Epilogo RC
EPILOGO
Quando
rientrò
dall’ufficio per pranzo, la casa era immersa in un silenzio
irreale, sebbene si aspettasse di trovarvi Kate, visto che il suo turno
iniziava solo alle 5.
Lasciò giacca, scarpe e tracolla all’ingresso e
s'infilò in cucina per controllare se gli avesse lasciato
qualcosa di pronto. Aveva una fame indescrivibile. Accanto ai fornelli
trovò quattro confezioni ancora sigillate del take away
vegetariano, nessun biglietto, né la tavola apparecchiata.
Doveva essere uscita di fretta per qualche commissione.
Stava lasciando la cucina diretto in bagno, quando un rumore alla fine
del corridoio lo bloccò sulla porta. Forse non
l’aveva
sentito entrare, ma che ci faceva in camera sua? Sperò con
tutto
il cuore che non fosse entrata di nuovo in psicosi da pulizia,
l’ultima volta l’aveva costretto a imbiancare tutta
la casa.
- Katie? -
Al suono della sua voce seguì un piccolo trambusto, doveva
averla spaventata.
In due passi raggiunse la porta e si affacciò nella stanza.
Kate
era seduta a terra davanti all’armadio, attorniata da pile di
vestiti e lo guardava con un'espressione ambigua. Sembrava imbarazzata
e terrorizzata, come se avesse fatto qualcosa di particolarmente
disdicevole.
- Welcome back clean-psyco! -
- Oh I’m not... I won't mess anything up. I was
looking for your jerkin... the black leather one, for the 80s party... -
Di nuovo sembrava fin troppo colpevole: non era certo una
novità che frugasse tra i suoi vestiti.
- That box fell down, I didn’t know it was here! -
Finalmente l’attenzione di Manuel cadde
sull’oggetto incriminato, gelandogli il sangue nelle vene.
Era da tempo che non vedeva quella scatola, l’aveva nascosta
bene
sotto strati di roba vecchia, ma Kate riusciva sempre a trovarla, e
ogni tanto la tirava fuori per esplorarne il contenuto con perizia. Era
sempre stata troppo sentimentale Kate, non capiva però che
quello non era un romanzo d’amore da rileggere per
commuoversi,
quella era vita reale, e faceva male ogni volta di più.
- You need to stop this, torturing me like that - si
lasciò
cadere sul letto subito dietro le spalle di lei, cercando di ignorare
gli oggetti sparsi attorno a loro.
Ogni volta che vedeva quella scatola era un supplizio, una ferita
infetta riaperta, che brucia e pulsa e sanguina. Ogni volta Kate
guardava quella roba con devozione, neanche fossero state le reliquie
di un santo. C’erano pacchetti di sigarette bianche e
sottili,
una tazza blu con il manico, uno slip di pizzo rosa, delle forcine per
capelli, una spazzola, un paio di collant di lycra nera, dei libri,
degli occhiali da sole e un vasetto di crema della Collistar. Tutti
oggetti banali, d’uso comune, senza nessun nome, nessun
valore.
Manuel si era sdraiato dietro di lei, un braccio sugli occhi e
l’espressione afflitta.
- Do you like to rack my brain? Put it back please -
Kate sapeva tutto, aveva sempre saputo tutto. Era stata
l’unica
persona della sua vita con cui era stato sempre sincero
dall’inizio alla fine. Forse perché
l’aveva raccolto
quand’era disperato e solo in un angolo oscuro del suo cuore.
Non gli rispose, non ce n'era bisogno. Tra loro da anni si era
instaurata una sorta di comunicazione fatti di silenzi invece che di
parole. In realtà la gran parte delle parole appartenevano a
lei. Non era mai stato bravo a parlare, ma lei pareva l'unica persona
che avesse mai incontrato capace di leggere i suoi silenzi.
No.
Non
l'unica.
La parte preferita di Kate era la busta gialla con le foto, invece
Manuel non era proprio in vena di rimpianti. Era stanco morto, aveva
due transizioni con dei clienti importanti da concludere e sperava di
riuscire a ritagliarsi un'oretta per andare a correre. Gli era pure
passata la fame.
Quella scatola avrebbe mai smesso di tormentarlo?
Pranzarono in silenzio e, sempre in silenzio, tornò al
lavoro.
Non aveva più la Honda, ora aveva una Kawasaki. Costosa,
rossa e
cromata e per cambiare il carburatore non doveva più
elemosinare
da suo padre, non aveva nemmeno più due caschi: era il suo
giocattolo privato. Quella stessa sera andò a correre, ma
rimase
fuori ben più della sua oretta canonica. Corse fino a
perdere il
fiato, senza trattenersi, finchè non sentì il
cuore
esplodere nel petto. A casa trovò un vaso di gerbere rosse
sul
tavolo, un biglietto pieno di scuse e cuoricini e la cena coperta da un
piatto. Cotoletta e zucchine fritte. Fece un doccia eterna,
caricò la lavatrice e cenò in camera davanti al
pc, aveva
almeno una decina di mail a cui rispondere e nient’altro
d’interessante da fare.
Finì per non dormire affatto, Kate non aveva nascosto
abbastanza
bene la scatola, quindi non fu difficile ritrovarla sulla mensola
più alta dell’armadio.
La svuotò sul letto con poca premura e si sedette tra tutta
quella roba. Era quasi un rito, ogni volta che ne apriva il coperchio
doveva toccarne ogni oggetto, rigirarselo tra le mani, e ricordarlo tra
le mani di lei.
I suoi gesti, le sue mani.
Si passò i palmi sulla faccia, frustrato da tutta quella
roba
che avrebbe voluto aver il coraggio di distruggere, e invece continuava
a venerare.
Dio.
Non se n’era mai andata. Mai.
L’ultimo ricordo di lei che aveva era legato ad un vestito
blu di
cotone. Una mattina di maggio, faceva caldo, erano seduti a far
colazione in un bar. Il vento, l’odore del sole sulla pelle,
lei
che sfogliava quell’agenda che ora lui teneva stretta tra le
mani, parlava di un regalo che avrebbero dovuto comprare non ricordava
per chi. Ricordava chiaramente soprattutto quel vestito che si gonfiava
ad ogni folata di vento, mostrava a tratti i bordi della sua biancheria
e si divertiva a farla arrabbiare.
A volte quel vestito lo tormentava ancora la notte.
Era consapevole di essere colpevole, colpevole con
l’aggravante della premeditazione.
Non per questo, però, aveva perso il diritto di crogiolarsi
nel ricordo.
Era stato lui a lasciarla, ad abbandonarla da un momento
all’altro senza darle il tempo di replicare. Aveva deciso per
tutti e due, perché sapeva di dover essere lui a prendere il
coraggio a due mani e scappare da una situazione che li avrebbe
incastrati tutti e due in un rapporto senza futuro. Si amavano, ma
l’amore non bastava più. La gelosia era un virus che
lavorava nell'ombra e li divorava dall'interno. C'era sempre un velo di
vigliaccheria che impediva ad entrambi di dar voce ai loro dubbi.
Manuel non aveva mai neanche pensato di tradirla, eppure lei pareva
certa che prima o poi sarebbe accaduto, sebbene non ne avesse mai avuto
alcun sentore. Era la lontananza che li stava logorando. Col passare
del tempo stavano annegando nei loro stessi silenzi. Ci fu una pazzesca
litigata poco prima di Capodanno: lo accusò di non amarla
abbastanza, di non saper comunicare, che non sarebbe mai stato pronto
per costruire una vita insieme. Come ogni volta risolsero tutto sotto
le coperte. Eppure l'aveva capito proprio lì che qualcosa si
era
incrinato, fare l’amore era diventato lo specchio del modo in
cui
comunicavano. Era una sorta di scontro violento tra due sconosciuti,
più di una volta aveva sperato e temuto di farle del male.
Passarono i mesi e nulla sembrava più lo stesso: il sospetto
di
lei aveva insinuato il tarlo della
gelosia in lui, e ne fu divorato. Viveva di fantasie e supposizioni
tutte sue, non riusciva più a guardarla nello stesso modo.
Anche
se continuava ad amarla con tutto se stesso, sentiva il loro rapporto
naufragare in un bicchier d’acqua. Non parlavano
più, se
non per rinfacciarsi qualcosa. Sapeva che in quel modo non sarebbero
andati da nessuna parte, aveva provato dei palliativi ma non riusciva
mai ad arrivare alla radice del problema. Ci aveva messo mesi prima di
trovare la forza per reagire, perché la sola idea
dell’abbandono gli era inconcepibile. Così,
all’inizio dell’estate, Manuel decise di scomparire
senza
dirle nulla. Senza dir nulla a nessuno che non fosse Sonia. Fece di
tutto per eclissarsi. Nuova scheda nel cellulare, nuovo indirizzo
e-mail, cancellò tutti gli account dai social network. Non
tornò più a Verona, se non per prendere le ultime
cose,
ma sempre senza farsi vedere da altri che non fossero la sua famiglia.
Si chiuse nella sua stanza a studiare e scrivere la tesi, tanto che
persino Kurtis usciva più di lui. Gli unici con cui mantenne
qualche rapporto furono i fratelli Zonin. Ovviamente per loro stessa
imposizione. Si presentarono a Milano un mese dopo la sua fuga. Subito
pensò che li avesse mandati lei, invece scoprì
che era
stata tutta una loro iniziativa. Lei non ne sapeva nulla, non voleva
più sentir nessuno parlare di lui. Nemmeno lui voleva
più
sentir parlare di lei.
Filo andò a trovarlo parecchie volte, mentre Jack lo sentiva
quasi solo via mail. A settembre arrivò la laurea, qualche
mese
prima di quella di lei. Gli unici a presenziare furono suo padre, Sonia
(che pianse dall'inizio alla fine) accompagnata da suo marito, infine
Jack e Filo che gli portarono un nuovo portatile, regalo di tutti, e un
biglietto di due righe chiuso in una piccola busta color crema
accuratamente sigillata.
Diceva solo: "Congratulazioni, ho sempre saputo che ce
l’avresti
fatta."
Nessuna firma, ma il mittente era chiaro come un'insegna
luminosa rossa e intermittente. Quella notte fece una doccia lunga
più di un'ora per non far vedere a suo padre le lacrime e il
dolore. Non ebbe il coraggio di buttarlo, come tutto il resto delle
cose che lei aveva lasciato nella sua casa milanese finì
tutto
in uno dei quindici scatoloni che spedì a Londra prima di
Natale.
Inizialmente quella di suo padre gli era parsa un'idea assurda;
da quando anche lui aveva abbandonato Verona, suo padre aveva scelto un
incarico permanente a Manchester, ma lasciare la sua casa natale
definitivamente non fu una scelta facile. A quella casa erano legati i
soli ricordi che ancora possedeva di sua madre, e allo stesso tempo
ogni volta che vi tornava due occhi azzurri e una massa di capelli
rossi gli toglievano il sonno per giorni. Alla fine si convinse che un
cambiamento radicale l'avrebbe aiutato, oltremanica c'era molto
più lavoro per lui, sopratutto a Londra, in fondo il suo
inglese
era molto buono e la sua laurea valida in tutta Europa. Non ebbe il
coraggio di dirlo personalmente agli Zonin, non dopo la scenata che
aveva fatto Sonia quando le aveva detto della sua partenza.
Così
mandò loro una lunga mail in cui spiegava le ragioni di quel
trasferimento. Era stato talmente sincero che si rifiutò
persino
di rileggerla prima d'inviarla perchè si sarebbe vergognato.
Dal
suo primo Capodanno a Londra non mise più piede a Verona per
molto tempo. Là trovò nuovi stimoli e intraprese
strade
di cui non si sarebbe mai creduto capace. All’inizio era
stato
davvero difficile, non passava giorno che non rimpiangesse
ciò
che si era lasciato alle spalle, che non rimpiangesse lei. Spronato da
suo padre, si iscrisse all’Università di
Manchester per
prendere la specializzazione e riuscì ad accedere ad un
master
del Sotheby’s Institute of Art. Aveva lavorato un
po’ in
giro, da commesso in un libreria a barista in un pub dove lo chiamavano
the Italian toy e
infine in un
galleria del centro; per puro caso era pure finito ad insegnare storia
dell’arte nelle middle-school e non gli era nemmeno
dispiaciuto.
Poi era arrivata la chiamata di Sotheby’s e il sogno aveva
preso
corpo dietro una porta con su scritto il suo nome.
Infine, dopo cinque
anni a Londra, aveva una casa, aveva quell’incarico per cui
aveva
sputato il sangue, e aveva Kate.
Sua confidente, coinquilina, personal shopper, produttrice di cibo
spazzatura, e soprattutto amica; Katie l’aveva ripescato
mentre
stava annegando nel suo dolore qualche mese dopo l’arrivo a
Londra, l’aveva rimesso in piedi a suon di vodka e schiaffi e
riportato alla vita con i suoi modi da scaricatrice di porto.
E finalmente ora era appagato.
Non aveva motivi per avere rimpianti, stava bene; per quanto in certi
momenti ancora cercasse gli occhi di lei in altre donne, dopo anni di
ripensamenti stava bene. Era certo che lei fosse felice, che fosse
riuscita a realizzarsi e a diventare uno splendido e geniale ingegnere.
Non aveva mai davvero voluto sapere nulla, anche se volte gli era
salita l’idea di indagare, l’aveva abbandonata
prima che
prendesse corpo. Altre volte aveva provato a fantasticare su come
avrebbe potuto essere la loro vita se fosse rimasto in Italia con lei:
al tempo progettavano di andare a vivere insieme dopo la specialistica,
lui voleva dei figli e forse a quel punto ne avrebbero già
avuti, o magari quel labrador che sognava. Non aveva nessuna voglia di
rivederla, per confermare ciò che già sapeva, che
era
ancora in grado di fargli ribollire il sangue con i ricordi. Aveva
provato ad immaginare come potesse essere diventata, di sicuro era
rimasta meravigliosa; sperava che con la maturità avesse
messo
su anche qualche chilo su quei fianchi tutti pelle e ossa, o che avesse
perso l’abitudine di mangiarsi o grattarsi il gomito quando
era
nervosa. E in cuor suo era certo che avesse trovato qualcun altro da
amare, qualcuno che sapesse darle tutto ciò di cui aveva
bisogno, che sapesse darle certezze e stabilità, che sapesse
prendersi cura di lei, e sapesse farla ridere e renderla serena. Tutto
ciò che non aveva saputo darle lui. Ci sperava davvero,
perchè lei meritava davvero di essere amata.
FINE
Traduzione
del dialogo in inglese:
M: Ti è tornata la
psicosi della pulizia?
K: No io.. cioè non
volevo far casino. Cercavo il tuo giubbotto..
quello di pelle nero, per la festa anni ’80..
Mi è caduta questa
scatola addosso. Non credevo l’avessi ancora.
M: Devi smetterla
di torturarmi così.
Ci godi a fracassarmi il cervello? Metti via tutto per favore.
Spazio Autrice:
Siamo
giunti alla
fine e so che questa fine non vi soddisferà.
Purtroppo
non posso
fare altrimenti, il finale è sempre stato questo.
Io sono fatta così, mi piace
scrivere storie vere, non ficcine che siano solo piacevoli: la vita
è anche
questo e a volte l’amore non basta davvero.
Sapevo
che sarebbe
stato difficile separarmi da questa storia e da questi personaggi che
mi hanno
accompagnata per un sacco di anni, non sto piangendo.. ma quasi.
Ed
è anche per questo
che vi prometto un seguito.
Quando
ho iniziato
questa storia ero appena uscita dal liceo quindi potevo immedesimarmi
in questo
mondo molto facilmente. Ora invece mi riesce davvero difficile scrivere
qualcosa che riguardi un diciottenne, non che io sia molto
più vecchia, però la
mia vita è cambiata talmente tanto che scrivere questi
ultimi importanti
capitoli è stato molto ostico.
Con i
miei soliti
tempi, perchè oltre che perfida sono anche conscia dei miei
limiti, ma voglio
davvero scrivere il seguito. Non posso lasciare Manuel naufragare nella
nostalgia, ne posso lasciarvi senza farvi sapere cosa è
successo alla nostra
cara Alicetta. Quindi ufficializzo le mie intenzioni di scrivere
qualcos'altro che li riguardi.
Non aspettatevi però altri 20 capitoli perchè non
posso
farcela, avevo pensato più ad una cosa da una decina di
capitoli.
Se avete domande sull'epilogo
scrivetemi una mail o in una recensione e vedrò se posso
accontentarvi!
Passiamo a ringraziamenti:
Innanzitutto devo ringraziare Sandra che mi ha dato le conferme di cui
avevo bisogno riguardo all'epilogo.
Devo ringraziare anche Ale che mi ha accompagnato per buona parte di
questo viaggio.
Anche se non leggeranno mai, ringrazio C. e S. che con le loro
sconclusionate e melodrammatiche vicende amorose hanno ispirato questa
storia.
Ringrazio i Muse, i Metallica, i Linkin Park, i Blur, un po' anche
Ligabue, Mina e Battisti sopratutto, Lenny Kraviz, Adele (<3) e
de
Andrè.
Ringrazio il mio 'Fida' che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo,
perchè c'è lui dietro a quel pizzico di
stronzaggine di
Manuel (e lui lo sa).
Ma sopratutto ringrazio voi lettrici, che mi avete sempre seguita e tormentata...
ehm spronata ad aggiornare, senza di voi tutto questo non esisterebbe,
non avrei concluso la storia forse,
ne avrei mai ricevuto oltre 100 recensioni
(cosa che non mi sarei mai aspettata..). Ci tengo molto a voi e spero
di non avervi mai deluse.
Con tutto l'affetto del mondo vi saluto.
A presto.
1bacio. Vale.
PS:
nel caso la vostra ira necessiti di sfogo verbale, su FB mi trovate
come FuoriTarget Efp.
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