CAPITOLO
15
Non
era da me fuggire
in quella maniera, e anche ora che guardavo il mio riflesso sulla
finestra mi
sembrava di vedere una ragazza che non era Celeste. Avevo sempre
cercato di
superare gli ostacoli e di dimostrarmi forte e cinica di fronte a
qualunque
cosa mi accadesse. Ma quella sera nemmeno il mio subconscio era
riuscito a
farmi reagire, a infondermi la sua innata razionalità che, più di una
volta, mi
aveva tolto da numerosi impicci. Aveva taciuto, anche lui scosso da
tutto
quello che era accaduto in poco meno di un’ora. La mia fiducia era
stata
tradita prima da Leonardo, poi da Romeo. La menzogna di quel maledetto
calciatore mi aveva fatto male, mi aveva ferita proprio quando avevo
abbassato
le mie difese e avevo ritirato gli artigli, per concedergli la
possibilità di
entrare a far parte della mia vita. Ma era stato Romeo ad avermi dato
il colpo
di grazia. Scoprire che lui, il mio migliore amico, la persona con cui
avevo
condiviso dieci anni della mia vita e di cui mi fidavo, mi aveva
mentito solo
per difendere Leonardo; era stata come una stilettata inferta con
violenza
all’altezza del cuore. Sapeva quanto odiassi i calciatori, quanto
detestassi le
bugie, quanto non sopportassi essere presa in giro. Eppure aveva
contribuito a
quella recita messa in piedi da Leonardo, preferendo difendere lui
piuttosto
che la sua migliore amica.
«Sto preparando il
caffè per la colazione. Ne vuoi un po' anche tu?» mi domandò Venera,
sbucando
solo con il viso dalla cucina.
Mi voltai per
poterla
guardare negli occhi, stiracchiai le labbra in un sorriso e scossi la
testa in
segno di negazione.
«Preferisci un
bicchiere di latte? Di tè? Un succo di frutta?»
«No, grazie, non
voglio nulla.»
Ven roteò gli
occhi
verso il cielo e mugugnò di dissenso, sparendo nuovamente dentro la
cucina.
Tornai a guardare fuori dalla finestra quel paesaggio, baciato dai
raggi solari
mattutini, che non mi apparteneva: il giardino che circondava la
cascina di
casa Donati e poco più in là le strade di Tivoli.
Ero fuggita,
scappata
da Leonardo e da Romeo. L’aria nel mio appartamento era diventata
irrespirabile, troppo pesante. Avevo sentito la necessità di
allontanarmi da
Roma per cercare di rimuovere il peso che si era posizionato sul mio
petto.
Avevo preso il mio vecchio zaino delle superiori e lo avevo riempito
con
qualche vestito e della biancheria intima. Lo stesso avevo fatto per
Ven,
riempiendo la valigia con i suoi abiti ammassati in una palla informe.
L’avevo presa
per un braccio, trascinata fuori dal mio appartamento, senza degnare
Romeo di
alcuna spiegazione. Aveva tentato di capire che cosa stesse succedendo,
ma lo
avevo allontanato in malo modo e spinto contro il muro, mentre tentava
di
fermarmi.
«Si può sapere che
ti
prende?» aveva urlato Ven, una volta uscite fuori dalla palazzina.
«Voglio andare
via!
Voglio allontanarmi da qui! Voglio dimenticare tutto quello che è
successo!» le
avevo risposto con un tono di voce forse troppo alto.
«E dove dovremmo
andare?»
«Non lo so!
Lontano da
qui!»
Ven mi aveva
fissata a
lungo, sconvolta dal mio comportamento e forse dalle mie guance umide.
Era
raro, se non impossibile, vedermi piangere. L'ultima volta che avevo
versato
lacrime era stato quattro anni prima per il mio ex fidanzato, un
traditore
bastardo che aveva giocato con i miei sentimenti; da quel momento mi
ero
ripromessa di non piangere più per un ragazzo. Avevo sempre cercato di
non far
avvicinare più nessuno a me, mi dicevo che non avevo bisogno di un
ragazzo al mio
fianco. E soprattutto non volevo più innamorarmi. Per colpa dei ragazzi
avevo
accumulato una delusione dopo l'altra; avrei dovuto soltanto studiare e
scrivere romanzi e lasciare l'amore ai masochisti che volevano farsi
del male.
Avevo chiuso con l'amore, con l'amicizia e con qualsiasi altro
sentimento
quella sera stessa. Avrei coltivato solo il legame che mi legava con
Ven,
qualcosa che andava ben oltre all'amicizia, sfiorando quasi la
fratellanza.
Venera era come la sorella che non avevo mai avuto, un pezzo di me che
mi era
stato strappato e che avevo ritrovato.
Il primo luogo che
mi
era venuto in mente era stata casa Donati e, seppur con qualche remora,
Ven
aveva accettato di ospitarmi nella sua cascina. Fortunatamente avevamo
trovato
un treno che ci aveva condotto a Tivoli, nonostante l'ora tarda. I
genitori
della mia migliore amica si erano stupiti di vedere la loro figlia già
di
ritorno ed ancora di più di vedermi lì con solo uno zaino e la faccia
da
zombie. Per fortuna, avevano avuto l'accortezza di non fare domande.
Non sapevo
quanto sarei rimasta lì. Fosse stato per me anche tutta la vita: più mi
fossi
allontanata da Roma e da chi vi abitava, meglio sarebbe stato per la
mia sanità
mentale. Ma lì avevo il lavoro alla gelateria e i corsi da seguire, per
cui non
avrei potuto trattenermi da Ven troppo a lungo. Non sapevo che cosa
avrei
fatto, una volta tornata a casa, come avrei fatto ad abitare ancora
insieme a
Romeo, dopo che la nostra amicizia era collassato come un fragile
castello di
carte, sotto un leggero soffio.
«Vuoi una
brioche?»
Ven comparì ancora una volta dalla cucina, con una tazza di latte e
caffè in
una mano e due Nastrine nell'altra.
«Non ho fame.»
Il sopracciglio
sinistro di Ven si sollevò rapidamente, per poi tornare nella sua
posizione naturale.
Addentò con voracità la sua brioche; mi guardò: i suoi occhi blu
sembravano
scagliarmi contro lampi di rabbia.
«Per quanto ancora
dovrà durare il tuo stato ameboide?» mi chiese scocciata.
Scrollai le spalle
e
mi andai a sedere su una poltrona, appoggiai la guancia sul palmo della
mano e
cominciai ad osservare con attenzione la fantasia del tappeto persiano
del
salotto. Non era da me stare seduta su una poltrona a non far nulla, a
stare in
silenzio piuttosto che urlare contro qualcuno o qualcosa, dal mio
vicino di
casa metallaro al digitale terrestre che faceva i capricci. Io stessa
mi ero
accorta del mio cambiamento e volevo reagire, smettere di pensare alla
sera
precedente e tornare la Celeste furiosa che ero sempre stata. Ma non ci
riuscivo, il mio corpo e una parte del mio cervello si opponeva a
quell'ordine.
«Comincio già a
non
sopportarti più,» borbottò, inzuppando la brioche nel latte e caffè.
«Che cosa
combini se ti piangi addosso? Un. Bel. Niente!» sillabò. «Tranne che
risultare
pesante e assolutamente insopportabile.»
«Permetti che
possa
esserci rimasta male?» chiesi retoricamente.
«Ovvio che tu ci
sia
rimasta male! Ma non per questo devi passare tutto il tempo a fissare
fuori
dalla finestra o ammirare lo schifoso tappeto persiano che ci ha
regalato
quella bacucca della prozia Agata!»
Ven appoggiò la
tazza
sul tavolino e ingurgitò l'ultimo pezzo di brioche, accovacciandosi
accanto
alla poltrona sulla quale ero seduta. Mi appoggiò una mano sul braccio
e me lo
accarezzò.
«Non hai nemmeno
dormito
stanotte. Ti sei coricata per un'oretta, poi ti sei alzata. E non mi
stupirebbe
se ti fossi messa a fissare il vuoto dalla finestra.» Abbassò un po' il
tono di
voce e abbozzò un mezzo sorriso. Sotto la scorza dura e cinica di Ven,
c'era
una piccola anima di zucchero e io ero una delle poche ad aver avuto il
privilegio di intravedere quella parte di lei.
«In realtà, sono
stata
un po' in cucina prima di andare a guardare fuori dalla finestra,»
confessai.
«Wow,
interessante! Ti
piace il set di coltelli che ho comprato? Non si sa mai che possano
tornare
utili...»
Ridacchiai appena
e
Ven ne sembrò felice. Si alzò e mi
strinse un braccio per costringermi a lasciare la comoda poltrona. Feci
un po'
di resistenza, ma riuscì a farmi alzare e sorrise trionfale.
«Si esce! Stiamo
fuori
tutto il giorno e voglio veder sparire quel musone sotto il quale si
nasconde
la mia migliore amica!»
«Non ho voglia,
Ven...» mugugnai, ma lei mi puntò un dito contro e mi guardò perentoria.
«Il mio era un
ordine.»
Tentai di oppormi,
cercando
di farle cambiare idea. Non ero dell'umore giusto per andare a fare una
passeggiata e non le sarei stata affatto di compagnia. Dovetti cedere,
però,
all'ordine di Ven, anche perché mi aveva trascinata nella sua camera e
mi aveva
costretto a mettermi qualcosa di più decente di una maglietta su cui
era
stampata la faccia sbiadita di Mickey Mouse.
Le vie di Tivoli
non
mi erano affatto familiari, mi sentivo spaesata, come un pesce
costretto a
stare sulla terra ferma. In verità sentivo la nostalgia di Roma e della
mia
casa, anche se ero via solo da poco meno di dodici ore. Non ero
abituata e quel
cambiamento repentino e istintivo mi aveva scombussolata più di quanto
mi sarei
potuta aspettare.
Camminavamo in
silenzio; Ven mi lanciava qualche sguardo speranzoso per spronarmi ad
iniziare
un discorso, ma notando la mia totale assenza di parola lasciava
perdere e cominciava a fischiettare.
Cercai un
argomento nella mia mente per cominciare a chiacchierare e rendere
quella
passeggiata meno pesante di quanto fosse, ma l'unico mio pensiero era
rivolto a
Robbeo e quel beota di Leonardo. Più tentavo di non farmi male, più me
ne
facevo involontariamente. E non ero la sola ad affondare ancora di più
la lama,
ma ci si metteva anche l'edicola che stavamo superando. La foto di
Leonardo
Sogno troneggiava sulla copertina di Vanity Fair e guardava l'obiettivo
con il
tipico sguardo ammiccante che aveva sfoggiato più volte anche con me.
Ancora
non mi capacitavo della facilità con cui Leonardo mi avesse ingannata.
Ogni
elemento per capire la verità era sotto i miei occhi fin dall’inizio.
Leonardo
era su ogni rivista, che fosse di gossip o di moda, era in ogni
trasmissione
televisiva e non mi avrebbe stupito scoprire perfino che Roma fosse
tappezzata
di cartelloni con il suo volto. Nemmeno durante la partita di
beneficenza dei
pulcini avevo capito, anche se era chiaro che la talpa rachitica non
poteva
essere il calciatore che il pubblico acclamava come proprio idolo.
Forse perché
erano stati tutti complici di quel film di cui ero la protagonista
inconsapevole: non solo Romeo, ma anche nonna Annunziata, la prima ad
appoggiare suo nipote e perfino il suo insopportabile cugino che,
nonostante
l’odio reciproco che li legasse, aveva comunque retto il gioco a
Leonardo pur
di divertirsi alle mie spalle.
Ma chi volevo
prendere
in giro? Nemmeno la più convincente interpretazione del miglior attore
del
mondo avrebbe potuto rendere veritiera quella situazione. Eppure io ci
ero
cascata, inghiottita dentro di essa senza che me ne rendessi conto.
«Dio mio. Sono
proprio
stupida,» borbottai tra me e me.
«Che succede,
Cel?» mi
chiese Ven, incuriosita.
«Come ho fatto a
non
accorgermi di nulla? Sono proprio tonta. Le sue foto erano ovunque, lui
era ovunque nei programmi tv e io mi sono bevuta la scusa del fioraio!»
«Non sei stupida.
Lui
è stato solo più furbo di te.»
La guardai di
traverso, leggermente offesa dal paragone con quel babbeo di Leonardo.
«Nel senso che ha
approfittato del fatto che tu fossi invaghita per mettere in scena la
sua
“recita”,» spiegò con ovvietà.
«Quando l’ho
conosciuto non ero invaghita. Pensavo solo che fosse un caprone con
troppi
muscoli e poca materia grigia.»
«Probabilmente eri
attratta da lui. Quando poi hai cominciato ad uscirci le prime volte ti
sei
divertita, hai capito che la vita non è fatta solo di libri e di file
Word. E
così, anche se gli indizi erano lampanti, il tuo cervello si è quasi
rifiutato
di farteli vedere per proteggere la felicità ritrovata dopo tanto
tempo.»
Rimasi stupita
dalla
saggezza delle parole di Ven. In quello che aveva detto c’era più
verità di
quanto volessi o avessi voluto davvero ammettere. Non avrei però mai
ammesso la
mia cecità di fronte alla bugia di Leonardo, era un affronto troppo
duro per il
mio orgoglio da poter essere tollerato.
«Può essere,»
rimasi
sul vago, cercando di non incontrare gli occhi di Ven. La mia migliore
amica
aveva la strana capacità di leggermi nel pensiero e in quel momento non
volevo
che intuisse la mia inquietudine. «Ma questo non cambierà le cose.
Ormai ho
chiuso con Leonardo, con la sua famiglia e con Romeo. Tornerò alla mia
vita di
prima, tornerò a studiare, a servire gelati e a scrivere i miei
romanzi.»
Appena fossi
tornata a
casa, semmai fossi ritornata, avrei dovuto ricordarmi di cancellare per
l’ennesima volta il file su cui avevo salvato il mio primo romanzo. Mi
ero resa
conto che era un’idea stupida quella che avevo buttato giù durante una
fase di
pura ispirazione. Sarei tornata sui miei passi, riscrivendo l’idea
originaria
che era molto meno dolorosa di quella attuale.
«Per cui vuoi
tornare
ad essere lo yogurt acido di sempre?» domandò sarcastica Ven. «Ottimo.»
«Senti un po’ da
chi
arriva la predica. Tu sei anche peggio di me.»
«La mia acidità è
scritta
in ogni gene del mio DNA. La tua deriva invece dal fatto di non avere
un uomo.
Quando c’era Leonardo eri molto meno burbera e davvero felice.»
Rotei gli occhi e
guardai il cielo, sbuffando. M’infastidiva questo continuare a
rimarcare il
fatto che con Leonardo il mio umore aveva riacquistato un po’ di
colore, oltre
al grigio topo spento che lo aveva sempre caratterizzato. Era
maledettamente
vero: quel rinoceronte che bravo ad inseguire una palla era stato
l’arcobaleno
che aveva reso meno tristi ed uggiose le mie giornate. Ma questo non mi
avrebbe
mai fatto cambiare idea. La mia vita, per un limitato periodo di tempo,
aveva
cambiato rotta, ma era giunto il momento di riprendere il mio cammino
senza più
sbandate, anche se questo avrebbe significato un picco di acidità del
mio
carattere. Ma ormai tutti si erano abituati, perfino io stessa.
«Questa volta non
mi
farai cambiare idea, Ven.»
«Non ti voglio far
cambiare idea,» disse lei, scrollando le spalle. «Ma lo vuoi sentire il
mio
pensiero su tutta questa faccenda?»
«Anche se ti
dicessi
di no, me lo diresti comunque. Per cui la tua domanda è alquanto
inutile.»
«Infatti,»
convenne
con me, annuendo. «Secondo me te la sei presa troppo. In fondo ti ha
mentito
solo sul nome e sulla sua professione. Il fioraio Ruben ha lo stesso
quoziente
intellettivo del calciatore Leonardo, la stessa stupidità e la stessa
delicatezza di un elefante. Quindi non capisco dove stia il problema.»
«Ti rendi conto
che ha
finto di essere una persona che non era? Se ci fossi passata sopra,
quante cose
avrebbe potuto nascondermi, inventarsi? Come potrei fidarmi di lui?»
alzai il
tono della voce, proprio quando la ferita invisibile che mi aveva
squarciato il
petto cominciò a pulsare di nuovo. «E poi è un calciatore. Sai come
sono
quelli, no? Appena vedono un paio di tette enormi e un sedere rifatto,
non
capiscono più nulla.»
«È inutile fare di
tutta l’erba un fascio. Perfino l’uomo più rispettabile, con cinque
lauree
potrebbe perdere la testa per una Barbie senza neuroni,» rispose
seccata. «E
per quanto riguarda il primo punto, non credo che ti mentirebbe ancora
una
volta se tenesse veramente a te, con il rischio di perderti di nuovo.»
«Hai centrato il
punto
Ven. Non gli interesso, sennò mi avrebbe detto la verità.»
«Perché uno così
dovrebbe perdere tempo con te?» domandò con un sorriso sornione ed io
la
guardai di sottecchi, curiosa di sapere dove volesse arrivare a parare
con il
suo discorso. «È ricco, bello e ogni sera partecipa ad un party diverso
con
migliaia di ragazze che fanno parte del suo mondo di lustrini e
riflettori.
Avrebbe potuto benissimo continuare a divertirsi, ma ha capito che non
gli
bastava più scaldare le lenzuola con una modella di cui non sa nemmeno
pronunciare il nome. Se ha scelto te, un motivo ci sarà…» lasciò la
frase in
sospeso e schioccò la lingua, soddisfatta della sua arringa.
«Perché tu
veramente
credi che ora lui non stia in giro per Londra a cercarsi una gnocca con
cui
spassarsela stanotte?» domandai, con il chiaro intento di provocarla.
Ven fece
spallucce,
senza rispondere. Zittire un futuro avvocato con la tempra di Ven era
una
soddisfazione impagabile e gongolai nel mio piccolo per essere riuscita
a
zittirla.
«E del puzzone che
mi
dici?» domandò all’improvviso ed io la guardai un attimo confusa
«Ciuccio,» esplicò
poco dopo.
«Ah…» mugugnai,
senza
però rispondere alla domanda di Ven. Meno toccavo l’argomento Romeo,
meglio era
per me.
«Insomma, voleva
solo
renderti felice,» disse, con un tono quasi schifato perché stava
difendendo il
suo peggior nemico.
«Mentendomi?»
chiesi
ironica. «Capisco che magari Leonardo era giustificato dal fatto che mi
conoscesse poco e che abbia un solo neurone nella scatola cranica, ma
Romeo sa
fin troppo bene che odio le menzogne.»
«Ciuccio non ha
nemmeno quel neurone, per cui ha agito d’istinto, come fanno le
scimmie,»
rimase un attimo in silenzio, prima di parlare ancora. «Anche se le
scimmie
sono più intelligenti del tuo amico.»
«Ex amico,»
la
corressi e lei sbuffò.
«Per quanto gli
porterai rancore? Per tutta la vita?»
«Probabilmente sì.
Lui
era l’ultima persona da cui mi aspettavo una pugnalata alle spalle!»
«Pugnalata,»
ripeté,
ridacchiando «Sei troppo esagerata, Cel. Non ha protetto un criminale
che ha
sterminato tutta la tua famiglia, santo cielo!»
«Che dici se
cambiamo
discorso? Potremmo prenderci un pezzo di pizza dal fornaio e mangiarla
mentre
passeggiamo,» azzardai per distogliere la nostra attenzione da Romeo e
da
quello che era accaduto la sera prima.
Ven mi guardò di
sottecchi e sospirò, accogliendo la mia richiesta per non infierire
ulteriormente. L’ultima cosa che volevo era affondare ancora di più il
coltello
nella piaga e scavare a fondo dentro di me, con il rischio di scovare
verità
che nemmeno io volevo venissero a galla.
Mentre gustavamo
il
nostro pezzo di pizza, la canzone dei Puffi cominciò a riecheggiare per
le vie
di Tivoli. Io e Ven ci scambiammo uno sguardo dubbioso, finché non
capimmo che
la musica proveniva dal suo cellulare.
«Ammazzerò
Ciuccio, un
giorno o l’altro,» borbottò, convinta che fosse stato Romeo a cambiarle
suoneria solo per farle un dispetto.
Prese il cellulare
dalla tasca dei jeans, cercando di non sporcarsi con il sugo e l’olio
della
pizza. Mugugnò di dissenso quando lesse il nome di chi la cercava e
rimise il
cellulare nella tasca dei pantaloni.
«Era il puzzone,»
mi
informò. «Credo che volesse parlare con te. Ma dato che nessuna delle
due aveva
voglia di conversare con il mangia-caccole, ho chiuso la comunicazione.»
«Hai fatto bene,»
le
sorrisi.
La nostra
passeggiata
durò quasi tutta la mattina e il primo pomeriggio. Ven si era offerta
di
comprarmi qualche vestito nuovo e, anche se avevo cercato di oppormi
alla sua
volontà di spendere soldi per me, dovetti cedere alle pressioni della
mia
migliore amica. Romeo tentò di chiamarla una decina di volte, senza
arrendersi
al fatto che io e lui avevamo chiuso forse per sempre.
Mentre stavamo
tornando verso la cascina dei Donati, con i piedi doloranti per la
lunga
camminata a Tivoli, Ven ricevette un messaggio sempre da parte di
Ciuccio.
Sembrò quasi turbata nel leggere ciò che le aveva scritto e, nonostante
le mie
insistenze, non mi fece leggere l’SMS. Ero curiosa di sapere che cosa
ci fosse
scritto per convincere Ven ad allontanarsi da me per un po’ e chiamarlo
al
telefono. In tutti gli anni che si conoscevano non si erano mai
scambiati
nessuna telefonata, se non qualche scherzo telefonico che Romeo si
divertiva ad
ordire ai danni della mia migliore amica.
«Che cosa voleva?»
le
domandai, quando tornò verso di me.
«Parlare con te.
Gli
ho detto che era inutile che continuasse a chiamarmi perché tanto tu
non avevi
nessuna voglia di scambiare quattro chiacchiere con lui.»
Annuii, anche se
con
un pizzico di sospetto. C’era qualcosa di poco convincente in tutta la
vicenda,
ma decisi di non darci molto peso. Ven era la mia migliore amica, non
mi
avrebbe mai mentito.
Arrivammo a casa
sua
che era pomeriggio inoltrato. La luce del sole si stava già indebolendo
e
filtrava a fatica dalle finestre. Mi stesi sul divano, approfittando
del fatto
che i signori Donati non fossero ancora rincasati e non potessero
vedermi in
quello stato di pigrizia molto simile a quella di un bradipo. Il
tintinnio del
vetro sul tavolino mi fece aprire un occhio e vidi Ven appoggiare dei
bicchieri
colmi di succo di frutta. Poi mi scansò le gambe dal divano, rischiando
di
farmi cadere e si sedette accanto a me, cominciando a sorseggiare il
succo.
«Stavo pensando ad
una
cosa…»
«A come
uccidermi?»
chiesi sarcastica, sistemandomi sul divano e afferrando il bicchiere.
«Al fatto che
potremmo
partire. Prenderci una piccola vacanza e staccare un attimo la spina.
Credo che
ti farebbe bene cambiare un po’ aria.»
«E dove troviamo i
soldi, di grazia?»
«Mia madre ha
vinto
dei biglietti con i punti dell’Esselunga per due persone. Mi
dispiacerebbe non
usufruirne.»
«E quando si
dovrebbe
partire? E dove andremmo, soprattutto?»
«Non lo so. Vado a
controllare.»
Ven si allontanò
solo
per qualche attimo, tornando poco dopo con un sorriso incerto sulle
labbra,
quasi come se mi stesse nascondendo qualcosa.
«La partenza
sarebbe
domani pomeriggio…»
«Domani? Come
diavolo
faccio con l’università e con il lavoro?»
«Non puoi chiedere
a
quel bombolone farcito del tuo capo di darti qualche giorno di vacanza?
Si
tratta solo di quattro giorni, comunque.»
«Non lo so, ci
posso provare.
Ma non ti assicuro nulla,» sospirai. L’idea della vacanza era
allettante, anche
se la partenza era troppo immediata; speravo che Bombolo mi concedesse
qualche
giorno per allontanarmi dalla città e riprendermi dalla mia delusione
sentimentale. «E dove andremmo?»
Ven si schiarì la
voce.
«Londra.»
Un goccio di succo
di
frutta per poco non diventò il mio assassino. Mi andò di traverso e per
miracolo non morii soffocata.
«Stai scherzando?
Non
ci vado lì con il rischio di incontrare Leonardo!» sbottai, dopo aver
visto la
morte in faccia.
«Ma dai! Londra
non è
mica Paperopoli! È una metropoli enorme! Quante probabilità ci sono che
lo
incontri?»
«Sono sempre stata
una
schiappa in statistica…»
«Poche,
pochissime!
Quasi nulle!»
Scossi la testa,
in
segno di negazione. Con la sfortuna che mi perseguitava, nella grande
metropoli
lo avrei sicuramente incontrato e di rivedere dal vivo il suo sorriso
non era
la mia massima aspirazione.
«Dai, Cel! Sai
quanto
adoro Londra e che andrò a lavorarci dopo la laurea. Ho l’occasione di
visitarla di nuovo in vista della mia partenza!»
Cercai di non
cedere
alla sua preghiera, ma i suoi occhi mi stavano supplicando e non
riuscii a
resistere. Lei avrebbe fatto di tutto per me, io potevo almeno fare lo
sforzo
di partire per Londra ed accontentarla. A quanto pareva, c’era un
disegno
ordito da qualcosa di superiore che voleva che io andassi in quella
città.
E così mi ritrovavo a dover preparare lo zaino velocemente, perché
l’aereo
sarebbe partito fra meno di ventiquattro ore.
«E va bene.
Andiamo a
Londra,» sospirai sconsolata.
Ero riuscita a
convincere Bombolo a concedermi quattro giorni di vacanza dopo quasi
un'ora di
telefonata e una ricarica da venti euro prosciugata. Avevo preparato il
mio
zaino con i pochi vestiti che mi ero portata dietro e alcuni capi che
Ven mi
aveva comprato il giorno prima. Non ero granché entusiasta di andare a
Londra,
soprattutto perché in quella stessa città c'era Leonardo e temevo di
poterlo
incontrare in qualsiasi momento. Ma Ven aveva ragione, avevo bisogno di
staccare un po' e concedermi una vacanza, approfittando così di
visitare la
città in cui avrebbe voluto lavorare la mia migliore amica.
In vita mia, non
avevo
mai preso l'aereo ed ero terrorizzata al fatto di doverci salire a
bordo.
Poteva cadere nel bel mezzo del mare e non lasciarci via di scampo.
Ven,
accanto a me mentre si guardava attorno nell'immenso aeroporto, non
sembrava
affatto preoccupata. Sembrava più intenta a cercare qualcuno, piuttosto
che
alle catastrofiche conseguenze che lo schianto di un aereo avrebbe
potuto
portare.
«Stai aspettando
qualcuno, per caso?» domandai.
«No, no. Mi
guardavo
solo un po' in giro,» mi tranquillizzò con un sorriso non del tutto
convinto.
Annuii e scrollai
le
spalle, sistemandomi lo zaino da duecento chili sulle spalle. Alla fine
di quel
viaggio mi sarei ritrovata gobba come Leopardi.
«I biglietti li
hai?»
chiesi sospettosa, non del tutto convinta che quei biglietti
esistessero
davvero.
Avevo insistito
perché
Ven il giorno prima me li mostrasse, ma lei aveva sempre tergiversato,
cambiando argomento.
«Ma certo! Ti
sembra
che possa dimenticarmeli?»
«E allora perché
non
andiamo a fare il check-in? Si è creata già una bella fila e con la
fortuna che
abbiamo, rischiamo di rimanere a Roma,»
«Non ti
preoccupare, Cel.
Ora andiamo, ok?» mi diede una pacca sulla spalla, sempre con lo
sguardo
puntato verso le porte d'ingresso dell'aeroporto. Rimasi interdetta,
stupita
dall'atteggiamento inusuale della mia amica. Il suo comportamento,
unito al
mistero dei biglietti invisibili, mi rendeva ancora più sospettosa di
quanto
già non fossi. Incrociai le braccia, corrucciai il viso e ridussi gli
occhi a
due fessure.
«Che cosa mi
nascondi,
Venera?»
La mia migliore
amica
scese dalle punte e mi sorrise.
«Sono felice che
tu ti
sia ripresa dal tuo stato vegetativo di ieri,» osservò, con una strana
luce ad
illuminargli gli occhi blu. «Com'è il tuo umore?» mi domandò poi.
«Sotto le scarpe,»
risposi dubbiosa, con un sopracciglio abbassato. Il mio piede destro
cominciò a
picchiettare autonomamente sul pavimento lucido dell'aeroporto e Ven
sembrò
notare il mio tic nervoso, preludio di una sfuriata isterica.
«Hai oggetti
contundenti dentro lo zaino?»
«No. Ma è
abbastanza
pensate per essere usta come arma del delitto.»
Ven ridacchiò
nervosamente,
respirando poi a fondo prima di superarmi e confondersi tra la folla.
Cercai di
capire dove stesse andando, alzandomi perfino sulle punte, ma ero
troppo bassa
per poterla adocchiare mezzo a tutta
quella gente. Uscì da quella calca qualche secondo dopo e le andai
incontro,
elaborando un po' in ritardo il viso del ragazzo che la affiancava.
Qualche
passo prima di trovarmi proprio davanti a lei mi fermai di scatto,
rischiando
di cadere ed essere schiacciata dal peso del mio zaino. Riconobbi gli
inconfondibili
capelli rossi e la carnagione fosforescente di Romeo e mi immobilizzai fissarli, confusa e convinta che quello fosse
solo un brutto sogno.
«Che cosa ci fa
lui
qui?» domandai, indicandolo.
«Ha i nostri
biglietti,» rispose Ven, grattandosi l'avambraccio.
«Non li aveva
presi
tua madre con in punti dell'Esselunga?» continuai furiosa, lo sguardo
che
rimbalzava dalla mia migliore amica a Romeo.
«Era solo una
bugia
per convincerti a partire,» confessò Ven, colpevole. «È stato Romeo a
chiedermi
di andare a Londra.»
Osservai prima il
mio
ex amico, con lo sguardo basso verso le All-Stars, che avevano assunto
un
colore rosso spento a causa del tempo, e una spalla incurvata a causa
del peso
di un borsone vecchio quasi quanto i suoi jeans. Provai tenerezza per
lui e una
certa nostalgia per i nostri litigi insensati su ogni piccola
sciocchezza. Ma
fu questione di un attimo, perché distolsi il mio sguardo per puntarlo
su Ven.
Se avessero potuto, i miei occhi l'avrebbero incenerita all'istante.
«Sai che odio
mentire.
Ma ti serviva una vacanza e si è presentata l'occasione di andare a
Londra
gratis,» fece spallucce. «Non pensare che io sia felice di partire con
questo
mangia-caccole!»
Non sapevo da dove
provenissero quei biglietti, se li avesse pagati Romeo per tentare un
ricongiungimento con me o se gli fossero piovuti dal cielo, ma nemmeno
m'interessava scoprirlo. La presenza di Romeo era solo un altro motivo
per non
partire per Londra e rimanere in Italia. Mi aprii un varco tra Ven e
Romeo con
poca delicatezza e mi allontanai velocemente da loro due. Entrambi
cercarono di
fermarmi, urlando il mio nome, ma li ignorai, continuando la mia corsa
verso
l’uscita dell’aeroporto. Mentirmi sembrava essere diventato l’hobby
preferito
di chiunque mi circondasse.
Mi afferrarono per
un
braccio e dall’intensità della stretta capii subito che fosse Romeo.
Cercai di
divincolarmi, ma ogni mio sforzo fu vano. Così dovetti arrendermi e
trovai il
coraggio di guardarlo negli occhi. Sembrava davvero dispiaciuto, ma non
mi
lasciai intenerire dal suo sguardo rattristato.
«Lasciami andare,
Romeo,» grugnii, ma lui scosse la testa.
«Non voglio
buttare
all’aria dieci anni d’amicizia,» rispose con tono basso.
«L’hai già fatto,
Romeo,» ribattei brusca, strattonandolo ancora e riuscii a liberarmi
dalla sua
presa.
«Quindi tu hai
seppellito dieci anni di vita così, solo per una stupida bugia detta a
fin di
bene?» Romeo alzò il tono della voce e il suo viso normalmente pallido
assunse
un tenue colore rosso.
«Il mangia-caccole
ha
ragione,» intervenne anche Ven, incrociando le braccia e guardandomi
con
severità. «Cavoli! Avete condiviso praticamente tutta la vostra vita e
tu getti
via tutto per un idiota che rincorre un pallone?»
La guardai di
sottecchi, sistemandomi nervosamente una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
Dovevo ammettere che sentivo la mancanza di Romeo, della sua pigrizia e
della
sua rozzezza. In un certo senso, mi sentivo privata di una parte di me
senza di
lui. ma non mi era facile lasciarmi quello che era successo alle
spalle, mi sentivo
tradita e questo provocava in me una delusione tale da non poterlo
perdonare.
«Non voglio
partire,»
dissi perentoria, come se quello fosse un ordine.
«Mi hai molto
deluso,
Cel,» disse Romeo, scuotendo la testa. «Pensavo che la nostra amicizia
fosse
importante per te. Ma se ti comporti così mi dimostri che non lo era
poi così
tanto.»
«Anche io pensavo
che
fosse importante per te. Sai quanto ho sofferto per le ripetute bugie e
i
continui tradimenti delle persone, e tu ti sei comportato esattamente
come loro.»
Romeo annuì e si
passo
entrambe le mani tra i capelli.
«Sapevo che
partire
sarebbe stata una pessima idea,» mormorò.
Estrasse dal suo
borsone consunto due biglietti e li tese a Ven. Poi, con lo sguardo
basso, mi
superò. Mi sentivo un tantino in colpa perché, come aveva detto Ven il
giorno
prima, anche io avevo contribuito a distruggere tutto. Ma non ebbi il
coraggio
e la forza per trattenere Romeo e chiedergli scusa, mettere una pietra
sopra a
due sere prima e continuare la nostra amicizia come se nulla fosse
accaduto. Fu
Ven però a bloccarlo, spingendolo con forza verso di me.
«Noi partiremo,»
disse
accigliata, guardando prima me e poi Romeo. «Andremo a Londra tutti e
tre e
cercheremo di far tornare tutto com’era prima.»
Romeo cercò di
controbattere e di andarsene nuovamente, ma Ven lo strattonò e lo
trascinò
verso il check-in, ordinandomi con lo sguardo di seguirla. Non mi
opposi, forse
perché una parte di me voleva andare a Londra sperando di ricucire la
lacerazione che si era creata tra me e Romeo.
Ci imbarcammo
circa
un’ora dopo la litigata tra me e Romeo. L’ansia e il terrore che avevo
sviluppato poco prima, quando ero entrata nell’aeroporto, era
completamente
sparita, rimpiazzata dall’amarezza per il tranello che mi aveva teso la
mia
migliore amica.
Ven fu la prima a
salire sull’aereo e si era precipitata con foga verso una tripletta di
posti
liberi, accaparrandosi il posto vicino al finestrino.
«Voglio godermi il
panorama!» si era giustificata.
Intuii subito che
la
sua fosse solo una scusa per farmi sedere accanto a Romeo.
«Tu ti siedi
accanto a
me, Cel,» disse. «Ho avuto fin troppi contatti fisici con il
mangia-caccole per
oggi.»
Sorrisi quasi
divertita, godendo un po’ di quell’atmosfera che impregnava l’aria
tipica del
nostro trio. Mi sembrò quasi che fosse
stato spazzato va tutto con una sola folata di vento, che fossimo
tornati noi
tre, con i battibecchi tra Ven e Romeo ed io, in mezzo, a sopportare il
loro
astio.
Robbeo, però, non
rispose all’ennesima provocazione della mia migliore amica. Prenderla
in giro e
beffarsi di lei erano il suo passatempo preferito dai tempi del liceo.
Lo
guardai di sottecchi, mentre ci allacciavamo le cinture come ci aveva
detto di
fare l’hostess. Quello che avevo davanti non mi sembrava nemmeno il mio
ex
migliore amico. Lui aveva sempre il sorriso sulle labbra, anche quando
non
c’era nulla da sorridere e difficilmente veniva colto da momenti di
tristezza.
In quel momento era molto più che mesto. Era abbattuto, travolto anche
lui da
quella situazione ingestibile. Molto probabilmente non si era nemmeno
reso
contro di quello che avrebbe provocato appoggiare la folle idea di
Leonardo di
fingersi qualcun altro. Aveva agito d’istinto, così come aveva sempre
fatto,
senza pensare alle conseguenze.
Mi dispiaceva
vederlo
così triste e capii quanto si sentisse in colpa per quanto era
successo, anche
se in realtà l’unica colpa era da imputare a Leonardo. Era lui che
aveva messo
in piedi quel teatrino, approfittandosi dei suoi amici e del suo fan
più
sfegatato.
L’aereo decollò ed
io
mi aggrappai ai braccioli, affondando nello schienale del sedile.
Sentii Romeo
stringermi la mano, così aprii un occhio e incontrai il suo sorriso che
mi
tranquillizzò. Sembrò perfino sorpreso della mia non-reazione. Forse si
aspettava che lo allontanassi e che riducessi al minimo il contatto con
lui. Ma
quella stretta fu stranamente piacevole e rassicurante.
Quando l’aereo si
stabilizzò, Romeo si sfilò la cintura e prese dal suo zainetto un
pacchetto di
caramelle gommose a forma di orsetto. Ne mangiò un paio, poi mi tese il
sacchetto con un sorriso appena abbozzato e un certo timore, quasi come
se
avesse paura di un’ennesima litigata.
«Tieni. Sono tutti
orsetti verdi, i tuoi preferiti. Ieri ho mangiato tutti gli altri e li
ho
avanzati per quando fossi tornata per perdonarmi.»
Esitai qualche
attimo,
piacevolmente colpita da quel gesto semplice, che però dimostrava
quanto
realmente Robbeo tenesse alla nostra amicizia. Mi sentii una stupida
per aver
dubitato di lui e avergli riversato contro tutto il mio isterismo.
Presi
velocemente il sacchetto e cominciai a mangiucchiare qualche orsetto.
«Grazie,» mormorai.
Romeo si strinse
nelle
spalle e mi sorrise. Cercai di rimanere corrucciata, ma non riuscii a
non
ricambiare. Il sorriso mi sorse spontaneo ed incontrollato. Romeo si
sporse
verso di me e mi strinse una spalla, avvicinandomi a lui. mi scompigliò
i
capelli con una mano, poi lasciò un bacio sulla mia fronte. Lo spinsi
via
delicatamente e lo guardai imbronciata.
«Sono ancora
arrabbiata con te!» lo avvisai. «Ti serve almeno un altro sacchetto di
orsetti
verdi per farti perdonare.»
«Sarà fatto,
capitano!» esclamò, tirando fuori dallo zaino un altro sacchetto di
caramelle.
Ven si allungò
verso
di lui e gli strappò di mano il pacchetto. Lo aprì e cominciò a
mangiare gli
orsetti gommosi.
«Ti do una mano,»
spiegò spicciola.
Nonostante il
clima
tra di noi si fosse disteso, avevo bisogno ancora di un po’ di tempo
per
metabolizzare la menzogna di Romeo. Il suo piccolo tradimento nei miei
confronti era stato inaspettato e bruciava ancora come se fosse
costantemente
alimentato dalla benzina. Ma avevo capito che Romeo era parte della mia
vita e
mi era impossibile escluderlo da essa.
***
L’erba verde
dell’Emirate Stadium era pregna dell’umidità tipica della capitale
londinese.
Con il cielo plumbeo e la temperatura rigida di quella mattina non mi
tolsi
nemmeno la tuta per allenarmi, ma indossai persino lo scalda-collo e un
berretto di lana ben calcato sulla testa. Eravamo andati a provare il
campo
prima della partita che si sarebbe giocata l’indomani sera e tutta la
rosa convocata
per la trasferta aveva acconsentito al sopralluogo del campo, come se
ci
potesse essere chissà quale trappola nascosta nel terreno
che avrebbero potuto tenderci, quelli
dell'Arsenal.
Non
cantare vittoria, ricordati che c’è sempre Simone,
mi ricordò il mio saggio Ego, tornato a consigliarmi da quando avevo
deciso di
pensare di nuovo a me stesso e a nessun altro.
Appiattii una
zolla di
terra che si era staccata dal campo e sbuffai fuori dalle labbra una
nuvola di
fiato che si andò subito a condensare per il freddo. Quella notte non
avevo
chiuso occhio, troppi pensieri per la testa che mi tenevano sveglio e
m’impedivano di concentrarmi. Avrei dovuto zittire quelle voci che mi
facevano
pensare a Celeste e concentrarmi unicamente sulla Champions. La squadra
aveva
lavorato tanto per arrivare sino a lì, avevamo sofferto, tirato avanti
anche
con i numerosi infortuni, eppure ce l’avevamo fatta ed io ero in debito
verso
di loro. Quella squadra ormai era l’unica famiglia che mi rimaneva e il
lavoro
sarebbe stato il solo obiettivo cui avessi dovuto puntare.
«Mi
ripeti per quale assurdo motivo sono voluta partire anche io?»
borbottò Annalisa al mio fianco, incappottata fino alla cute. Dalla
voluminosa
sciarpa di Fendi s’intravedevano unicamente dei ciuffetti rossi sparati
in ogni
direzione.
Feci rotolare il
pallone della Nike sulla punta della scarpa e cominciai a palleggiare,
magari
riscaldandomi da quell’umidità londinese. «Vuoi
che te lo dica davvero?» ironizzai, aggiustando
la traiettoria della palla con un colpo di testa.
Anna sprofondò
ancor
di più nel suoi Woolrich e abbassò quegli occhi smeraldini verso i suoi
stivali
di lana, sempre senza tacco. «No,»
smozzicò, iniziando a giocherellare con un altro pallone da calcio.
Da quando avevamo
lasciato Roma, era come se Annalisa si fosse trasformata, in meglio
ovviamente.
Non sapevo spiegarlo, ma in lei riuscivo a vedere una complice,
qualcuna che
stesse nella mia identica situazione e mi comprendesse. Ruben era il
mio
migliore amico, d’accordo, però non sapeva come ci si potesse sentire
ad essere
abbandonati.
Annalisa e io
eravamo
quasi… amici.
Mi guardai intorno
e
vidi l’immensità di quell’arena, ricordando come mi ero sentito la
prima volta
che avevo messo piede all’Olimpico con mio padre. Sin da piccolo mi
aveva
portato a vedere tutte le partite della Magica, dicendomi che un giorno
avrei
fatto parte di quel mondo anche io. Alla fine ero riuscito a realizzare
quel
sogno, ma adesso era come se mi mancasse qualcosa.
«Hai
provato a telefonargli?» le domandai almeno
per smorzare quel silenzio che si era creato su quel campo da calcio.
Scosse la testa e
infilò le mani in tasca. «Non ho nemmeno il
coraggio di guardare lo schermo.»
Sembravamo due
ruderi
che si trascinavano da una parte all’altra sostenendosi a vicenda per
non
cadere e se mi fossi visto con occhi esterni, non avrei mai creduto che
quei
due ragazzi infagottati su quel campo da calcio fossero il grande
centroavanti
della Roma e la figlia del Presidente.
«A
questo punto non credo possa andare peggio di così,»
mormorò cheta, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Mi
odierà a vita.»
Ripensai alla mia
di
situazione e realizzai che non ero poi messo tanto meglio di lei.
Celeste si
era addirittura trasferita dalla sua amica pur di non vedermi ed io,
forse
troppo orgoglioso, non l’avevo raggiunta.
«Già,
vale anche per me.»
«Voi
almeno siete stati insieme,» rispose prontamente, «anche
se per poco,» aggiunse. «Io
sono stata troppo codarda per provarci.»
Alzai un
sopracciglio
con un’espressione stupita. «Stento sempre più a
riconoscerti. Pensavo che niente fosse in grado di mettersi tra te e
ciò che
volevi.»
Annalisa tirò
fuori
dalla tasca un fermaglio con tre perle nere incastonate sopra e se lo
rigirò
tra le mani. «Infatti,»
sospirò. «Ma è la prima volta
che mi capita una cosa del genere. Non so davvero cosa fare.»
Quello sarebbe
stato
un momento perfetto per un gesto carino, magari una pacca sulla spalla
o un
semplice abbraccio, invece me ne rimasi lì, con le mani nelle tasche
della
felpa a fissare il pallone che rotolava a pochi passi da me. Non ero il
tipo da
farmi in quattro per gli altri, avevo sempre pensato solo a me stesso e
non
sarebbe cambiato poi molto. Certo, vedere Anna con quell’espressione
non era
cosa di tutti i giorni, però avevo i miei problemi e non potevo
sobbarcarmi
anche i suoi.
«A
Leona’ ‘a senti l’aria de ‘a vittoria?»
mi disse Daniele, passandomi un braccio attorno alle spalle.
«Domani
sera lo spaccheremo ‘sto stadio!»
si aggiunse Marco, convinto.
«Puoi
dirlo forte!» risposi, ma senza lo
stesso loro entusiasmo.
«Ao’,
te vedo moscio. ‘A pischella non te la da?»
sghignazzò Capitan futuro, scambiandosi occhiate complici con Borriello.
A quel commento
trasalii e li fissai di traverso. «Fottetevi.»
«Povero
cuginetto sfigato,» commentò una voce dal
tunnel che conduceva agli spogliatoi.
Non c’era alcun
bisogno che mi voltassi, sapevo perfettamente a chi appartenesse quel
tono
strafottente e quell’accento da finto lord dei miei stivali.
«Che
ci fai qui?» gli domandò Marco.
«Stamo
a prova’ er campo, che voi?» Si aggiunse Daniele.
Mi voltai in
ultimo,
sperando fino al centesimo di secondo che un fulmine colpisse mio
cugino in
testa, riducendolo ad un mucchietto di cenere. Purtroppo mi ritrovai il
suo
sorriso sghembo davanti agli occhi, pronto ad essere smorzato da un bel
dritto
da parte mia.
«Che
cazzo voi?» gli dissi, con un
tono per nulla mascherato.
Simone
era vestito
normalmente, senza la tuta della sua squadra, e se ne stava immobile
con le
mani nelle tasche del suo Museum a sorridere come un imbecille. «Can I come and see my little cousin
or not?»
«Parla
come magni, stronzo,» lo apostrofai, senza
mezzi termini.
Il sorriso sparì
dal
suo volto ed io gongolai nel mio piccolo. Uno per Leo e zero per
quell’autentico coglione.
Inizialmente
sembrò
tentennare, magari era alla ricerca di qualche risposta piccata per
sopperire a
quella mia genialata. Simone non era da sottovalutare, per
nessun
motivo. Aveva sì quattro anni in meno di me, era il mio cuginetto in
fondo, ma
era dannatamente furbo il bastardo.
«Quanto
siamo irascibili, bro',» commentò sorridendo,
di nuovo.
Lo odiavo, con
tutto
me stesso, con ogni fibra del mio corpo. Avrei tanto voluto fargli
sparire
quell’aria arrogante dalla faccia, ma era pur sempre mio cugino e nonna
non me
l’avrebbe mai perdonato.
«Se
non hai altro di meglio da fare che rompermi le palle, quella è la
porta,»
e gli indicai il tunnel degli spogliatoi.
«Suvvia,
lil’cousin,» sghignazzò
avvicinandosi. «Sono venuto solo a
salutarti e a dare un’occhiata alla tua squadra,
se così si può chiamare.»
«C’hai
quarche problema?» gli ringhiò addosso
Daniele.
«’Sto
tizio c’ha la faccia da cazzo,» asserì Marco.
Almeno non ero
l’unico
che reputava Simone la più grande testa di cazzo mai esistita sulla
faccia
della Terra. Eppure il nostro rapporto non era stato sempre così, anzi,
il più
delle volte da piccoli giocavamo insieme e ci divertivamo anche.
Beata
innocenza.
«Modera
un po’ i termini. È della squadra di mio padre che stai parlando,»
intervenne Anna, con le mani sui fianchi e lo sguardo minaccioso. Quei
suoi capelli
rosso fiammante, poi, facevano il resto.
Sembrava una
piccola
Ariel sull’orlo di una crisi isterica.
Simone si voltò
verso
di lei e un sorriso malizioso gli apparve su quel volto da ragazzino.
Lo avevo
già visto uno sguardo del genere. Anch’io ne facevo uso quando volevo
portarmi
a letto qualcuna.
«Suppongo
che tu sia la bella figlia di Mr. Cavalli,»
mormorò avvicinandosi a lei. Rimasi di sasso quando le prese la mano e
ne baciò
il dorso nemmeno fosse un frocetto francese dell’800! «Enchanted to meet you, my dear.»
Vidi la rabbia di Annalisa scemare nel più
genuino
stupore e un tiepido allarme cominciò a farmi rizzare i peli sulla
nuca.
Possibile che quel cazzone riuscisse a manipolare anche una ragazza
scaltra
come la Cavalli?
«C-Che
fai?» gli domandò lei, confusa.
Gli occhi neri di Simone incrociarono quelli
di
Anna e quello fu il momento adatto per intervenire. Se la mia storia
era andata
a puttane, ciò non valeva anche per quella tra lei e Romeo. In fondo si
era
trattato solo di un malinteso.
«Hai
finito?» m’intromisi, frapponendomi tra mio cugino e
Anna.
Simone mi fissò stupito.
Guardò prima me poi Anna dietro alle mie
spalle. «Ma non era bionda la tua ragazza?» mi
domandò perplesso, non
mancando di sfoderare un sorrisetto da chi la sapeva lunga.
Strinsi le mani a pugno, infastidito. «Lei
non è la mia ragazza,
infatti.»
Finse di pensare, poi s’infilò di nuovo le
mani in
tasca. «Insomma il lupo perde il pelo ma non
il vizio.»
Assottigliai lo sguardo, pronto a qualsiasi
sua
contromossa. «Che intendi?»
Simone sospirò, poi si aggiustò i capelli
castani
con una mano. «Quando nonna
mi ha detto che stavi con quella, non ci ho creduto. Quelli come noi
non
riescono ad essere fedeli. Siamo indomabili, ammettilo.»
«Smettila
di sparare cazzate,» lo ammonii.
«Quando
sei andato a letto con la rossa?» mi chiese di nuovo, sorridendo
sghembo.
Sgranai gli occhi e le mani cominciarono a
prudermi. Lo odiavo.
«Non
siamo stati a letto,» intervenne prontamente Annalisa
ed io la ringraziai con uno sguardo. «Anche
se avrei voluto,» aggiunse.
Era troppo pretendere che la Anna buona e
cara
venisse alla luce anche con le altre persone.
«Sai, I
like you,» sorrise Simone, mandandole un bacio fugace
con la
mano.
A stare appresso a quei due sarei uscito di
senno,
ormai era un dato di fatto. Avevo già i miei problemi da risolvere e la
partita
più importante della Champions l’indomani, sinceramente ne avevo piene
le
scatole.
«H-H-Hey,
t-tu-t-t-tu n-non puoi s-sta-stare q-qui!»
intervenne Ruben, correndo tutto
dinoccolato. Sembrava uno di quegli omini animati attraverso l’aria,
con le
braccia in alto e i movimenti scoordinati.
Era davvero buffo.
Mio cugino rifilò a Ruben un’occhiata mista
tra il divertito
e lo schifato. Non gli era mai piaciuto, pensava che era da idioti
portarsi
appresso un babbuino goffo come quello. Ovviamente io lo avevo sempre
mandato a
fare in culo.
Simone aveva l’intelligenza di un bambino di
quattro anni.
«Ecco
lo scimmiotto,» sentenziò ghignando.
Subito Ruben abbassò lo sguardo e arrossì
vistosamente. Aveva sempre cercato di evitare Simone, ma quando se lo
trovava
davanti gli era impossibile tenergli testa. Il mio migliore amico era
essenzialmente buono, dall’animo nobile, invece Simone non era altro
che un lurido
topo di fogna.
«D-De-Devi
and-andartene, n-no-no… no-no-n-no…» farfugliò imbarazzato.
Mio cugino guardò distrattamente l’orologio
da
polso. «Di questo passo rischio di far
tardi al mio appuntamento. Ma ci mette sempre due ore per dire qualcosa?» mi
fece, rivolgendomi un sorriso
divertito.
Era proprio un pezzo di merda.
«Chiudi
il becco e vattene.»
Simone alzò le mani in segno di resa, senza
lasciare che quel sorriso malizioso abbandonasse la sua faccia pulita.
Fece
l’occhiolino ad Anna poi si voltò di spalle e s’incamminò verso il
tunnel.
Si voltò solo prima di imboccare il
corridoio. «Ci si becca domani, sul campo,»
disse, ma sembrò più una
minaccia che un semplice avvertimento.
«Ci
sarò, contaci.»
Io, Ruben e Annalisa lo guardammo sparire tra
lo
staff che faceva gli ultimi accorgimenti sullo stato degli spogliatoi.
«N-No-Non
lo so-so-s-sopporto!» se ne uscì Ruben, abbassando poi
lo sguardo quando Annalisa lo guardò.
Faceva sempre così con qualsiasi ragazza. Era
una
caratteristica di Ruben e anche se era controproducente, non credo che
sarebbe
mai riuscito ad abbandonarla.
«Ma
siete parenti davvero?» mi domandò Annalisa, fissandomi
sbalordita.
Abbassai le spalle e mi ficcai le mani in
tasca,
calciando via il pallone con un gesto di stizza. «Purtroppo.»
Gli amici te
li scegli, ma i parenti ti toccano.
Non c’era verità più universale di quella.
Finito di testare
il campo per la partita della sera dopo, mi ritrovai a
vagare per le strade di Londra senza una meta apparente, con il mio
fidato
amico Ruben al fianco.
Annalisa era
rimasta in hotel, usando la scusa del jet-lag per non
venire a passeggiare con noi, o meglio, ad ubriacarsi con noi, ma era
una
cazzata bella e buona. Tra Roma e Londra c’era un divario di un’ora più
o meno,
lo sapevo persino io.
Non avevo
insistito, però. D’altronde non erano affaracci miei se voleva
piangersi addosso, io non sarei rimasto un minuto di più a rimuginare.
Daniele e gli
altri mi avevano invitato a bere con loro, ma sinceramente
era da un po’ che sentivo il bisogno di starmene per conto mio.
Già,
chissà perché.
Zittii la parte
razionale del mio Ego e mi strinsi meglio il cappotto
addosso, visto che la temperatura si era abbassata di parecchi gradi
quella
sera. Ruben, al mio fianco, era avvolto il sedici metri di sciarpa di
lana, made
in nonna Annunziata, e dalla fitta coltre spuntavano soltanto dei
ciuffi di
capelli castani totalmente spettinati.
Se non gli avessi
intravisto gli occhiali, avrei giurato di parlare con
un appendiabiti.
«Ehi amico, ma
riesci
a vedere da lì sotto?» gli domandai, sorridendo.
Okay che Ruben era
un tipo freddoloso, questo lo sapevo quando anche a
Maggio mi faceva tenere i riscaldamenti accesi, ma non credevo fino al
punto di
non respirare.
«S-Sì,
c-ce-ce-cece-certo
che c-ci v-ve-vedo!» bofonchiò lui, un po’ per la balbuzie, un po’
perché tremava.
Eravamo finiti di
fronte all’angelo di Piccadilly Circus, ammirando le
luci della città e il chiasso del traffico. Non riuscivo a smettere di
pensare
alla partita dell’indomani. Sentivo una tensione addosso che non mi era
mai
capitato di provare.
Di solito me ne
fregavo, anzi, spesso e volentieri progettavo già cosa
fare dando per scontato la vittoria, ma era da un po’ di tempo che non
ci
riuscivo più. Era inutile negarlo, Celeste era riuscita a cambiarmi,
nonostante
tutto.
Grazie a quei suoi
modi da sapientona e quell’indice pungolatore, mi
aveva reso un rammollito idiota e adesso mi ritrovavo a farmela sotto
per
l’esito di una partita.
Camminammo sino a
raggiungere il quartiere di Soho, ed io affondai
sempre di più il viso nel bavero del montgomery. Ci fermammo ad una
vetrina che
vendeva fiori, nemmeno lo feci di proposito.
I miei piedi si
bloccarono e basta.
«P-Pe-Pensi
a-a-an-ancora a l-le-lei, v-ve-vero?» mi domandò
innocentemente Ruben, posandomi una mano sull’ampia spalla.
Cosa avrei dovuto
dirgli? Che per colpa di quella ragazza rischiavo di
non dare il cento per cento in campo? Che mi ero totalmente
rincitrullito?
Sarebbe stata la
verità e io ormai ero un bugiardo patentato.
«No, che dici,»
mentii
spudoratamente, scrollandomi la sua mano di dosso.
Sapevo che Ruben
non c’entrava nulla in quella storia, che mi era stato
sempre vicino e mi aveva suggerito, nonostante tutto, di dirle la
verità.
Eppure non riuscivo a smettere di essere in collera col mondo intero.
«S-Si-Sicuro?»
chiese
timidamente, fissandomi di sbieco attraverso quella sciarpa di lana che
avrebbe
potuto coprire anche il collo di Hulk.
«Come te lo devo
dire?» sbottai
infastidito. «Sto. Bene.» incalzai. «Non. Me. Ne.
Frega. Un. Accidente. Di. Celeste. E. Di. Quello. Che. Sta. Facendo.»
Ruben sgranò
quegli occhi da cucciolo che si ritrovava, dietro le spesse
lenti degli occhiali ed io sentii una fitta al petto.
Dannazione, perché
riuscivo a farmi leggere così bene dalle persone che
mi stavano attorno?
Odiavo, detestavo,
non sopportavo essere debole.
Gli anni di
Leonardo Sogno, il calciatore più forte al mondo e il più
spavaldo sembravano ormai un lontano ricordo per il nuovo me. Mi stavo
odiando con
tutto me stesso e non riuscivo ad attribuire altra colpa se non a
quella biondina
che aveva invaso la mia vita.
Pensai al nostro
primo incontro, a cosa sarebbe successo e a dove sarei
ora se non l’avessi infradiciata con la mia Ducati. Se non mi fossi
fermato a
soccorrerla, se avessi lasciato che gli eventi si fossero svolti così
come
dovevano andare.
A quest’ora, dove
sarei?
Probabilmente a
crucciarmi di meno su tutta questa storia assurda.
Ruben incurvò la
schiena mortificato, tanto che credetti potesse
spezzarsi per quanto sembrava magro e alto con quel cappotto. Forse ero
stato
troppo brusco con lui, ma, ehi, ero pur sempre Leonardo Sogno e
ormai
non mi rimaneva altro che quello.
«Andiamo, mi sto
gelando,» conclusi, rabbrividendo all’ennesima folata di
vento che soffiava in quel vicolo.
Forse sarebbe
stato meglio rintanarsi in un pub con gli altri compagni
di squadra, almeno avrei potuto fingere di stare bene e annegare
nell’alcool
tutto questo strano e inconsueto dolore. Non era da me, davvero, eppure
non riuscivo
a scacciarlo.
«O-Okay,» balbettò
Ruben, seguendomi a ruota.
Muovemmo i primi
passi, lasciandoci condurre unicamente dal soffio di
vento quando una voce richiamò la nostra attenzione.
«Hey, guys!»
trillò
squillante alle nostre spalle e anche senza vederla, riconobbi la sua
proprietaria.
Magari questa
città non faceva poi così schifo come pensavo.
Non appena mi
voltai, fui travolto da una massa informe di capelli
ricci, biondi e voluminosi, talmente profumati che mi stordirono.
«I’m so happy to
see
you!» disse lei, lasciandomi andare giusto il tempo necessario
di riprendere fiato.
La guardai negli
occhi e ritrovai quell’azzurro intenso e vispo che
ricordavo sin dalla tenera età. Mia cugina Sofia era un ciclone
inarrestabile,
una forza della natura racchiusa in un corpo che pesava a mala pena
cinquantacinque chili.
«Che ci fai qui?»
le chiesi
felice, almeno c’era una nota positiva in quella giornata di merda.
Lei si scostò una
ciocca di ricci ribelle dal viso e mi sorrise. «Sono andata al
supermarket,» sospirò, mostrandomi una busta. «Se fosse per
Simone, mangeremmo la carta da parati dell’appartamento,» ironizzò.
Sofia era la
sorella che non avevo mai avuto e ci trovavamo talmente in
sintonia che avrei desiderato davvero che fosse figlia di mio padre e
non di
mio zio. Purtroppo lei un fratello lo aveva già, anzi, ne aveva due, e
uno di
essi era il mio peggior nemico.
«Non ho alcun
dubbio
che Pisellino si abbuffi di intonaco,
magari anche di vernice,» sghignazzai.
Mia cugina sbuffò
sorridendo, sapendo che fra me e suo fratello non
correva buon sangue. Anzi: diciamo che il sangue scorreva pure,
soprattutto
quando finivamo col metterci le mani addosso, il che succedeva almeno
tre volte
al giorno.
I pranzi di Natale
e le riunioni di famiglia, sia che si facessero a
Roma o a Londra, poco cambiava, si trasformavano sempre e comunque in
mancati incontri
di boxe.
D’altro canto, zio
Marco e mio padre non facevano altro che incitarci,
dicendo che il miglior modo di risolvere le questioni, era venire alle
mani.
Mamma e zia Elizabeth la pensavano diversamente.
Sofia a quel punto
spostò lo sguardo alle mie spalle, cercando la
persona che fino a quel momento era rimasta in un religioso silenzio.
Avvolto
in cinquanta strati di lana, c’era Ruben che faceva di tutto per
rendersi quasi
invisibile dietro di me e io non ne comprendevo il motivo. In fondo,
Ruben era
mio amico da una vita e di conseguenza conosceva mia cugina da
altrettanto
tempo.
«Ma è Ruben quello
dietro di te?» mi domandò lei, con le guance arrossate per il
freddo pungente.
Mi voltai quel
tanto da capire cosa il mio migliore amico stesse
facendo, ma evidentemente non c’era verso di farlo avanzare di qualche
passo.
«Fino a poco fa,
era
lui. Ora sembra un ammasso di vestiti per la Caritas,» le spiegai,
sorpreso.
Sofia mi aggirò
per dirigersi verso Ruben e salutarlo, come avrebbe
fatto una qualsiasi persona normale. Ma di normale,
la mia vita, ormai aveva ben poco.
«Ciao!» gli disse
con
voce squillante, allargando un sorriso genuino che la
contraddistingueva.
Ruben, ormai
scoperto in flagrante, decise di smetterla di
assottigliarsi contro il muro come un geco e abbassare un po’ quella
sciarpa
che rischiava di soffocarlo.
«Ciao, Sofia,»
sussurrò
impacciato, senza nessun balbettio.
Eh, già, perché la
cosa davvero surreale e particolare di Ruben era che
di fronte all’intero universo femminile non riusciva a spiccicare
parola,
mentre con Sofia sembrava quasi un oratore.
Mia cugina
cominciò a torturarsi una ciocca di capelli con le dita, e
giurai davvero di non averla mai vista così in imbarazzo. Per un
secondo, ebbi
un certo sospetto su quei due, ma avevo ben altri problemi cui pensare
e sinceramente
né Sofia né Ruben ne facevano parte.
«How are you?» gli
chiese,
utilizzando la sua lingua madre.
Era vero che i
miei cugini erano nati tutti in Italia, ma avendo una
madre, cioè zia Elizabeth, inglese da almeno una ventina di
generazioni, e
vivendo a Londra dall’età di due anni circa, le capitava spesso e
volentieri di
confondere le sue due lingue.
«Bene, tu?»
Rimasi totalmente
sconcertato di fronte all’assenza di balbettii da
parte del mio migliore amico. Era strano sentirlo parlare normalmente,
soprattutto quando ventiquattr’ore su ventiquattro dovevo cavargli le
parole di
bocca.
Sofia cominciò a
dondolarsi sui talloni, come una bambina di appena
dodici anni, poi, mentre stava per dire qualcosa, fece accidentalmente
scivolare una mela dal sacchetto della spesa, facendola rotolare sul
marciapiede.
Mi chinai a
raccoglierla d’istinto, ma Ruben fu più veloce e agguantò il
frutto con un movimento agile che mi lasciò di stucco. Lui che era il
re della
goffaggine e della timidezza, tutto ad un tratto sembrava più in gamba
di
Roberto Bolle.
«Tieni,» le disse
sorridendo e se non fossi stato accecato dal riverbero delle luci di
Piccadilly
Circus, avrei giurato che quello fosse un sorriso malizioso.
Da flirt.
Non
inorridire, mantieni la
calma.
Era strano, troppo
strano quello che si stava svolgendo davanti ai miei
occhi innocenti. Certo, di innocente io avevo ben poco, ma il
mio
migliore amico e mia cugina…
Perché non mi ero
mai accorto di nulla?
«Thanks,» soffiò
Sofia,
con le gote rosse come la mela che Ruben le aveva porto.
«Ehi, voi due,»
commentai,
lievemente offeso da questa esclusione. Era come se fossi trasparente,
come se
non esistessi.
C’era un universo
segreto nei loro sguardi e sinceramente cominciava a
innervosirmi. Sofia era pur sempre mia cugina, la mia migliore amica,
la mia pulcina. Ruben… beh, Ruben era Ruben.
Non c’erano parole per descriverlo.
Si girarono
entrambi verso il sottoscritto e io incrociai le braccia
aspettando spiegazioni.
«È successo
qualcosa
che mi sono perso?» domandai.
Come se si fossero
messi di comune accordo, sgranarono entrambi gli
occhi e si allarmarono.
«Niente!»
«Nothing!»
Si affrettarono a
rispondermi all’unisono e quello mi fece diventare
ancor più sospettoso. Era da un po’ che Ruben si comportava in maniera
bizzarra.
Davvero?
Ma non è il re della bizzarria?
Okay, in maniera più bizzarra
dei suoi soliti standard.
Uhm,
dici?
Quella
conversazione con il mio Ego stava davvero per mandarmi fuori dai
gangheri. Inoltre, prendendomi del tempo per pensare ed analizzare la
situazione,
agli occhi di Ruben e di mia cugina sembravo un cerebroleso che fissava
di
traverso il cielo notturno.
«Eppure sembra che
mi
nascondiate qualcosa…» conclusi pensieroso.
L’idea che le
persone a me più care condividessero dei segreti di cui
non ero a conoscenza, mi metteva addosso una strana sensazione. Per un
attimo
pensai a Celeste. Davvero, forzai tutto me stesso per riuscire a
resistere a
quel pensiero, ma fu tutto inutile.
Mi immedesimai
inconsciamente in lei e in quello che aveva provato
vedendo che tutti intorno a lei avevano mentito, compreso il suo
migliore amico
Romeo. Mi sentii automaticamente una merda, una Vera. Gigantesca. Merda.
In quel momento
avrei voluto prendere a pugni il mondo, tornare indietro
a quel fatidico momento in cui mi ero inventato tutte quelle cazzate e
dirle la
verità, permetterle di prendermi a parolacce e darmi del rinoceronte
senza
cervello.
Sarebbe stato
meglio non averla mai incontrata.
«N-No, ma-ma
c-co-cosa
dic-dici?» farfugliò Ruben.
Ovviamente,
parlando con il sottoscritto, tornava in modalità
tartagliamento acuto.
«It’s a really
absurd
situation!» si aggiunse Sofia.
Avremmo potuto
continuare all’infinito, quei due mi nascondevano
qualcosa ma ancora non avevano il coraggio di parlarmene. Sbuffai
guardandoli
di sottecchi, poi decisi che era meglio continuare o sarei morto
congelato sul
marciapiede di Soho.
«Vuoi che ti
accompagniamo a casa?» le proposi, vedendo che Ruben non le staccava
gli
occhi di dosso.
Sofia arrossì e si
aggiustò una ciocca ribelle di capelli ricci dietro
l’orecchio. «Grazie.»
«Ti porto queste,»
si offrì
Ruben e le prese le buste senza che lei potesse protestare in qualche
modo.
La famiglia Sogno,
ovviamente la seconda
famiglia Sogno, abitava poco più in là del quartiere di Soho. A
Lexington St.
Simone aveva trovato un appartamento, ovviamente attico e superattico,
in cui
si era ritirato a ‘vita privata’, così la chiamava lui, ma zia Liz
preferiva
spedirgli di tanto in tanto Sofia per vedere come se la passasse.
A giudicare dal
quantitativo delle buste che aveva mano mia cugina, non
faceva la spesa da mesi.
Al numero 128 ci
arrivammo dopo una quindicina di minuti, passati nel
più completo ed imbarazzante silenzio. In testa c’era Sofia che
trotterellava
tranquilla e leggera sul marciapiede ancora umido della pioggia del
giorno
prima, poi venivo io, carico di due buste, e infine Ruben con il
sacchetto di
carta da cui era rotolata fuori la mela.
Tirò fuori le
chiavi proprio quando arrivammo di fronte al portone, in
cima ad una piccola scalinata sorretta da due ampie colonne bianche.
Mia cugina
aprì il cancelletto in ferro battuto, che cigolò quel tanto da
spaventare un
gatto di passaggio, poi entrò dirigendosi verso l’ingresso. Io e Ruben
le fummo
subito dietro come un’ombra, soprattutto il mio migliore amico che me
la
raccontava sempre meno giusta.
«Thanks, guys,»
sorrise lei,
afferrando i sacchetti e attendendo sulla soglia della palazzina. «Ce
la faccio a
salire in ascensore da sola, grazie. C’è anche Rupert nella hall.»
Supposi che tale
Rupert fosse una specie di usciere.
«Okay, noi
torniamo
verso l’hotel. Sono piuttosto stanco,» sbadigliai, stiracchiandomi
le mani indolenzite per aver portato le buste della spesa. Era strano
come mia
cugina, una cantante di fama modesta lì a Londra, se ne andasse in giro
senza
alcun aiuto. Era ovvio che se lo potesse permettere, eppure lei era
sempre
stato un tipo semplice.
Lei era la mia pulcina da
sempre.
«Ciao, Sofi,»
smozzicò
anche Ruben, senza incepparsi nemmeno una volta.
Era una cosa
incredibile, ancora stentavo a credere al potere
illuminante che mia cugina avesse su di lui.
«Ciao,» sospirò
lei,
avvicinandoglisi e sfiorandogli una guancia con una fuggevole carezza.
Ruben divenne
color peperoncino messicano e si fissò i mocassini da
sfigato con insistenza, fin quando non sentì il portone chiudersi alle
spalle
di Sofia.
Gli diedi una
forte pacca sulla spalla, tanto che il poverino traballò
lievemente in avanti, poi gli sorrisi amichevole.
«Insomma mia
cugina…» e lasciai la
frase in sospeso di proposito.
Vedere la faccia
di Ruben dopo quello che avevo intuito fosse successo
tra di loro era impagabile e soprattutto mi stava distraendo dal
problema che
iniziava con la lettera C.
«C-Co-Co-Co-C-Co…»
balbettò in
preda al panico.
«Sì, coccodé,»
sghignazzai,
scendendo i gradini e incamminandomi verso l’hotel.
Ruben deglutì a
fatica, poi sospirò e mi seguì.
«N-Non c’è
n-nie-niente tr-tra me e S-So-Sofi…» continuò a
ripetermi.
«Certo, e io sono
Napoleone.»
«È v-ve-vero!»
insisté, ma
ero fin troppo furbo per recitare ancora la parte delle tre scimmiette:
non
vedo, non sento e non parlo.
«Je suis Napoléon!»
cominciai ad
urlare a squarciagola, annegando un po’ di quel senso di smarrimento.
Mi sentivo ancora
svuotato dopo quello che era successo, dopo che mi ero
giocato tutto per una stupida bugia... ma forse era meglio aver amato e
avere
perso, che non aver amato affatto.
Magra
consolazione.
***
*si prostrano ai piedi delle fanZ
strisciando la faccia sul pavimento sudicio, mangiando caccole di
Robbeo*
Vi chiediamo umilmente perdono per
il mega-ritardo nella pubblicazione
di questo capitolo. Ci sono stati alcuni problemi, tra cui università,
blocco dello scrittore e quant'altro, ma finalmente ci siamo riuscite!!!
YEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE (non ce
ne frega una ceppa!)
Comunque, speriamo che il capitolo
sia stato di vostro gradimento,
nonostante sia arrivato con un ritardo mostruoso. 'NZomma Cel andrà a
Londra e la pace con Robbeo sembra ormai fatta, anche se Ven non ce la
racconta giusta. Chissà cosa hanno organizzato quei due, eh?
Vabbuò, ci prostriamo ai vostri
insulti/giudizi! *baciano per terra*
Ultima domanda: ma quanto è carina
Sofi?? *ww*
Ora un po' di pubblicità:
Ricordate il gruppo Crudelie
si nasce, dove potrete trovare spoiler, foto e tanto altro!
|