#Duty
Freddo.
Il freddo era entrato dentro lei e aveva
cominciato a ghiacciare ogni suo organo, ogni barlume di vita.
Tenebre.
Le tenebre, ombre scure e lampi di luce
spettrale, erano tutto quello che vedeva, mentre la vista si
annebbiava,
scompariva e poi ritornava prepotente.
Acqua.
Aveva sete, una terribile sete. Era l’unica
cosa che la sua mente persa nel dolore riusciva a pensare.
Conosceva fin
troppo bene quei corridoi bianchi e verdi del San Mungo, li aveva
percorsi per
giorni interi dopo la Battaglia di Hogwarts, per stare vicino al corpo
freddo
di suo fratello, per stare vicino al futuro Ministro gravemente ferito,
per
fare qualcosa.
Le luci
tremolavano al suo passaggio mentre superava la porta che divideva
l’ospedale
Magico da quello Babbano, le torce magiche che si confondevano, sempre
più, con
le lampadine al neon.
Quando aprì la
porta, fu colpito dall’odore pesante del disinfettante, dal candore e
dal
silenzio che regnava sovrano in quella parte di ospedale.
SI fermò di
fronte alla terza finestra di vetro e fissò la paziente numero
centoventidue
dormire apparentemente serena.
Audrey Rivers se
ne stava lì, col volto parzialmente coperto da bende bianche, fili di
ogni tipo
e di ogni colore la ricoprivano e la collegavano a macchine Babbane.
Eccola lì, quella
normale ragazza che sapeva trasformarsi in un feroce boia, quella
ragazza che
aveva spalancato le braccia e li aveva protetti fino alla fine.
Che lo aveva protetto fino alla fine.
Quel pensiero,
prima timido e ora feroce, lo tormentava, confondendosi con gli antichi
sensi
di colpa.
Ed erano quei
sentimenti intricati fra loro che lo portavano ogni sera a passeggiare
per quei
tetri corridoi, ad ignorare le mute domande dei suoi familiari che
chiedevano
il perché di tanto silenzio e segretezza, a fissare quel vetro nella
speranza
di vedere un movimento, un occhio aperto, una mano che si muova.
Come al solito,
le sue preghiere silenziose ed intime non erano ascoltate.
Ancora una volta,
Percy Weasley non poteva fare niente per riparare ai suoi errori.
Avrebbe dovuto
ignorare quel ferito.
Avrebbe dovuto
seguirla fin da subito, sbrigarsi e nessuno li avrebbe trovati in
quell’angolo
maledetto.
E la signora Delacour sarebbe ancora viva.
E quell’Auror, quella sua
coetanea, avrebbe continuato la sua normale vita.
E…
Fu la guaritrice
Lucy Derwent a svegliarlo da quel torpore mentale che gli aveva
impedito di
accorgersi della sua silenziosa presenza. Percy la fissò per un lungo
momento,
quasi volesse leggere quella mente, anticipare ogni parola, senza usare
la
bacchetta.
La guaritrice si
sistemò un boccolo castano dietro l’orecchio e gli sorrise appena.
-L’operazione Babbana
è andata bene, hanno estratto tutti i resti del proiettile scheggiato e
per ora
siamo certi che si sveglierà.-
-E quando?-
domandò con urgenza Percy, tormentandosi il lembo finale della sua
cravatta
ormai sfatta.
-E’ quello
l’unico problema, non siamo in grado di dirle se si sveglierà oggi o
fra tre
giorni. I parametri vitali sono buoni e ogni giorno che passa acquista
forza.
Quando il suo corpo sarà pronto a risvegliarsi, sono certa che la
signorina
Rivers riaprirà gli occhi.- disse ottimista la donna.
Entrambi rimasero
a lungo in silenzio, contemplando il scenario deprimenti di quella
stanza
spoglia in cui Audrey riposava.
Nessun fiore,
nessuna famiglia a circondarla e a piangerla un po’, a pregare per il
suo
risveglio.
Nessuno.
Ed era quello che
lo tormentava, l’idea che Audrey, una ragazza normale e sua coetanea
non avesse
nessuno.
-E’ venuto qualcuno
oggi?- si azzardò a domandare Percy.
La guaritrice
scosse la testa lentamente. –No, nessuno è passato. Ho chiesto a mia
sorella al
Ministero se poteva contattare qualcuno dell’ufficio Auror.-
-E che hanno
detto?-
-Nulla che non
avessi capito prima.- sospirò Lucy Derwent prima di parlare nuovamente.
–Pare che
non abbia mai indicato nessun indirizzo di un familiare da avvertire. –
Percy s’infilò le
mani nelle tasche e fissò con ancora più angoscia il vetro.
“Non ha nessuno”.
Quando Audrey
Rivers aprì gli occhi era notte fonda.
Non riuscì subito
a distinguere il mondo intorno a lei, così preferì stare a sentire il
ritmico
suono del suo battito amplificato dalla macchina vicino a lei.
Sapeva dove si
trovava e la cosa la stava già irritando.
Di nuovo in
ospedale, di nuovo ferita.
Ormai era
diventata una regola da rispettare quella di farsi quasi ammazzare a
fine
missione, prima a Dumstrang, in Inghilterra poco prima della vittoria a
Hogwarts e poi in Francia. Per un pelo in Asia non era morta cadendo da
un
palazzo.
Già, per un pelo.
Considerò l’idea
di alzarsi e andare in bagno, rimediare qualche abito in giro e magari
fuggire
velocemente da quel posto, ma il dolore che sentiva, sordo e lontano,
alla
schiena era come un avviso di garanzia che le impediva di andarsene sul
serio.
Così si
addormentò lentamente, scivolando verso sogni pallidi e incubi feroci.
Molly Weasley era
una donna che tendeva ad impicciarsi e a curiosare nella vita personale
dei
suoi adorati figli.
Lo aveva fatto
con Bill e Fleur, tormentava da anni Charlie, fissava Ron e Ginny con
sospetto
ogni volta che uscivano fuori, ma solo due figli non si azzardava più a
farlo:
George e Percy.
Quasi due anni
erano passati da quel giorno, eppure ogni volta che li vedeva il dolore
ritornava
forte e deciso a colpirla come quel maledetto giorno.
George non
sorrideva più come prima, non infastidiva più nessuno, non si lanciava
più in
lunghe discussioni sulle sue geniali opere. Preferiva il silenzio,
preferiva passeggiare
con le mani in tasca per il giardino, preferiva volare con la sua scopa
per la
città, percorrendo miglia e miglia.
Invece, Percy,
rimaneva granitico come sempre.
Silenzioso e poco disponibile a fare cose che
non riguardassero dormire, mangiare appena e lavorare.
Spesso vedeva che si
lasciava prendere dalla malinconia, dalla rabbia e da molti altri
sentimenti,
ma se gli rivolgevi una sola parole, lui negava tutto, fuggiva
inventandosi
impegni e doveri.
Adesso doveva
affrontare la tristezza del signor Delacour, del vento di morte che
soffiava
dalla Francia, della spaventata Fleur e dell’impotenza di suo figlio
Bill. E lo
avrebbe affrontato con la solita forza che aveva, quella di sorella che
ha seppellito
i suoi fratelli maggiori, quella di madre che ha salutato per l’ultima
volta un
figlio.
Quel mattino era
cominciato come tutti gli altri giorni della settimana, con una
abbondante
colazione, con le lettere che mandava regolarmente a Charlie e la lista
della
spesa.
Quando portò il
cibo in tavola, aiutata da un Arthur ancora assonnato ma sempre
disponibile,
non si accorse del leggero sorriso che increspava le labbra di Percy.
Aveva posato il
giornale che aveva appena letto, lasciandolo sulla sedia del padre e
leggeva
con grande attenzione una breve lettera giunta attraverso un gufo
marroncino,
tranquillamente appollaiato sullo schienale di una sedia.
Molly si accorse
di quello sguardo solo quando si avvicinò e gli diede la solita tazza
di caffè
bollente.
-Tesoro, cosa è
successo?- domandò incerta.
-Niente di che,
mamma.- disse lui prima di alzarsi, bere velocemente la tazza e
scomparire
dalla sua vista.
-Tu credi che sia
successo qualcosa di positivo?- chiese ad Arthur, l’altro silenzioso
spettatore
di quella strana scena.
-Credo di sì,
cara.- disse lui sedendosi e aprendo il giornale. –Di solito non sorride.-
Lucy Derwent
aveva almeno trent’anni di esperienza nel campo medico, aveva affinato
sempre
di più le sue tecniche magiche, integrandole con le piccole rivoluzioni
della
medicina Babbana, compiendo scelte alcune volte discutibili.
Ma quel giorno
era irremovibile, la signorina Rivers non si sarebbe alzata da quel
letto per
almeno altri cinque giorni.
-Ma io sto bene!-
gridava Audrey contro la guaritrice.
-Non mi pare che
le analisi dicano questo, signorina.- rispose piccata la signora
Derwent. –Quindi
finiamo qua, questa sterile conversazione.-
C’erano diversi
tipi di pazienti.
Quelli che la
ringraziavano commossi ogni volta, quelli che invece sembravano
indifferenti
alle sue parole, quelli che gridavano ordini e chiedevano di essere
lasciati
andare.
E quella ragazza
bionda faceva parte del terzo gruppo, il più difficile da tenera a bada
e da
curare.
Quando uscì dalla
stanza, molto più stanca di quando era entrata, ritrovò fuori il signor
Weasley.
-Oh, è arrivato
subito, io l’aspettavo per sera.- disse sorpresa.
-Ho appena dieci
minuti, volevo solo salutarla e ringraziarla per … Per quello che ha
fatto.-
balbettò Percy confuso. Era veramente quello il motivo per cui era
venuto?
A quella domanda
non sapeva nemmeno lui rispondere.
-Tecnicamente l’orario
visite è fra due ore, ma se è solo per dieci minuti … Può entrare.-
terminò
infine, lasciandolo passare.
Percy camminò con
sempre meno sicurezza finché non incontrò lo sguardo irritato di Audrey
mentre
tentava di sedersi ma qualcosa glielo impediva.
Nessuno dei due
parlò a lungo.
Una sorpresa.
L’altro perplesso.
-Weasley, che ci
fai qui?- disse infine Audrey distogliendo gli occhi dai suoi e
fissando le
coperte linde.
-Io …Io volevo
solo ringraziarti.- disse incerto. –Anche a nome del signor Delacour,
ovviamente.- aggiunse precipitosamente Percy.
–Naturalmente il Ministero è felice di sapere che presto
ritornerai a …-
-Risparmiami cosa
dice o vuole il Ministero.- esordì Audrey interrompendolo.
–E’ per il Ministero che ora non posso
nemmeno andare al bagno da sola.- disse seccata, mentre perdeva la
battaglia
che aveva ingaggiato con le sue gambe che non si muovevano come lei
voleva.
-Comunque, ero
venuto anche per sapere come stavi.- disse Percy. –Due operazioni
chirurgiche
difficili da sopportare, immagino.-
Audrey ripuntò
gli occhi su di lui. –Sto bene. So che deve essere stato uno spettacolo
orrendo, ma ci sono abituata ormai. E’ il mio lavoro. E’ il mio
dovere.-
Percy aggrottò la
fronte.
Non aveva mai pensato in quei termini.
Lui non voleva che altri si
sacrificassero per lui, che altri spendessero buoni pensieri e parole
sul suo conto.
Non dopo quello
che aveva fatto.
-Direi che sei
stato fin troppo gentile a trascinarti fino a qui, puoi andare, avrai
sicuramente
un mucchio di scartoffie da leggere.- ridacchiò Audrey allungando una
mano per
stringere la sua mano.
-Oh, certo, hai
ragione devo andare.- strinse la sua mano, notando il leggero sudore e
l’accenno
di forza nella stretta. –Io sono sicuro che ci rivedremo in
dipartimento,
qualche volta.-
Si congedarono rivolgendosi
appena un sorriso ma Percy non riuscì, una volta aperta la porta, a
trattenersi.
Lui che si
tratteneva sempre, lui che circoscriveva persino le emozioni, ora stava
esplodendo, come era esploso due anni fa.
-Non lo hai fatto
per dovere vero? Non ti sei presa quelle cose Babbane solo per dovere.-
Audrey rimase a
lungo in silenzio, sperando che quel giovane funzionario se ne andasse,
tuttavia lui se ne stava lì, in piedi e pronto a starsene lì altro
cento anni.
-Quando fai
questo tipo di lavoro, la tua vita non conta più nulla. Vivere o morire
sono
solo dettagli, l’importante è completare le missioni o almeno provarci.
Non sarò
la prima né l’ultima a morire per dovere.- parlò piano la ragazza,
quasi come
sussurrasse quelle parole più a sé stessa che a Percy.
E quando sentì la
porta chiudersi, perse del tutto la battaglia con le sue gambe e si
distese
bruscamente.
Chiuse gli occhi
e regolarizzò il suo respiro agitato e ripeté più volte il suo mantra.
Dovere.
Il dovere prima
di ogni altra cosa.
*
* * * *
[Ringrazio tutte le adorabili persone che
leggo, recensiscono, passano, mettono fra le
seguite/ricordate/preferite questa
storia. Senza la vostra partecipazione non continuerei a scrivere con
rinnovato
entusiasmo ogni volta.
Spero
che vi sia piaciuto il capitolo.
Un
bacio, Midori_]
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