Capitolo Secondo.
Toc
Toc.
Due
colpi secchi gli fecero aprire gli occhi, di scatto. Ansimò e si guardò
attorno. La sua stanza era buia. Alzò un braccio e accese la piccola lampada da
tavolo. Socchiuse gli occhi per la luce, fastidiosa, da appena svegliato qual era.
Mugugnò,
seccato.
“Avery,
sono Celina, ti ho portato la colazione”, disse la voce della ragazza che
faceva da aiutante della signorina Wighby, dall’altra parte della porta.
Avery
lasciò cadere il capo all’indietro, sui cuscini e richiuse gli occhi.
“Sto
entrando…”, fece Celina.
Quando
lo vide, ancora sotto le coperte, stanco e mezzo addormentato, Celina restò a
fissarlo con il vassoio in mano. Poi avanzò verso di lui, sedendo sulla coperta
sgualcita.
“Non
è un po’ presto…?”, mormorò Avery, con gli occhi mezzi chiusi.
Celina
lo guardava, comprensiva. “Mi dispiace, la signorina Wighby…”
“La
vecchia strega, c’è sempre lei di mezzo”, farfugliò lui.
“…
mi ha detto di portartela adesso”, concluse Celina, cercando di trattenersi dal
ridere, indicando con un cenno del capo il vassoio della colazione.
Avery
si alzò, appoggiandosi sui gomiti. Guardò Celina, che ricambiò con un sorriso.
Poi fece scivolare la sua attenzione al vassoio. In effetti un po’ di fame ce
l’aveva. Allungò una mano a prendere il toast rancido imburrato e se lo ficcò
tra i denti. Lo masticò con una smorfia.
“Sì,
fa schifo lo so”, fece Celina.
Avery
continuò a mangiare, fissandola negli occhi ad ogni smorfia.
“È
stato davvero un gran bello spettacolo, comunque”.
Avery
vide le sue guance arrossarsi, sotto la luce della lampada. Gli venne da
ridere, e ricomparve quel suo consueto sorrisetto. Si tirò su a sedere e
terminò di consumare il pasto.
“Fai
i complimenti alla cuoca da parte mia”, scherzò, mentre si alzava.
Celina
si fece da parte goffamente, un po’ imbarazzata. Cercò di guardare da un’altra
parte, quando si accorse che Avery indossava dei calzoncini corti.
Lui
parve accorgersene, si infilò i pantaloni, senza smettere di ridere.
“Be’,
che stai facendo? Non avevi sonno?”
Avery
scrollò il capo. “Ora non più. Mi dispiace, è tutta colpa tua”. Le andò vicino,
ridendo, e le sfiorò il vestito, poi si allontanò di nuovo e uscì dalla stanza.
Celina
rimase per un lungo istante immobile dov’era. Lo fissò, con il vassoio in
bilico tra le dita. “Dove stai andando? Non puoi uscire di qui, Avery”, gli
ricordò, aggrottando la fronte, confusa.
Lo
seguì nel corridoio.
“Vuoi
controllarmi anche mentre sono in bagno?”, Avery le inviò un altro dei suoi
ambigui sorrisi.
Celina
abbassò il mento. “Il tempo di riportare questo in cucina”, disse alzando il
vassoio.
Avery
annuì e si fiondò in bagno.
Celina
tornò dopo una manciata di minuti, e nel corridoio, di Avery non c’era nemmeno
l’ombra. Si appoggiò allo stipite della porta della sua stanza e aspettò che
uscisse dal bagno. Si chiedeva se la signorina Wighby non lo facesse apposta a
ordinarle di controllarlo.
La
Wighby era sì un po’ rincitrullita, ma era strano che non avesse capito quello
che c’era nell’aria. Era più che evidente che Avery era piuttosto ricercato, ma
non rendersi conto che a lei piaceva, doveva proprio essere tonta. Celina
scrollò il capo e in quel momento la porta del bagno si aprì; Avery tornò in
camera sua.
Si
mise sul ciglio della porta, mentre Celina era sul ciglio opposto, dalla parte
del corridoio.
“Mi
lasci qui così?”, si lamentò lui.
Quanto
si divertiva a prenderla in giro in quel modo? Parecchio, di sicuro parecchio,
data la sua espressione.
“Devo
tornare dalla Wighby”, rispose lei.
“Non
ho alcuna speranza, eh?”
Celina
scosse il capo, dispiaciuta.
“D’accordo,
mi arrendo”.
Celina
gli accennò un sorriso fiacco, e lo salutò con un cenno della mano. Chiudere la
porta con un giro di chiave gli parve un’idiozia.
Avery
si bloccò un istante, per guardare la sua camera. Ormai la sapeva a memoria,
dopo tutte le volte che ci aveva passato chiuso dentro, in punizione.
L’armadio
grande, la scrivania di legno, tagliuzzata e consumata in modo ormai
irrecuperabile, il letto stipato addosso al muro, che all’inizio gli era parso
così scomodo ma a cui poi aveva fatto l’abitudine, la finestra, bianca a
quadrata, che era la cosa che più gli piaceva, perché gli permetteva di
guardare fuori, gli permetteva di sperare in qualcosa che andasse oltre quelle
quattro dannate mura.
Celina
sospirò, una volta arrivata nella modesta cucina. “Ho fatto, signorina”.
Cecilia
Wighby si voltò verso di lei, con le sopracciglia arcuate e la squadrò in un
istante, poi mugugnò qualcosa in segno di assenso.
“Non
crede che sia tempo sprecato, in questo modo?”, disse Celina, inclinando il
capo.
La
Wighby la guardò alzando un sopracciglio. “Di cosa stiamo parlando, Celina?”,
chiese, rivolgendosi a lei come se stesse conversando con una povera imbecille.
“Delle
punizioni che impartisce ad Avery, se ogni volta ripete i suoi errori significa
che non sono molto utili”.
La
Wighby arricciò le labbra. “Se non sono molto utili è perché Grover è soltanto
uno stupido che trova ogni modo per apparire migliore e superiore agli altri”.
Celina
abbassò il capo. “Lo punirà a vita, se continua così”, mormorò.
Cecilia
le arrivò un’altra occhiata sprezzante.
“…
signorina”, si affrettò ad aggiungere lei, come per alleggerire il tono.
Sebbene
l’espressione di Cecilia Wighby era profondamente dura e composta, i suoi occhi
furono per un momento attraversati da un lampo di incertezza.
Avery
scese dal letto, in seguito ad una serie di colpi di nocche alla porta. Ci si
schiacciò contro, piegando la testa di lato.
“Avery”,
sussurrò qualcuno dall’altra parte.
Avery
sorrise. “Frank, che stai facendo?”
“Porto
buone notizie, amico”, rispose Frank, sghignazzando.
“Ehi
Avery, tutto bene da quelle parti?”, un’altra voce, più calma si aggiunse a
quella agitata di Frank.
“Una
meraviglia, Louis”, rispose Avery, ironicamente, senza smettere di ridere.
“Aha,
e ora andrà ancora meglio”, continuò Frank. Mugugnò, infastidito in seguito ad
una spinta di Louis.
“Che
sta blaterando, Louis?”, fece Avery, aggrottando le sopracciglia, divertito.
Non
ricevette risposta. Dalla fessura sotto la porta apparve una busta bianca, un
po’ spiegazzata e aperta con uno strappo secco e irregolare.
Avery
la raccolse a l’aprì. Dentro c’era un foglietto giallo, riempito da una
scrittura fitta ed elegante.
Avery
lo lesse velocemente e gli scappò da ridere. “Che roba è?”, chiese, per averne
conferma da loro.
Frank,
dall’altra parte, ridacchiò come una iena, e Louis gli intimò di chiudere la
bocca.
“Le
belle ricche danno una festa per l’anno nuovo e una certa tu-sai-chi ha
invitato un certo… tu-sai-chi”. Frank scoppiò ancora a ridere e Louis
gli diede una botta sulla nuca, a giudicare dal suono secco e dall’esclamazione
di Frank.
“È
un invito di Olivia?”, esclamò Avery, sgranando gli occhi.
“Uuuuuuh”,
fece Frank.
“Se
non te la finisci ti tappo la bocca con lo sturatore del water”, accennò Louis
che stava perdendo un po’ della sua naturale indifferenza.
“Wow,
Louis non puoi non andarci”, continuò Avery, cercando di rimanere serio
abbastanza per parlare.
“Infatti
non ha mica intenzione di farsela scappare, il nostro Louis”, ghignò Frank,
rischiando di prendersi un’altra botta. “Ma il bello è che può portarsi dietro
i suoi cari vecchi amici, una volta tanto!”
Avery
sgranò gli occhi, ancora. “Dici davvero?”
“Certo,
amico. Ma l’hai letto quel biglietto?”
Avery
lo scorse di nuovo, nel p.s. Olivia diceva chiaramente: porta pure i tuoi
amici, se ti va.
“Non
è geniale?”, riprese Frank.
“Sì
che lo è”.
“Oh,
io non vedo l’ora. Ma ci pensi Avery? Un mucchio di ragazze belle e ricche che
ci invitano ad una loro festa… belle… ricche…”, gorgheggiò Frank, con la testa
ormai persa nel mondo dei sogni.
“Già,
peccato che io non possa venirci”, disse Avery, afflitto.
“Come?
Perché non puoi venirci?”, il tono di voce di Frank si ristabilizzò, tornando
alla normalità.
“Sono
chiuso qui in punizione, ricordi? A meno che non sia tra una settimana…”
“Be’,
io credevo avessi già pensato ad un piano per uscire di là”, borbottò Frank,
quasi deluso.
Avery
piegò le sopracciglia. “Ragazzi, credo che dovrete andarci senza di me”, fece
scrollando il capo.
“Come?
Non se ne parla, Avery, ci servi, senza di te non è lo stesso”.
Avery
sorrise amaramente, pensando a cosa alludesse Frank con quelle parole. Ad
agganciare le ragazze, ad attirarle, a quello serviva in realtà. Era sempre
stata un amicizia un po’ approssimata quella con Frank, lui era un po’ a modo
suo, non badava troppo a preoccuparsi degli altri, e cercava il più delle volte
di trarre profitto per se stesso; semplicemente quello era il suo carattere e
dava modo di pensare ad Avery che se fosse andato avanti in quel modo non
avrebbe mai trovato dei veri amici.
“Ehi,
Avery, pare a me o stai perdendo la voglia di fare lo scemo e metterti nei
guai?”, intervenne la voce tranquilla di Louis.
Avery
immaginò di vedere i suoi occhi verdi e l’espressione neutra, l’atteggiamento
del corpo calmo e rilassato. Fece una smorfia. Per qualche ragione, e non
sapeva ancora quale, Louis lo conosceva fin troppo bene, forse molto meglio di
quanto lui conoscesse sé stesso. E questo lo mandava in bestia, perché avrebbe
tanto voluto avere quel suo stesso potere.
“Be’,
ragazzi… vi farò sapere, quand’è che c’e questa festa?”
“Venerdì!
È scritto nel biglietto…”, rispose Frank, che dal tono si capiva si stesse
ancora chiedendo se Avery avesse veramente letto o meno quel biglietto. “Se
decidi di venire, ricordati che non ci saranno grossi problemi a farti uscire
da lì”.
Avery
annuì vago e passò indietro il biglietto dalla fessura sotto la porta.