungo una vita.
Suo fratello si trascinò fino al
letto, lo raggiunse e s’inginocchiò davanti a lui, tra le sue gambe aperte. Per
Dean fu una coltellata al cuore rivederlo lì, così vicino, ma – adesso
– così maledettamente lontano. Non sapeva perché, e in quel momento non
si sforzò nemmeno di capirlo, ma aveva voglia di poggiargli le mani sulle
spalle, accarezzarlo, fargli sapere che era ancora lì, con lui. Era lì per
massaggiarlo quando tornava a casa, per rispondere alle sue domande sul
passato, per abbracciarlo e sentirsi dire grazie. Ed ebbe voglia di
chiederglielo davvero: che sarebbe successo, Sammy? Che sarebbe successo a noi
due, lontani da questo schifo?
E invece disse semplicemente,
“Scusami.”
Sam crollò, lasciò cadere la
testa sulla spalla dell’altro.
“Scusami, Sam.” ripeté.
“Perdonami.”
Gli prese la testa tra le mani,
chiuse gli occhi e disse quello che non aveva mai voluto ammettere nemmeno con
se stesso.
“Non voglio morire, Sammy. Non
voglio andare all’inferno. Non ti voglio lasciare.”
Appoggiò la guancia sui capelli
di suo fratello. Non riusciva a pensare a niente, sentiva la testa svuotata.
C’erano soltanto loro due. Loro e quelle parole, finalmente libere, che ripeté
ancora una volta, “Non ti voglio lasciare”.
Sam permise alle lacrime di
rigargli le guance, le lasciò scivolare senza fermarle. Ad occhi chiusi, si godeva la vicinanza di suo
fratello. La sensazione della sua pelle sulla sua, delle sue mani nei suoi
capelli. E, insieme alle lacrime, sentì scivolare via tutto il resto. La paura,
la vergogna, tutto quello che lo aveva sempre fermato, legato, incatenato.
All’improvviso, seppe che era la cosa giusta. Giusta, semplice, facile. Non
c’erano ostacoli, non più.
Spostò leggermente il viso, sentì
le mani prendere vita. Afferrò la testa di Dean e, con il cuore impazzito che
gli scalpitava nel petto, lo baciò.
Durò poco, qualche secondo. Pochi
attimi durante i quali Sam si sentì finalmente vivo, e Dean capì che tutto
stava crollando. Quella vita sbagliata che lo perseguitava nei sogni, adesso lo
inghiottiva anche nella realtà. Era in un vortice di sorpresa e stupore. Gli sembrava
di soffocare e, allo stesso tempo, di respirare per la prima volta in vita sua.
E in quella spirale di confusione, riuscì a capire che l’unica cosa che doveva
fare era staccarsi.
Si allontanò da Sam come se
avesse preso la scossa. Lo spostò, si alzò dal letto e, come una furia, raggiunse
la parte opposta della stanza. Si mise le mani tra i capelli, si coprì gli
occhi, si sforzò di respirare.
“Sam…” rantolò, proprio come
aveva fatto nel suo primo sogno. Il sogno. Ripensò alla doccia, al divano, a
loro due insieme. Sentì il disgusto per se stesso riempirgli la bocca di saliva
amara. “Che cazzo è successo?”
“Quello che doveva succedere.”
rispose l’altro, pronto e tranquillo, come se si aspettasse quella domanda da
una vita. Seduto sul bordo del letto, si passò una mano sulle guance per
cancellare le ultime tracce delle lacrime. “Quello che ho sempre voluto che
succedesse.”
“Sam!”
“Sempre, Dean.”
“Cristo santo!” La voce fu un
boato, carico di rabbia e incredulità. Ignorò le sensazioni che aveva scoperto ultimamente,
tutte quelle nuove emozioni portate dai sogni come alta marea, e urlò le parole
che aveva sempre voluto urlare. Nella doccia o sul divano, nel sogno o nella
realtà. “Sei mio fratello, mio fratello!”
“Cazzo, quanto odio quella
parola!”
“Quale? ‘Fratello’? Perché è
quello che sono, Sam. È quello che siamo.”
“Lo sai che non è vero! Almeno
non solo… Dio, lo sai!”
“Ma che cazzo dici?” Camminava
avanti e indietro, le mani sulla faccia, le dita premute sugli occhi. “E’
sbagliato, porca troia… sbagliato! E ti sembro gay?!” tornò a sbraitare, non
riuscendo a darsi pace, non capendo se stesse parlando a Sam o a se stesso. “In
tutti questi anni ti ho mai dato l’impressione di essere attratto dagli
uomini?”
“No,” ridacchiò. “Certo che no!”
“Che cazzo ridi, Sam? Porca
puttana, sei impazzito?”
“Vuoi sapere quello che siamo?
Vuoi sapere ciò che è vero?” Si alzò e
a grandi falcate si avvicinò a Dean, che lentamente – ormai nel panico
– iniziò a indietreggiare.
“Che cazzo fai?” riuscì a
bisbigliare.
L’aveva raggiunto, e Dean si
sentiva tremare, respirava a fatica. Lui che decapitava vampiri senza battere
ciglio, lui che affrontava fantasmi e lupi mannari senza scomporsi, lui che
bruciava cadaveri e rispediva demoni all’Inferno, lui che non aveva esitato
nemmeno davanti ad Azazel in persona, ora tremava per suo fratello. Moriva di
paura davanti a lui.
Lo spinse, ma Sam non si mosse di
un centimetro. Anzi, era ancora più fermo. E con quella fermezza gli afferrò il
collo e lo avvicinò a sé. Fronte contro fronte, respiro contro respiro, libertà
contro vergogna. Verità contro bugia.
Dean digrignò i denti. Gli girava
la testa, sentiva le gambe deboli. Non sapeva dove guardare, non sapeva cosa
pensare. Lì, in piedi con il suo Sammy così vicino, non sapeva nemmeno più chi
era. Poi, per un attimo, cedette. Per un attimo minuscolo come un respiro, che
lo tradì come nessuno aveva mai fatto finora, decise di non pensare. Decise di
provare, di sbirciare come sarebbe stato: cancellare tutto tranne loro, fingere
che fosse la cosa giusta.
Cercò le mani di suo fratello,
che ancora gli stringevano il collo, e ci posò le sue.
Gli sembrò di aver trattenuto il
fiato per vent’anni. Soltanto adesso poteva respirare.
Chiuse gli occhi.
“Questo.” sussurrò Sam. “Solo
questo è vero.”