[Penultimo
capitolo]
Un giorno.
Avevano occupato una casa
abbandonata, nascosta tra i boschi. Avevano entrambi quella stupida convinzione
– che ovviamente non avevano detto ad alta voce – che, se si
fossero nascosti bene, nessuno avrebbe potuto toccarli.
Sam aprì gli occhi. Tutto quello
che vide fu un soffitto pieno di crepe illuminato da deboli raggi di sole.
Impiegò qualche secondo per riconoscere la stanza, per ricordarsi dove si era
addormentato la sera prima. Ma tutto fu improvvisamente chiaro quando lo
sguardo si posò su quella mano appoggiata sul suo stomaco. Riconobbe le dita,
le unghie, il calore. Voltò leggermente la testa e si godè la visione di Dean,
addormentato accanto a lui, con un’espressione beata stampata in volto, una
mano nascosta sotto il cuscino e l’altra su di lui.
Allungò una mano e gli coprì la
spalla con la coperta che si era abbassata. In risposta, suo fratello si mosse
e si avvicinò ancora di più, mugolando parole incomprensibili.
Non poté fare a meno di
sorridere.
Un mese prima, Dean si era
svegliato con il fiato corto, la maglietta attaccata alla pelle e le mani che
tremavano. Come sempre aveva sognato Sam e, come sempre, erano insieme, ma
quella volta l’aveva visto più chiaro, più vivo di tutto il resto. E quando si
era svegliato, catapultato in quella vita scura e fredda, era stato come se
tutto quello che aveva, tutto quello che voleva, gli fosse stato strappato
dalle mani. Aveva provato dolore fisico, e avrebbe voluto urlare, con tutto il
fiato che aveva, ridatemelo, ridatemi
Sammy. Non era più riuscito a riaddormentarsi, non era più riuscito a
tornare da lui, e non aveva avuto altra scelta: si era alzato e aveva raggiunto
suo fratello. Avevano dormito così, nello stesso letto. Senza toccarsi durante
la notte, senza parlarsi quando si erano svegliati. Lontani, ai due lati del
letto, ma mai così vicini.
Avevano passato tutte le notti
dell’ultimo mese così, sotto le stesse coperte. Non ne avevano mai parlato, non
si erano chiesti il perché – perché lo volevano, perché quella vicinanza
fosse così bella – o se era la cosa giusta. Non avevano analizzato niente
di tutto quello che stavano diventando, ma non importava perché entrambi non
avevano mai dormito così bene.
Le prime notti, Sam impiegava ore
a lasciarsi cadere nel sonno. Avrebbe voluto avvicinarsi, toccarlo, parlargli,
ma si tratteneva. Chiudeva i pugni, si mordeva la lingua, e notte dopo notte
aveva imparato a godersi ogni attimo, senza pensare ai desideri che lo
logoravano.
Ogni tanto, proprio come quella
mattina, Dean si muoveva e, senza neanche accorgersene, lo cercava. Gli
circondava il fianco con il braccio e lo tirava verso di sé, allungava una mano
e la posava sulla sua, avvicinava la testa alla sua spalla, e continuava a
dormire come se quel contatto gli desse ciò che aveva bisogno per trovare un
altro po’ di pace.
Mentre lo guardava e lo sentiva
respirare, Sam sentì un nodo alla bocca dello stomaco. Un brivido gli percorse
la schiena, la consapevolezza lo travolse come un treno: quella non era una
mattina come tutte le altre, erano agli sgoccioli, era quasi finita.
Sono le ultime quarantotto ore insieme a lui.
La testa iniziò a girare, il
corpo fu scosso dall’urgenza. Stavano perdendo tempo, stavano sprecando minuti
preziosi. Doveva salvargli la vita, non ammirarlo dormire accanto a lui
sperando che quel sonno potesse proteggerlo per sempre.
Spostò la mano ancora appoggiata
sul suo torace, si liberò dalla presa di suo fratello e si mise seduto.
“Dean,” sussurrò, scuotendogli
una spalla. “svegliati.”
“Mmmm,” mugolò. La mano vagava
sul lenzuolo, cercando un corpo che non c’era più.
“E’ tardi.” Insistette Sam, e quelle
due parole ebbero la forza di farlo tremare. Cazzo, era tardi davvero. Era
tardi per tutto. “Dean!”
Ancora con gli occhi chiusi, Dean
alzò un braccio e afferrò la mano di suo fratello che lo stava scuotendo. Gli
strinse il polso e poi lo tirò verso di sé. Sam si lasciò trasportare,
improvvisamente di nuovo stanco, e cadde tra le coperte. Se ne rese conto
all’improvviso: Dean era l’unica cosa contro cui non riusciva a combattere.
“Voglio dormire,” mormorò Dean.
“voglio dormire ancora un po’.”
E, per la prima volta, si
addormentarono abbracciati.
Erano entrambi seduti sul divano,
Sam aveva il portatile sulle gambe e Dean guardava lo schermo della televisione
senza vederlo. Il fratello maggiore si alzò, sparì in cucina e tornò con due
birre. Bevvero lentamente, gustandosi ogni sorso, senza rivolgersi parola. Non
era necessario parlare, dare voce ai pensieri, era tutto nell’aria. Tutto
sospeso. Ad ogni respiro, la fine era sempre più vicina. E la potevano toccare,
annusare, vedere.
Dean intravide dalle tende il
sole che calava. Scomparve, portandosi con sé la luce del giorno e la calma che
finora era riuscito a mantenere. Si fece comandare dall’istinto, allungò una
mano raggiungendo le gambe di Sam e chiuse il computer.
“Basta, Sammy.” sussurrò. Nemmeno
lo guardò, non cercò i suoi occhi perché sapeva cosa ci avrebbe trovato
seppellito dentro: dolore. Ancora dolore.
“Basta Sammy…” borbottò l’altro. “Cosa hai intenzione di fare, Dean?
Stare col culo su questo divano e aspettare che ti vengano a prendere? Come se
fossi il primo degli sprovveduti, come se non avessi mai dovuto lottare in vita
tua?”
“No.” La sua voce, bassa e roca, risuonò
nella stanza spoglia. Si voltò e guardò Sam. Trovò i suoi occhi e ci scovò quello
che si aspettava, ma oltre al dolore c’era qualcos’altro: tenacia. Quella forza
che lo aveva contraddistinto fin da bambino. Quella forza che, quando erano
piccoli, lo faceva andare avanti per ore, notte e giorno, a chiedergli dov’era papà,
quando sarebbe tornato, quando avrebbero rivisto casa. Quell’impegno che
metteva nelle recite scolastiche a cui nessuno assisteva se non Dean, nei temi
e nei compiti di matematica che nessuno apprezzava se non professori che presto
si sarebbero scordati di quel bambino tanto intelligente che spariva sempre
dopo qualche mese. Quella forza che gli aveva fatto scegliere Stanford, che lo
aveva rimesso in piedi, con le armi cariche strette tra le mani, dopo aver
visto la ragazza che amava in fiamme davanti ai suoi occhi. Quella forza, così
umana e così sensibile, che solo Sam aveva.
Dean sentì un misto di tenerezza
e orgoglio inondargli il petto, e provò quella sensazione che troppe volte
l’aveva paralizzato: non riusciva a gestire tutto il bene che gli voleva. Era
più grande di lui, più grande di tutto il resto.
Nonostante la fine fosse
aggrappata alle loro spalle, un tentativo glielo doveva, lo doveva ad entrambi.
E allora disse, “Dimmi cosa hai scoperto.”
Sam alzò le spalle e indicò il
computer chiuso. “Se almeno mi avessi fatto finire di leggere…”
“In questi mesi, intendo.” E di
fronte all’espressione improvvisamente colpevole di suo fratello, gli sorrise.
Sam prese un respiro profondo, si
liberò del computer appoggiandolo sul pavimento e, accomodandosi contro lo
schienale del divano, iniziò a parlare. Gli raccontò di ogni ricerca, ogni
libro, ogni formula, ogni simbolo. Gli raccontò tutto quello che aveva
scoperto.
“Bene,” disse alla fine Dean, strusciando
le mani tra di loro. “Anche se il demone dell’incrocio non può sciogliere il
patto, non significa che non possa parlare, giusto? Ce lo dirà quella puttana
chi detiene il mio contratto.”
Sam sentì un brivido di freddo,
le mani iniziarono a sudare. Non aveva il coraggio di guardarlo e parlare,
allora lo disse tutto d’un fiato. “L’ho uccisa.”
Dean si immobilizzò. Le mani ferme
a mezz’aria, la bocca aperta e gli occhi spalancati. “Cosa?”
“L’ho evocata, non parlava, l’ho
uccisa. Fine.”
“Fine?”
“Fine.”
“Con cosa?” chiese, e siccome suo
fratello non apriva bocca continuò. “Dimmi che non hai usato la Colt, Sammy.
Dimmi che hai trovato un altro modo, un altro fottutissimo modo che non sprechi
uno dei due proiettili più importanti di tutta la nostra maledettissima vita.”
Sam si alzò, si allontanò dal
divano, si allontanò da lui. Aveva riconosciuto la voce, era quella che usava
quando stava per scoppiare, la voce che precedeva urla, rimproveri e bicchieri
di whisky. E non aveva voglia di buttarsi a capofitto nell’ennesima litigata.
Non quel giorno.
“Non sapevo cosa fare.” mormorò,
con la voce che stava insieme per miracolo.
Dean era sull’orlo, su quel filo
che divide l’agitazione dalla rabbia. Sarebbe bastata qualche parola, un tono
di voce sbagliato, un rimprovero in più, e sarebbe scoppiato. Ma tutto quello
che aveva non erano parole, voci o rimproveri, tutto quello che aveva –
lì, in piedi davanti ai suoi occhi – era suo fratello. Perso e disperato.
“Calmati.” disse, e lui stesso
fece fatica a riconoscersi. “Troveremo un altro modo.”
“Non c’è!” urlò Sam, passandosi le
mani tra i capelli.
“Stai calmo, ti ho detto.
Guardami. Fermati e guardami.” Sam smise di camminare avanti e indietro e
ubbidì. Poi Dean aggiunse, “Chi ti ha detto che avevo solo un anno?”.
“Un demone. Ruby, la chiamano
così. L’ho scelta perché tutti i demoni che ho trovato parlavano di lei, sa
qualcosa per forza.” Fu come se si fosse distrutta una diga, le parole uscirono
da sole, un fiume in piena. “Sapeva di te Dean, sapeva tutto. Ci conosce, ha detto
che ci conoscono tutti. Non vedono l’ora di distruggerci, di separarci. Cristo,
Dean, non vedono l’ora di averti laggiù.”
Dean s’impose di non guardare la
lacrima che stava rigando la guancia di suo fratello. “Chiamala.”
“Non parlerà, Dean. Non ci dirà
un cazzo.”
Si alzò, lentamente, e lo
raggiunse. Alzò un braccio e avvicinò il palmo aperto della mano al volto di
suo fratello. Sam ci lasciò cadere la testa, mentre sentiva il pollice di Dean
che gli accarezzava la guancia e cancellava il segno della lacrima.
“Tutti parlano, Sammy.” E sulle
sue labbra apparve, in un misto di affetto e rassegnazione, un sorriso.
“Che onore!” esclamò Ruby.
“Evocata e legata da Dean Winchester in persona!”
Sam aveva recitato la formula,
Dean l’aveva intrappolata nel cerchio disegnato sul soffitto e legata mani e
piedi ad una sedia.
“Non ho tempo da perdere,” iniziò
Dean.
“Per quanto mi riguarda, possiamo
farla finita anche subito. Non vi dirò niente.”
“Inizierò con le buone, e finirò
con le cattive.”
“Ci ha già provato il tuo
fratellino, non te l’ha detto?”
“Mio fratello è molto più
paziente di me.” Tirò fuori dalla tasca dei jeans una fiaschetta, la stappò
lentamente. “E per me sarà un piacere sfregiarti quel bel faccino.”
Senza nemmeno guardarla, spruzzò
un po’ di acqua santa sulla faccia della ragazza. Un grido spezzò l’aria, il
demone si dimenò tra il fumo che gli circondava il viso.
Il fumo e le grida sparirono,
rimpiazzate da una risata. “Credi di farmi parlare a suon di gavettoni?”
“Voglio un nome.” Altra acqua
benedetta, altro fumo, altre grida.
“Ti vedo un po’ sciupato,” ghignò
Ruby, scuotendo la testa per togliersi i capelli dagli occhi. “non hai una
bella cera. Manca poco, eh?”
Sam si intromise, raggiunse con
due falcate suo fratello, gli strappò la fiaschetta dalle mani e gliela
rovesciò addosso tutta, fino all’ultima goccia. “Parla!” urlò, sovrastando il
rumore della pelle che sfrigolava. “Dacci quel nome!”
Quando si riprese, Ruby continuò
da dove era stata interrotta, come se Sam non si fosse mai mosso, non avesse
mai parlato. “Non riesci a riposare, Dean?”
“Dormo da Dio.” rispose. E quelle
parole ebbero nella sua bocca un sapore nuovo, quando si accorse che le stava
dicendo la verità.
“Le tue occhiaie dicono il
contrario. Dimmi un po’, quanto ti torturano quei sogni?”
Dean s’immobilizzò. Le braccia,
incrociate sul petto, persero forza e cascarono lungo i fianchi. Sentì le gambe
deboli, la testa che iniziava a girare e nelle orecchie un brusio così forte
che gli impediva di sentire i suoi stessi pensieri.
I sogni? Che cazzo ne sa lei dei miei sogni?
Guardava il demone, ma vedeva il
vuoto. Era fermo, immobile, ma dentro urlava e scalpitava.
Fa’ che questa puttana non dica nulla a Sam. Fa’ che lui non lo scopra.
Sam era confuso. Spostava gli
occhi da suo fratello al demone, e poi di nuovo su suo fratello: sembrava una statua,
il suo corpo era lì ma lui non c’era. E non riusciva a capire perché. L’unico
indizio, l’unico spiraglio di luce, era ciò che aveva detto Ruby.
“Che sogni?” chiese con un filo
di voce.
“Tuo fratello non te ne ha
parlato?”
Si voltò verso Dean, che lo guardava
come se aspettasse che il mondo gli crollasse addosso. Come se fosse l’ultimo
sguardo che aveva a disposizione.
“È quello che succede quando i
cerberi ti danno la caccia, quando il momento di raggiungere l’inferno si avvicina.
Sei talmente terrorizzato che ciò che ti fa più paura ti viene a trovare appena
chiudi gli occhi.” spiegò Ruby. “Allora, Dean? Raccontaci. Quali sono i tuoi
incubi?”
Sam lo guardava e non capiva. Da
quanto tempo aveva gli incubi? Da quanto era tormentato nel sonno? Perché lui
non se n’era mai accorto? Era talmente perso nelle sue fantasie, talmente
impegnato a desiderare quello che non poteva avere, che non riusciva più a
leggere suo fratello. In tutti quei mesi, quando lo aveva guardato dormire, ogni
volta che aveva chiuso gli occhi, gli era sembrato addirittura… in pace.
“Forza Dean, spara. Cosa vedi?” continuò
il demone. “Quei bei cagnoni che ti strappano la carne? Tutte le fantasiose
torture che dovrai subire all’inferno? Quanto ci metterà tuo fratello a farsi
ammazzare senza di te?”
No, avrebbe voluto rispondere.
Niente di tutto questo. Vedo lui, vedo noi. Felici. Insieme. A quanto pare, ciò
che più mi terrorizza non sono i cerberi o l’inferno, ma siamo noi.
Ora capiva, tornava tutto. Capiva
il perché: perché lui, perché loro, perché ora.
E il terrore che aveva portato i
suoi sogni in quella casa, sul quel divano, in quel bagno con il tappeto rosso,
ora s’impossessò del suo corpo. Dopo minuti interi in cui non aveva fatto altro
che starsene zitto e immobile, finalmente si mosse. E lo fece per andarsene.
Si voltò, salì le scale e sparì.
Sam lo vide scomparire un’altra
volta. Un’altra volta senza la forza di sostenerlo, senza la capacità di
salvarlo, e sentì qualcosa spezzarsi dentro: suo fratello era distrutto, loro
non avevano un piano, lui sarebbe rimasto solo. Era la fine.
Mentre saliva le scale per raggiungere
la camera da letto, Dean sentì i passi pesanti di suo fratello che lo
seguivano. Rimbombavano sui gradini, nelle orecchie, nel petto. E poi sentì la
voce. Rotta, disperata, al limite. Urlava, malediva, lo rimproverava, e subito
dopo rimproverava se stesso. Continuava a ripetere: è finita. È tutto finito.
Raggiunsero la camera da letto. Dean
avrebbe voluto chiudersi in bagno e dimenticare tutto sotto il getto caldo della
doccia, ma Sam lo fermò. Senza smettere di urlare neanche per un secondo, lo
strattonò e lo costrinse a voltarsi.
Dean lo guardava, stravolto di
fronte a lui. Arrabbiato, disperato, alla deriva. Guardava i capelli disordinati
che gli coprivano la fronte, le labbra deformate in una smorfia, gli occhi
iniettati di disperazione, il pomo d’Adamo che, impazzito, gli disegnava la
gola. Lo guardava aprire e chiudere la bocca sputando grida e rabbia, ma non
riusciva a sentirlo. Riusciva a sentire e a pensare soltanto una sera, la mia ultima sera.
Mancava poco, mancava così poco. Se
ne rese conto all’improvviso, e quel pensiero lo schiaffeggiò. Un’alba, un
tramonto, ventiquattro ore. Poi niente, il buio. La fine. E quel buio avrebbe
inghiottito anche loro.
Ma se davvero questa era la fine,
che senso aveva vederlo in quello stato? Che senso aveva resistere, soffrire,
negarsi? Perché doveva fingere fino all’ultimo respiro?
È questo che la gente fa quando
sta per morire? Si abbandona alla verità?
Forse sì. Perché la morte lo
portò a questo, la morte lo portò da lui.
“Zitto, Sam.” La voce, bassa e
raschiata, fu un taglio netto.
“No, non sto zitto! Non sto più
zitto! Mi hai tenuto la bocca chiusa per mesi,” continuò a sbraitare. “Niente
polemiche, niente proteste, niente verità! Ma ora bast-“
“Hai ragione,” lo interruppe. Un
altro taglio. “Ora basta.”
Sam si fermò, si spense, come se
all’improvviso gli avessero tolto le batterie. C’era qualcosa nella voce di suo
fratello, non sapeva se temerla o esserne curioso. Lo guardava confuso,
impietrito al centro della stanza, mentre Dean, a passi lenti e misurati,
iniziò ad andargli incontro.
Sam poté vedere la sua figura che
si avvicinava, si godeva ogni particolare. Gli scarponi che risuonavano sul
pavimento, le gambe storte e adorabili, le braccia fasciate dalla camicia
scura. E, sempre più vicini, i suoi occhi verdi che sembravano spogliarlo.
“Hai ragione, Sam.” ripeté.
Adesso poteva sentire il respiro
mescolarsi al suo, poteva contare le lentiggini, poteva perdersi sulla linea
delle labbra e nel movimento lento delle ciglia.
“Ora basta.” L’ultimo taglio.
Dean fece scivolare lentamente
una mano tra lo scollo della maglietta e la pelle, gli avvolse il collo con il
palmo. Lo spinse delicatamente verso di sé, e le loro labbra si trovarono.
Un bacio leggero, dolce, morbido.
Sam ricambiò la stretta, gli
avvolse i fianchi con entrambe le mani. Rabbrividì quando la camicia si alzò
leggermente e poté sfiorare la schiena, la pelle… la pelle nuda.
Si scontrarono. I fianchi, le
cinture, i jeans. E il bacio si trasformò, da dolcezza a irruenza. Dean lo
cercò ancora di più, spinse più forte fino a fargli aprire le labbra, che
accolsero la sua lingua calda e impaziente.
Passarono secondi, minuti,
secoli. Si chiesero entrambi se la fine non fosse già arrivata e li avesse
trovati lì, pronti, nel loro paradiso.
Sam aprì gli occhi, terrorizzato
dall’idea che tutto potesse svanire, che lui
potesse svanire, che fosse di nuovo intrappolato in una delle sue tante
fantasie. Ma c’era ancora. Dean era ancora lì, tra le sua braccia. E sembrava
un uomo nuovo. Le labbra leggermente gonfie, curvate in quello che sembrava
proprio un sorriso, le guance arrossate, gli occhi che brillavano di una luce
nuova, finalmente libera.
“Dean” sussurrò. “… Dio.”
Non aveva parole, non le trovava.
Tutto sembrava troppo. Troppo da guardare, da toccare, da vivere. Lasciò cadere
la testa in avanti, fino a toccare la fronte dell'altro.
Chiuse gli occhi, un respiro
profondo. Sorrise.
Dean aveva il respiro irregolare,
affannato, si accorse che gli tremavano le mani. Lui invece era tranquillo,
pronto, come se in cuor suo avesse sempre saputo che – prima o poi, se
avesse avuto pazienza, se avesse saputo aspettare – quel momento sarebbe
arrivato.
“Sei sicuro, Sammy?” Quella voce tanto familiare sembrava
provenire da lontano, da un’altra vita, dalla vita che aveva sempre voluto
vivere e che mai aveva sperato di ottenere.
Prima che potesse rispondere,
prima che potesse urlargli quanto lo voleva fino a finire il fiato che aveva in
corpo, Dean gli afferrò la testa e lo costrinse a guardarlo dritto negli occhi.
“Pensa bene prima di rispondere,
Sammy.” disse, in un groviglio di parole emozionate ma decise. “Non voglio
ferirti, non voglio turbarti, non voglio farti del male. Lo sai, non me lo
perdonerei mai. Ma se dici di sì, se mi assicuri che questo – questa
cazzo di follia – è davvero
quello che vuoi… non mi fermerò, Sam. Dio mi perdoni, non mi fermerò.”
Sam, un sorriso di indescrivibile
felicità stampato sulle labbra, socchiuse gli occhi. Si lasciò andare sulla
spalla dell’altro, respirò il suo profumo, strinse tra le dita il tessuto
consumato della camicia. Avvicinò le labbra alla sua gola. Mentre la barba di
qualche giorno gli pizzicava le guance, gli baciò il collo, la mascella, gli
zigomi.
“Non ho mai voluto nient’altro.”
sussurrò. Cercò i bottoni e, uno ad uno, li fece scivolare lentamente nelle
asole. “Solo questo.”
Lo spogliò, Dean rimase a petto
nudo. E adesso l’unica cosa che riempiva gli occhi di Sam era il tatuaggio.
Quella macchia di inchiostro sulla pelle liscia e dorata. Alzò una mano, lo
sfiorò con le dita. Poi avvicinò le labbra e ci lasciò un bacio. Dio, da quanto desidero farlo, e il
bacio diventò un morso.
“E ti scongiuro, non ti fermare.”
sussurrò, senza staccare le labbra dalla sua pelle.
Dean era incantato da Sam, dalla
passione che sprigionava da ogni movimento, dalla devozione che dimostrava con
ogni piccolo gesto. E, sentendo le sue labbra che gli baciavano il petto, lo
sterno, il cuore, si portò le mani alla cintura.
“Non ti preoccupare, farò piano.”
disse a voce bassa, e lo schiocco dei jeans che si aprivano accompagnò le sue
parole. “Cercherò di essere… Sarò perfetto.”
E rassicurandolo fino alla fine,
anche su l’unica cosa per cui non aveva bisogno di rassicurazioni, lo trascinò
sul letto.