I re del mondo cap. 16 Fine dei giochi
Cap.
16, epilogo:
“Fine dei giochi”
Versailles,
pomeriggio del 10 settembre 1784 nell’appartamento
dei Girodelle
Beatrice non
aveva smesso
di piangere un istante da quando il fratello era stato ferito tre
giorni prima, ma poi, vinta, era crollata tra le braccia di Natalie che
sommessamente recitava incessantemente il rosario.
Victoire
uscì mesta
dalla stanza della madre, per la quale il dolore era stato troppo
forte: alla notizia del ferimento del figlio aveva avuto un grave
malore e solo ora, diversi giorni dopo, poteva dirsi fuori pericolo.
Sfatta e
pallida,
guardò i familiari raccolti nel salotto inondato dal sole
del
pomeriggio di tarda estate; le sorelle ed il padre e per ultima lei,
Camelia, l’intrusa.
Mentre tutti si erano disperati in quei
giorni nei quali Victor era stato come morto, lei era sempre stata
silenziosamente presente, nonostante nessuno le rivolgesse la parola
oltre il dovuto od il necessario.
Camelia,
l’amante tollerata, forse un poco temuta.
Se ne era
rimasta in
disparte, lei: discreta, ma vigile, attenta
all’andirivieni
dei medici di corte, attenta alle parole più o meno
sussurrate,
alle espressioni preoccupate.
Non aveva mai
oltrepassato
la soglia della stanza dove Victor lottava con la morte, vigilato dalle
sorelle che si davano il cambio senza mai lasciarlo solo. Si era
limitata a guardarlo da lontano, tradendo l’angoscia solo
tramite
le dita intrecciate e nervose.
Avvolta nel
suo abito a
lutto, atto dovuto ma non certo sentito, si era assentata soltanto per
presenziare formalmente alle esequie di Fréville. Per tutto
il
resto del tempo, non si era allontanata da quegli appartamenti.
Attendeva
come tutti, un cambiamento.
Il fatto che
si trovasse
lì, era già quello uno scandalo, ma a Guillome de
Girodelle questo non interessava. Era bastato uno sguardo scambiato con
quella donna per intendersi: qualunque chiarimento poteva attendere. Si
era limitato ad inclinare il capo di lato e a cederle il passo. Non
accettata, tollerata, significava, ma tutti si sarebbero adeguati alla
decisione del capofamiglia e nessuno l’avrebbe cacciata.
Anche Camelia
si era adattata alla loro freddezza. Li comprendeva, ma non aveva
intenzione di vergognarsi di esser lì.
L’ultimo
suo
interesse erano i pettegolezzi recitati a mezza voce alle sue spalle,
lì come in tutta Versailles, riguardo la vedova
non
affranta. Lei sopportava tutto stoicamente, forte di conoscersi, forte
di sapersi nel giusto, forte di avere a cuore soltanto lui.
Non un capello
fuori posto, non una lacrima, non un qualunque segno di cedimento in
pubblico.
Una donna di
ghiaccio, la
giudicava Victoire squadrandola da lontano. Evidentemente il suo povero
fratello aveva un debole per donne di quel genere, ragionò;
ma
non aveva la forza di criticare, nemmeno ci voleva pensare. Importava
solo che lui ce la facesse. E questo accumunava tutti loro.
Di
André, dopo tutte
le falsità circolate senza averlo potuto difendere, dopo le
verità venute a galla, nessuno voleva parlare, ma la
sensazione
era di aver perso due fratelli grazie a quella Jarjayes.
Victoire si
avvicinò
alla stanza del fratello, dove il padre assisteva il figlio durante
l’ennesima visita di un medico.
Nella notte
appena
trascorsa, la febbre aveva toccato il culmine per poi ridiscendere
improvvisamente e stabilizzarsi a valori accettabili, riaccendendo le
loro speranze.
Verso
l’alba Victor
aveva aperto gli occhi, chiedendo acqua; solo pochi istanti di
lucidità prima di crollare di nuovo
nell’incoscienza. Ma
il medico lo aveva visitato ancora: la ferita non aveva leso organi e
ciò era già un miracolo; i battiti erano normali,
così pure
il respiro. Stava migliorando.
Nel pomeriggio
aveva riaperto gli occhi ed era rimasto cosciente, vigile sebbene
ancora confuso.
Il dottore
uscì
dalla stanza, richiudendo la porta dietro a sé, e si rivolse
al
padre che gli si era fatto più vicino insieme a Victoire.
-
La
ferita è in buone condizioni. La cicatrizzazione
è
iniziata, non ci sono segni di infezione. E’ ancora molto
debole,
ma il fisico è resistente. Ha perduto molto sangue, ma il
suo
organismo sta recuperando. Potete fargli preparare qualcosa di leggero,
un brodo, tanto per cominciare. La convalescenza sarà lunga,
ma
possiamo ben sperare. Ha detto di non avere appetito, ma credo che il
motivo di questa inappetenza non sia da cercare nella sua salute fisica
quanto in quella spirituale. Ha chiesto di voi e … del suo
amico. – aggiunse mestamente guardando il conte direttamente
negli occhi.
Guillome de
Girodelle si
fece forza: doveva raccontare la verità a suo figlio.
Temporeggiare
poteva solo peggiorare la situazione; inoltre, Guillome non era mai
stato abile con le menzogne, neppure quelle dette a fin di bene: si
sarebbe tradito.
Strinse fra le
sue la mano che la figlia gli aveva posato sul braccio, preoccupata.
- Meglio che
lo sappia da me e che lo sappia subito – le disse.
Entrò
nella stanza
in penombra perché persiane e tende erano state riaccostate
per
tener fuori il caldo umido ed opprimente di un qualsiasi pomeriggio a
Versailles, in quel periodo che non era più estate, ma che
non
pareva ancora intenzionato a farsi riconoscere come autunno.
Si
avvicinò a Victor, cinereo, esausto, in un bagno di sudore.
-
Come
stai, figliolo? – chiese posandogli il palmo sulla fronte.
Gelato
era il suo ragazzo a quel tocco, come se la morte gelida e crudele lo
stesse cingendo ancora a sé e Guillome rabbrividì.
-
Sono
stato peggio quella volta a Marsiglia, signore …
–
ironizzò Victor parlando con un fil di voce di quando da
piccolo
era stato male per aver mangiato del pesce poco fresco.
Il tocco del
padre scese sulla guancia, scostandogli affettuosamente una ciocca
appiccicosa di capelli umidi.
Sorrise al
ricordo dello
scampato pericolo di allora, il primo viaggio fatto col suo
primogenito, una “cosa da uomini”, gli aveva detto.
-
Niente più zuppa di pesce … - promise.
-
Padre,
dov’è André? … Ho ricordi
confusi, padre, ma
… Non è colpa di André: sono stato io
a sfidarlo,
lui si è solo difeso. E per Oscar …
Fréville se
l’è cercata. Vi prego padre, devo parlare con Sua
Maestà, devo spiegare, devo aiutarlo … devo
aiutarla
… Padre …
Guillome de
Girodelle lo
aveva lasciato parlare quel tanto perché si sfogasse, ma
dopo
poche frasi non ce l’aveva più fatta ed aveva
distolto lo
sguardo.
-
Figlio mio, la verità è che …
-
La … verità? –
balbettò Victor intimorito dal tono.
Anche lui,
nelle ultime
parole che gli aveva rivolto, aveva chiesto la verità ad
André, ma in quel momento non era certo di volerla udire da
suo
padre.
-
Eri
stato dato per spacciato, ti era anche stata data l’estrema
unzione, figlio mio e Sua Maestà ha voluto impartire una
punizione esemplare, per coloro che tramano contro la corona e per i
nobili che si macchiano del sangue di altri nobili. Mi spiace, ragazzo:
sono stati condannati entrambi e giustiziati all’alba di due
giorni fa.
Victor si
lasciò
affondare nei cuscini, portando una mano al centro del petto, dove un
dolore acuto gli fece scordare per una attimo il pulsare della carne
lacerata.
Guillome lo
prese per il
viso e con decisione lo richiamò al dovere, quel dovere che
vieta ad un soldato, ad un uomo, ad un nobile, di mostrare dolore e
debolezza. Una delle tante
maschere degli esseri umani.
-
Victor
… Più ci si avvicina al sole di Versailles,
più
è facile restar bruciati. Ci sono i vantaggi, la gloria, ma
il
rischio è alto. E questo è accaduto a te,
figliolo. Sei
salito, sei caduto. Puoi solo prendere le distanze da tutto e sperare
che Versailles dimentichi le tue debolezze: amore ed amicizia.
Lo
abbracciò con
affetto, piangendo con lui. Quindi lo lasciò solo con tutte
le
sue ferite per le quali come padre non poteva far nulla.
Nell’anticamera
Camelia parlava con un uomo alto, dai capelli rossi, chiari, quasi
biondi, dagli occhi di un azzurro pallido, fresco, ma con una luce di
determinazione sul fondo; egli si zittì quando il vecchio
conte
Girodelle gli passò accanto. Un affrettato ma composto e
cortese
saluto, scambiato tra loro, ed il riservato e silenzioso gentiluomo
sparì.
-
E’ andato tutto nel migliore dei modi. –
riprese
l’uomo parlando inglese - Il mio aiutante è
già
arrivato al punto di incontro ed io lo raggiungerò sulla via
per
Le Havre, quindi prenderemo il mare. La staffetta incaricata di
consegnare i documenti sottratti a Fréville insieme ai
disegni
esecutivi della mongolfiera, ha riportato questi per voi.
Le
consegnò una
busta ed un piccolo astuccio. Ella guardò i sigilli apposti
su
entrambi e spalancò gli occhi.
-
Direttamente dal suo ufficio! – esclamò
incredula.
L’uomo
annuì.
Camelia
spezzò la ceralacca della busta e lesse.
Una lacrima le
scese sul volto.
-
Voi conoscevate il contenuto di questo dispaccio, Scott?
L’inglese
sorrise.
-
Lo leggo ora sul vostro volto, Camelia. E sono felice per voi.
-
Sono libera. – disse incredula, come destata da un
brutto sogno.
Aprì
l’astuccio di velluto porpora. Lì poggiata sul
fondo
avorio, una medaglia al valore a nome di Lord Ross William Chatwell,
ufficiale di Sua Maestà Giorgio III, perito compiendo il suo
dovere. Un uomo di valore, un uomo pulito.
Scott le prese
le mani.
-
Un
ultima cosa … - sentì che depositava una chiave
nelle
sue. – Fuori città c’è una
casa che abbiamo
utilizzato come base. Nelle cantine c’è un
forziere
…- lo sguardo di Camelia si allarmò –
Beh, nessuno
mi aveva ordinato di recuperare altro oltre ai documenti, quindi
… - sorrise – lo sporco denaro della corruzione di
Fréville, spendetelo tutto per voi… e per lui!
Sorrise,
facendole l’occhiolino.
Quell’uomo era incorreggibile, pensò Camelia.
-
Ma e i piani di D’Eon?
-
Questa
è un’altra storia, Camelia, un problema mio che
risolverò vedendomela col complice ingrato di Oscar che se
ne
è fatto padrone. – sorrise ancora Scott,
pregustando il
brutto tiro in preparazione per Bernard. – Intanto abbiamo
la lista con i contatti di Fréville, che non saranno
più
un pericolo per i nostri uomini; abbiamo la mongolfiera, o quel che ne
resta, - specificò con una leggera smorfia buffa - da
trattare
col Cavaliere Nero. Il vostro compito era di spiare il marchese e
fornirci elementi per annientarlo insieme alla sua rete, quindi
è terminato. Sapete che non ero d’accordo con
quanto vi
era stato proposto dal nostro ambasciatore. Io non vi avrei mai
permesso di … - non riuscì a trovare parole
decorose per
definire la decisione di Camelia di sposare Fréville e
distolse
lo sguardo, che rialzò su di lei dopo qualche istante
–
No, non ve lo avrei permesso, perché tengo a voi, ma
così
facendo vi avrei impedito di salvare tante vite che quel mostro avrebbe
annientato. Camelia, ora dovete dimenticare! Pensate solo a
vivere la vostra vita, visto che Dio vi concede un’altra
possibilità. – ed indicò Victor, appena
visibile
nel riflesso di uno specchio, che aiutato da un valletto veniva
sollevato sui cuscini del suo sontuoso letto.
-
Vi auguro ogni bene, amica mia. So che anche Ross lo vorrebbe.
Camelia lo
guardò
rattristita, sentendo tutta la tensione degli ultimi giorni e degli
ultimi mesi scivolarle lungo le membra, come una maschera che non
serviva più.
-
Portate
il mio abbraccio a Virginia ed un bacio ai vostri figli. Mi
mancherà la vostra amicizia, Scott.
Le
baciò la mano,
galante, rispettoso. Ma ella lo abbracciò
d’impeto,
incurante di quanta etichetta avesse infranto col gesto.
L’abbracciò
perché quello era quasi certamente un addio definitivo
all’amico di una vita che scompariva definitivamente; la vita
in
cui era stata giovane, ingenua, superficiale e felice.
Il capitano
Scott Baker,
strizzò ancora l’occhiolino impertinente e
rivolgendole un
ultimo sorriso, si volse e si allontanò.
Camelia
rientrò nel
salotto dei Girodelle e lo trovò stranamente vuoto. Sapere
che
Victor stava realmente meglio aveva allentato la tensione generale.
Beatrice e Natalie si stavano occupando della madre nella stanza di
lei, mentre Victoire, nello studio del padre, ascoltava dal dottore le
raccomandazioni riguardo la convalescenza del fratello.
Nessuno badava
a lei.
Sostò davanti ai finestroni che davano sul parco: perfino
l’aria non era più calda come prima e non
giungevano odori
sgraditi, tipici della reggia; anzi, stranamente dal parco arrivava un
profumo, quello degli ultimi fiori d’estate portato dal vento
serale. Percepì uno sguardo su di lei e guardò di
nuovo
dentro la sua stanza. Dalla penombra Victor la osservava.
Entrò,
per non rimandare ciò che non poteva più esser
rimandato,
e dimezzò la distanza tra loro.
-
Mio padre ha detto che sei sempre stata qui –
mormorò lui con un fil di voce.
Camelia
respirò profondamente. Ormai era senza maschera,
più che nuda davanti a lui come mai era stata.
-
Vuoi che ti apra le persiane? L’aria sta
rinfrescando … - temporeggiò.
Victor
annuì. Non
era facile per lei tornare a fidarsi di qualcuno e ancor meno mostrarsi
in tutta la sua debolezza, quella della vera sé stessa.
La
guardò muoversi
di scatto verso la finestra, quasi volesse fuggire, tirare le tende con
decisione e spalancare le ante delle persiane.
La luce
arancio del
tramonto illuminò il raso iridescente del suo abito a lutto.
Era
la seconda volta che vestiva di nero per la vedovanza, ma stavolta per
lei il nero era il colore della libertà.
Si
voltò a guardarlo, ma rimase a distanza, lì,
ferma contro la luce. Indecisa.
Victor
inspirò
più profondamente che poté, immettendo aria
fresca nei
polmoni intossicati dal fumo delle candele rimaste sempre accese in
quella stanza, in quei giorni.
"Camelia … Lei,
novella vedova, lei non così roccia, lei giovane donna
complicata …”, pensò
rammentando e rivedendo quei
primi pensieri su di lei.
-
Non
dovresti trovarti qui. – le mormorò –
Qui, accanto
ad un reietto. Un uomo fallito. Sarà scandalo.
-
Vogliono parlare? Lasciali parlare. – risolse ella
con
decisione, scrollando le spalle come una bimba pronta a far capricci
per nascondere la paura strisciante - Le loro frivole danze dureranno
ancora poco: lascia che volteggino sui pettegolezzi se questo li
diverte. Ben presto i nobili francesi avranno poco su cui ridere.
-
Quindi, hai intenzione di restare?
Non rispose
subito. La mano
nella tasca nascosta tra le pieghe della gonna stringeva ancora la
lettera e sentì un crampo allo stomaco salirle al cuore.
Si volse
appoggiandosi allo
stipite della finestra ed estrasse la pergamena. Abbassò
nuovamente gli occhi sulla lettera, ricordando ancora una volta la sera
del natale precedente, quello in cui aveva preso decisioni che mai
avrebbe immaginato di poter prendere allora.
Lesse ancora
quelle righe e
si domandò dove fosse finita la ragazza che c’era
stata
prima della Marchesa di Fréville, la vanitosa, raggiante,
travolgente lady Chatwell. Si chiese se potesse un giorno tornare la
stessa, ma la voce in sé le stava già rispondendo
negativamente. E non era un male; stava a lei salvare ciò
che di
positivo aveva vissuto ed imparato in quei mesi per amalgamarlo con
quanto di buono era stata prima.
Rilesse alcune
parole.
Sono
stato informato di
quanto fatto da voi e posso garantire sul mio onore che non
solo
il nome del vostro sfortunato marito, lord Ross William Chatwell
verrà innalzato agli onori senza neppure il sentore
dell’ingiusto sospetto, ma che nulla è
più dovuto
per l’impegno che prendeste col nostro paese.
Intendo
accogliere la
vostra richiesta, i vostri sacrifici non sono stati vani. Sua
Maestà ed il regno tutto vi ringraziano.
Consideratevi
sciolta da
qualsivoglia obbligo verso questo paese, che continuerà al
contrario ad essere in debito con voi per il vostro sacrificio ed il
vostro coraggio.
Vi
auguro un meritato riposo ed una vita finalmente serena.
William
Pitt, primo ministro
-
Camelia? … - non gli rispose - Camì?
… Non
dovresti starmi vicino … - ripetè.
Lo
guardò.
Aveva gli
occhi rossi di
pianto per André, per Oscar; cerchiati di viola, nel pallore
del
volto di chi è stato ad un passo dalla morte, ma Victor non
provava vero rancore per nessuno, né per quello,
né per altro.
Solo dolore per come erano andate le cose, solo il vuoto per quella
mancanza.
Egli
abbassò le palpebre non riuscendo ad impedire alle lacrime
di farsi strada ancora.
Camelia si
avvicinò al letto. Gli prese la mano nella sua, poi con
entrambe gliela carezzò.
Un giorno gli
avrebbe
raccontato tutto, quando si sarebbe sentito in forze, quando il tempo
avrebbe messo distanza tra lui ed Oscar, tra lui ed André.
Quando avrebbe potuto perdonare loro, lei e sé stesso.
Intanto gli
disse una cosa,
già detta in memoria di un altro che non c’era
più
per poterla udire. Qualcosa che sentiva profondamente e che se Victor e
Dio glielo avessero permesso, gli avrebbe ripetuto fino alla vecchiaia.
-
Rassegnati, Victor… Non abbandono chi amo.
– disse perentoria.
Il tintinnare
di posate li distrasse.
Victoire aveva
appena varcato la soglia reggendo un vassoio tra le mani.
-
La
cameriera ha portato un leggero brodo di pollo come consigliato dal
dottore affinché il nostro malandato Victor si rimetta
più velocemente … - esordì.
Il fratello
sfilò la mano da quelle di Camelia e fece un cenno di
diniego alla sorella.
-
A
quanto pare il nostro malandato
Victor ha ancora energia per fare
capricci … - commentò ironica ed un tantino acida
come da
sua abitudine, ponendo l'accento su quel "malandato".
Si
avvicinò a
Camelia che sorpresa sgranò gli occhi quando Victoire le
allungò il vassoio contro il ventre, obbligandola ad
afferrarlo.
-
Marchesa, a voi l’onore … o
l’onere, dipende
da quanto si impunterà il mio caro, capriccioso fratello.
Quindi si
volse ed uscì, chiudendo la porta della stanza dietro a
sé.
Camelia,
leggermente
interdetta, restò qualche istante immobile con
l’ingombrante vassoio tra le mani. Le era parso di aver
intravisto un sorriso sulle labbra sottili di Victoire.
O
forse era un ghigno ad averle increspate?
Mah, che importava?
Si
strinse nelle spalle e si avvicinò a Victor, sedendo sul
letto e
posando il vassoio sul materasso fra loro.
-
No, non lo voglio – ribadì lui quando
ella avvicinò il cucchiaio colmo alle sue labbra.
-
Non ho intenzione di pregarti… Mangia.
-
Non sei
ancora mia moglie … - sussurrò divertito da
quell’atteggiamento dittatoriale. – E non so
nemmeno se
voglio che lo diventi! – aggiunse indicando l’abito
nero
– Non hai dei precedenti rassicuranti.
Camelia non si
scompose.
-
Victor
… se continui con stupidaggini simili … salto il
terzo e
passo direttamente al quarto! – minacciò
avvicinando
nuovamente il cucchiaio alle sue labbra.
Aggrottò
le sopracciglia a rafforzare l’intimidazione.
Lui fece
altrettanto, ma dopo un istante cedette ed aprì la bocca,
rassegnato.
-
Bravo! Hai capito come devono funzionare le cose! Sarai un
maritino coi fiocchi, Victor!
Dall’altro
lato della
porta, Victoire staccò l’orecchio dal legno,
sorridendo per
ciò che aveva origliato.
In fondo i
gusti di suo fratello non erano pessimi come aveva pensato, si disse.
Andò
al balcone e si poggiò alla balaustra in pietra rimanendo
immobile per qualche istante.
Portò
quindi le mani
sulla chioma e sciolse i lunghi capelli castani che aveva raccolto alla
bene meglio sul capo lasciando pochi boccoli a ricadere sulle spalle e
permise che la brezza li carezzasse, percorrendoli tutti, dando loro
volume come se scomposti dalle dita di un amante; da tanto non si
permetteva di fare un cosa del genere, una cosa da ragazzina. Chiuse
gli occhi e lacrime calde scivolarono sulle guance, lungo il mento,
lungo il collo, sul petto, tra i seni. Si raccolsero lì,
nell’incavo. Victorie infilò due dita nello scollo
del
corpetto ed estrasse un nastro blu che lì teneva nascosto da
anni, un nastro dove le sue lacrime si erano fermate. Lo stesso nastro
che Andrè aveva lasciato nel suo letto quando aveva fatto
l’amore con lei, tanto tempo prima.
Non era stata
la prima
volta per nessuno dei due, lei era anche già sposata e
madre; ma
era stato quanto di più vicino al primo vero amore, rimasto
tale, immutato anche se solo per lei.
André era stato sempre
affettuoso, attento, perfetto, ma non si era mai realmente innamorato,
non di lei, non di altre; pareva attendere qualcosa del quale non era
cosciente; attendeva qualcuno.
Victoire aveva
capito che
l’attesa di André era finita quando aveva
conosciuto
Oscar; aveva seguito l’altra metà del suo cuore e
con lei
era morto .
Intrecciò
il fiocco
fra dita, lo sfilò piano godendo il solleticare del tessuto
sulla pelle sensibile, tenendolo poi con due dita per una
estremità e lo lasciò ondeggiare nel vento.
Finché
c’è vita c’è speranza, si era
sovente
ripetuta; e lei aveva sperato sempre, pur non avendone diritto, fino a
quel momento.
Ora non
restava nulla,
null’ altro che un’ombra nella memoria, che sarebbe
impallidita col tempo, impalpabile, inafferrabile come il vento ed al
vento affidò quell’ultimo ricordo di lui.
Parigi, due
giorni prima, all’alba
I corpi erano
rimasti
appesi quindici minuti, il tempo di sincerarsi che i condannati fossero
spirati.
Uno dei due boia tastò sulla giugulare e scosse il capo
verso il commissario a confermagli che nessuno dei giustiziati
presentava più battito.
Allora,
l’incaricato
di sua maestà fece cenno di rimuovere i cadaveri, cosa che
doveva essere un segno di rispetto alle famiglie nobiliari, invece
della pubblica ostentazione per giorni dei corpi come veniva
solitamente riservato ai comuni malfattori.
I due carnefici sfilarono
le corde lasciando scivolare i corpi a terra con insolita
delicatezza. Sfilarono loro cappi e cappucci, li caricarono sul
carretto scoperto e subito li coprirono con un telo lurido, ma pietoso.
Il carro
lasciò la
prigione e percorse le vie semideserte della città. Solo
qualche
ubriaco dallo sguardo perso, qualche signorina che rientrava dopo una
notte di duro lavoro, gruppetti di nobili giovanotti ubriachi e
chiassosi, come unici testimoni di quel viaggio.
Per Oscar ed
il suo
Andrè c’era solo lo scricchiolio del legno secco
del
misero, stagionato veicolo, delle sue rigide ruote rivestite con una
lamina di ferro che stridevano sull’acciottolato.
Il carretto
varcò
l’ingresso del Cimitero degli Innocenti, che sarebbe stato
chiuso
definitivamente da lì a poco per motivi sanitari,
più che
evidenti all’olfatto.
Passò
tra lugubri
cappelle antiche, misere tombe in terra, croci in ferro, lapidi, fino
ad arrivare ad orrende e nauseabonde fosse comuni, delle quali una era
ancora aperta. Accanto a quella gli spalatori, ormai insensibili al
fetore che li circondava, attendevano immobili. All’arrivare
del
carro si alzarono in piedi dai ceppi e non si sarebbe potuto dire se
fossero loro a regger le pale o gli arnesi a regger loro.
Ma il
conducente senza un
cenno di saluto, passò oltre, lasciandoli stupiti anche se
non
realmente sorpresi. Dopo un attimo di smarrimento, tornarono a sedersi.
Ormai nulla di ciò che accadeva in quel campo di silenzio e
di
orrore li toccava più.
Le ruote del
carro,
urtarono il cordolo di una tomba. Uno dei due corpi si mosse. Un
movimento apparentemente involontario, ma quello successivo non lo fu.
Oscar
scalciò via il
telo che copriva i loro corpi, respirando come in un singhiozzo,
respirando come colui che sta per annegare e miracolosamente riguadagna
la superficie. Inspirò tutta l’aria che
poté e,
gemendo di dolore, si tastò il collo abraso dalla ruvida
canapa
del cappio, quindi si toccò una spalla, poi
l’altra; scese
giù sull’addome, sui fianchi, le cosce,
l’inguine
… Tutto doleva. E poi quel pensiero, terribile,
spaventoso
si impadronì di lei.
Si
gettò sul corpo immobile che le giaceva accanto.
Nessun alito
proveniva da
lui, nessun vapore nell’aria fredda davanti alle sue labbra,
alle
sue narici. Si chinò quindi sul torace sul quale aveva
riposato
serena per tutta quell’estate; lo fece ansiosa, realmente
spaventata come mai in vita sua.
Rimase qualche
istante ad
ascoltare, ma il pulsare della propria agitazione le impediva di udire
quel rumore, il solo che avrebbe potuto calmarla. Chiuse gli occhi,
mentre il terrore di averlo perduto le strappava un singhiozzo. Ma
improvvisamente riconobbe un battito, un altro, un altro ancora: deboli
ma regolari, sempre più distinti.
Si permise di
piangere
senza ritegno per il sollievo, beandosi del suono rassicurante di quel
cuore mentre il suo accelerava. Si sollevò su di un gomito,
gli
scostò la camicia dal petto. Restò ad osservare
gli
stessi segni rossi suoi, sul collo, più marcati
perché
lui era più pesante ed era stato più vicino alla
morte
per questo.
Carezzò
le abrasioni
sulla pelle e le sottili corde di resistentissima seta bianca e gialla,
cucita ed intrecciata, con le quali, come lei, era stato imbragato.
Incisioni sufficienti a graffiare e lacerare in superficie, ma non a
strappare carne e vertebre cervicali. Cercò e
sganciò il
moschettone sul retro del collo, nascosto dal risvolto della giacca,
col quale erano stati agganciati al cappio, proprio sopra il nodo
scorsoio, dimodoché il loro peso non gravasse sulla canapa
stretta attorno al collo, ma si scaricasse lungo tutto il corpo,
sull’imbracatura di seta. Era stato fatto al
momento
dell’incappucciamento, quando si erano agitati un
po’ per
confondere i movimenti dei boia, in realtà lì per
salvarli.
Un inganno, un trucco degno di circensi.
Un’
architettura per la quale non le era stato detto chi ringraziare, ma un
sospetto lo aveva.
Si
lasciò scivolare
supina accanto a lui, stringendogli la mano, sentendo le dita muoversi
appena
mentre lui tornava cosciente e spalancò gli occhi su quel
cielo
azzurro e sgombro che stupidamente non si era mai soffermata ad
ammirare a dovere. Inspirò a pieni polmoni come mai
più
pensava avrebbe potuto fare, tutti i sensi amplificati a godere di
quella rinascita e, nonostante il dolore diffuso per il contraccolpo
subito quando era caduta nel vuoto, si permise di sorridere.
In pochi
minuti,erano
arrivati ad un altro cancello.
Una carrozza nera, priva di insegne o
decori appariscenti, una qualunque corriera, attendeva solo loro.
Accanto a quella, su un cavallo di pregio, stava uno dei due boia,
quello con gli occhi azzurri, ma i capelli ora stavano legati in un
codino e gli abiti dimessi erano celati da un pesante mantello di buona
fattura. Vedendo il carro arrivare, scese e si avvicinò al
conducente. Gli porse una sacchetta con il compenso pattuito. Il
becchino aprì e contò una ad una le monete con
esasperante malfidenza. Rivolse poi un cenno soddisfatto al signore che
si poté avvicinare al retro per prelevare il suo
“carico”.
Oscar si era
sollevata seduta e come Andrè stava strisciando al bordo per
scendere.
Restò
un istante a
guardare meglio lo sconosciuto salvatore, perché ora,
così ripulito, alla luce del sole, aveva un’aria
non
nuova. Dove lo avesse visto, non avrebbe saputo dichiararlo con
certezza: forse a Parigi, forse a Versailles, ma aveva
l’impressione che per un po’ fosse stata la sua
ombra.
-
Io
… - tentò di parlare ella, con voce rauca, ma
dovette
bloccarsi, portando una mano alla gola e strizzando gli occhi per il
dolore.
-
Non
forzatevi a parlare – ordinò l’uomo dai
capelli
ramati, di un tono di rosso tanto chiaro da parere biondo –
La
gola è irritata, potreste danneggiarla irrimediabilmente.
Concedete tempo alle corde vocali di riprendersi dal trauma. Qui ci
sono documenti, denaro, nuove identità. – disse
porgendole
un plico - In carrozza troverete abiti puliti per cambiarvi.
“Ma
…?”, sillabò lei muta.
-
Una
nuova vita vi attende. Nei prossimi giorni vi raggiungerò e
vi
fornirò ulteriori dettagli. Per ora sappiate solo che a
Versailles avete ancora chi vi è amico.
“Camelia
…”, dissero le sue labbra.
L’uomo
sorrise.
-
Sono il
capitano Scott Baker, milady, per ora vi basti sapere che mi
è
stato chiesto di portarvi in salvo. Ora basta esitare, potrebbero
vederci e sospettare.
La
invitò a dirigersi alla carrozza sulla quale
André stava già salendo.
Oscar si volse
ancora per potergli stringere la mano e nel farlo posò
l’altra sul proprio petto: “grazie”.
-
Riferirò a lei … - disse il gentiluomo
inchinandosi e ruotandole la mano per poterla baciare.
Prese posto
accanto ad André che sollevò un braccio per
attirarla a sé.
Scott Baker
fece un cenno deciso
al conducente e la carrozza si avviò. Oscar
ricambiò
l’abbraccio di André che, baciandole i capelli,
socchiuse
gli occhi e si rilassò contro lo schienale, portandola con
sè.
Finalmente
avrebbero riposato.
Niente
più re,
niente più giochi d’azzardo, niente più
macchinazioni. C’era voluto tempo, c’era voluto
dolore, ma
alla fine era arrivata dov’era giusto arrivasse.
Oscar,
sentendo le palpebre
sempre più pesanti, guardò un ultima volta il
paesaggio
familiare della città scorrere fuori del finestrino.
Si sarebbe
svegliata l’indomani chissà dove, non sapendo cosa
le sarebbe capitato, o chi avrebbe incontrato.
Forse,
d’ora innanzi,
avrebbe vissuto il resto della vita nell’incertezza. Di certo
aveva solo lui, André che la stringeva a sé con
l’evidente intenzione di non lasciarla più e
ciò le
bastava.
Qualche notte
prima potevano bere champagne, forse la prossima avrebbero dormito
sotto un ponte.
Fa nulla, si
disse. Anche
se piena di incognite, la vita era un dono, ne era cosciente e non
aveva più alcuna intenzione di sprecarla, anche
perché
dopo tutti i piani, i progetti elaborati e falliti, dopo tutti i
tentativi di manovrare la sua e altrui esistenza, aveva compreso quanto
tutto fosse imprevedibile al mondo.
Non poteva
immaginare che carte le sarebbero capitate in questa mano.
Ma era certa
di una cosa:
se lei fino a quel momento era stata una solitaria regina di spade, di
sicuro il re di cuori era colui che le stava accanto.
- fine (o
l’inizio, dipende dai punti di vista :D)
Il moschettone ... ufficialmente non era ancora stato inventato, ma non
mi garbava l'idea di appenderli con ganci da macellaio :/ ...
Licenza! :D
Nota bene: che
a nessuno
venga in mente di imitare la scena dell’impiccagione (beh,
nemmeno le altre) perché … ci si accoppa!
Ricordo che ho
“saccheggiato” battute e pensieri oltre che dal
manga e
dall’anime, dai film “Maria Antonietta”,
“Harry
ti presento Sally”, “Titanic” e
… ora non mi
viene in mente se ho scordato qualcosa...Angelica! dimenticavo la marchesa degli angeli
Ricordo
inoltre, che se
Karmilla non avesse scritto “la dama di picche”,
questa
storia non mi sarebbe venuta in mente. XDD
Saluti!!!
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