Ab imis
{Dal
più profondo}
Sembra che questo ospedale sia tutto uguale,
centimetro per centimetro.
Considerato
però che ogni macchia di colore mi balla davanti
agli occhi, la monotonia non mi disturba affatto. Piuttosto, anzi,
è un bel sollievo.
Aiuta la
mia testa a riposare.
Ciò
che la monotonia non può placare,
però, è il nome che mi martella ripetutamente
nelle tempie, ossessionandomi sia nelle ore di luce che in quelle di
buio.
Peeta. Peeta. Peeta.
Il
ragazzo che era disposto a barattare la propria vita per la mia, il
ragazzo per il quale sarei morta, ora è nelle mani di
Capitol City, senza che io possa fare nulla per aiutarlo.
A fatica,
cerco di staccarmi da quei pensieri, mettendo a fuoco la
scodella che ho davanti.
Mi hanno
tolto le flebo da poco tempo – dalla visita di Prim,
che li ha persuasi che non avrei più cercato di lasciarmi
morire di fame – e ora cercano di nutrirmi con cibo solido.
Cioè,
solido si fa per dire, visto che quello che mi riempie
il piatto sembra più una brodaglia liquida o, al limite,
viscosa.
Emetto un
lieve sospiro, rimestando la zuppa col mio cucchiaio.
Ho smesso
di pensare di lasciarmi morire, dato che ormai ho capito che
un mio eventuale decesso non salverebbe affatto Peeta da quello che sta
passando – qualsiasi cosa sia.
Anche per
amore della mia sorellina, cerco di convincermi a buttar
giù almeno un boccone, ma mi basta guardare la zuppa per
sentire il mio stomaco contorcersi.
Improvvisamente,
la porta si apre.
Alzo la
testa, e il movimento basta per farmi vedere degli sprazzi di
luce davanti agli occhi.
Poi la
mia vista si snebbia e riconosco Gale, il mio migliore amico di
sempre.
Sono
felice di vederlo, ma non riesco proprio a sorridergli. Non ne ho
la minima voglia.
Così,
per mascherare la cosa – non voglio ferirlo
– mi ficco una cucchiaiata in bocca.
«Ciao»
dice Gale, avvicinandosi al mio letto.
Il mio
viso si contrae in una smorfia. La consistenza della zuppa, per
quanto ciò possa sembrare incredibile, è ancora
più ributtante del suo aspetto.
Sono
tentata di risputare tutto nel piatto ma, con un grande sforzo di
volontà, riesco a mandare giù quello che ho in
bocca.
«Ciao»
dico poi, guardando Gale.
Lui si
siede sul bordo del mio letto. «Come va,
oggi?» mi domanda, un po’ preoccupato.
Alle sue
parole, una fitta di dolore mi attraversa il cranio.
Come
vuole che vada? Peeta è ancora chissà dove.
Probabilmente, proprio in questo momento, è circondato da
una manciata di aguzzini intenti a torturarlo.
Serro le
labbra, cercando di non mettermi a urlare.
«Come
sempre» rispondo, laconica.
Gale mi
getta un’occhiata dispiaciuta. «Coraggio,
Catnip» mi dice, allungando una mano per spostarmi una ciocca
di capelli dagli occhi. «Puoi affrontare tutto
questo».
Deglutisco,
perché so che non sta parlando della mia
convalescenza. Non solo, almeno. Sa quanto sia dura per me non avere
notizie di Peeta.
Vorrei
dirgli qualcosa, ma le tempie iniziano a pulsarmi per il dolore.
Mi sembra
di avere la fronte in fiamme, la testa sul punto di
esplodere, e improvvisamente non riesco più a capire cosa
sto facendo qui, né dove sia il qui. Non mi viene facile
neanche capire chi sono io,
a dirla tutta.
La stanza
inizia a girare e io emetto un gemito.
Colgo il
movimento del ragazzo che salta giù dal mio letto,
ma subito serro le palpebre perché sembra che la luce
aumenti il dolore.
Ma
neanche stare ad occhi chiusi serve a qualcosa. Non so
più cosa sia reale o cosa non lo sia. Dal mio punto di
vista, potrebbe trattarsi tutto di un sogno, compresa la stretta che si
stringe sul mio polso.
«Katniss!»
esclama una voce, allarmata, ma
effettivamente potrei essermela immaginata.
In mezzo
alla baraonda di suoni e colori che mi circonda,
c’è solo una cosa che so per certa essere vera.
Ed
è lui, il proprietario del nome che continua a pulsarmi
nelle tempie.
Peeta.
Sì,
sono sicura al cento per cento che Peeta sia reale, solo
che lo è molto lontano da qui.
Mi
aggrappo disperatamente a quello che ricordo di lui, e dopo un
po’, partendo da lì, riesco a ricostruire qualcosa
anche su di me. Pensando alla sua voce, al fatto che abbiamo la stessa
età, al motivo per il quale abbiamo iniziato a parlarci e a
conoscerci, fino ad arrivare al perché sono finita in quella
dannata arena.
Sono Katniss Everdeen. Ho diciassette anni. Ho
partecipato agli Hunger
Games. Ho una sorella di nome Prim.
Poco a poco, il dolore sembra cessare, o almeno
affievolirsi.
Apro gli
occhi, e davanti a me c’è Gale. Ha
chiamato mia madre e un medico del Distretto 13. I due stanno parlando
di qualcosa – probabilmente di me – e mia madre mi
è abbastanza vicina da potermi accarezzare i capelli.
Mi
accorgo che Gale ha tra le mani la mia scodella. Probabilmente stavo
per farla cadere a terra e lui l’ha salvata.
Notando
che lo sto guardando, il mio amico assume
un’espressione quasi contrita, stringendosi nelle spalle.
In
effetti, ha fatto bene a impedire che la scodella si sfracellasse al
suolo. Non oso immaginare come gli abitanti del Distretto 13,
così maniaci del risparmio, avrebbero preso tanto buon cibo
–immagino che ognuno abbia i suoi gusti –
spiattellato sul pavimento.
A
dispetto di tutto, devo arricciare le labbra per soffocare un
risolino. Gale se ne accorge, e mi dà un’occhiata
complice.
Traggo un
enorme respiro.
Sono
immensamente grata che lui sia qui con me.
Nonostante
il breve momento in cui la tensione si è
allentata, però, la notte non è migliore delle
precedenti.
So che ho
un incubo: un incubo fatto da immagini frammentarie che si
succedono ad una velocità nauseante. Non capisco cosa stia
succedendo, capisco solo che è qualcosa di orrendo, e un
momento dopo colgo un lampo luminoso degli occhi azzurri di Peeta, che
si aprono su un viso ricoperto di sangue e lividi.
È
il frammento di un secondo, ma mi basta.
L’istante
dopo, sto urlando a pieni polmoni.
Mi metto
a sedere di scatto e le lenzuola stropicciate mi si
aggrovigliano alle gambe; so che sono nell’ospedale del
Distretto 13, ma continuo a urlare a perdifiato. Perché so
con altrettanta sicurezza che Peeta non è qui, e il pensiero
del suo sangue mi causa una crisi isterica.
Mentre
grido con tutte le mie forze, cercando di buttar fuori almeno
una parte dell’orrore che provo, una parte di me si aspetta
che arrivi qualche infermiere.
Una
puntura nel braccio e via, cadrò addormentata in men che
non si dica.
Invece,
contro tutte le mie aspettative, è Gale ad arrivare.
Ancora sconvolta dalle immagini nitide del mio incubo, faccio fatica ad
accorgermi che è lui, e per un po’ lotto con le
sue mani, divincolandomi e continuando a gridare.
«Shhht»
bisbiglia lui, ma con forza.
«Katniss, zitta. Sono io, Gale».
Ci vuole
un po’ perché le sue parole mi penetrino
nel cervello, ma alla fine ammutolisco.
Ed
è un bene, considerato che non ho più fiato e
la gola mi fa male.
Però
faccio fatica a respirare. L’aria entra
troppo velocemente nei miei polmoni, e viene strizzata fuori subito
dopo. Ho un attacco di panico?
Con mano
ferma, Gale mi aiuta a ridistendermi sul letto. La
respirazione va un po’ meglio, ma ora sento il cuore
martellarmi tra le costole. Peeta,
Peeta!
Il mio
amico mi rimbocca le coperte, come se fossi una bambina piccola,
poi mi accarezza il volto per tranquillizzarmi. Mi viene da pensare che
i suoi movimenti lenti sono gli stessi che chiunque userebbe per
calmare un animale ferito.
«Dormi,
se ce la fai» mi sussurra. «Io
starò vicino a te».
Non mi si
sdraia accanto, probabilmente perché il mio letto
è piuttosto stretto, o forse non vuole rischiare di
spaventarmi, però si allunga su di me quel tanto che basta
per abbracciarmi.
Chiudo
gli occhi, obbediente, ma poi devo riaprirli subito,
perché il mio incubo è in agguato dietro le
palpebre. Mi sembra quasi di sentire l’odore del sangue
rappreso sul viso di Peeta.
Faccio un
altro paio di tentativi. Ogni volta che sono sul punto di
appisolarmi, però, immagini sempre più
realistiche e cruente mi invadono la mente, ridestandomi con un
sussulto.
Cerco di
concentrarmi sul calore di Gale, sul ritmo del suo respiro, ma
mi accorgo che non funziona.
Il suo
è un abbraccio piacevole, però non mi
tranquillizza. Mi chiedo perché. Dopotutto, prima di essere
rispediti nell’arena, Peeta ha spesso dormito con me, e la
sua stretta funzionava contro i brutti sogni.
Ci
rimugino su attentamente, più che altro per tentare di
distrarmi dalle mie paure sempre più folli.
Forse, mi
dico dopo un po’, tutto risale alla nostra sfida
degli Hunger Games.
A quando
io e Peeta eravamo in quella grotta, e dormivamo nello stesso
sacco a pelo per scaldarci a vicenda. È successo qualcosa,
lì dentro, e non soltanto il fatto che abbiamo rischiato di
morire entrambi, non soltanto la recita dell’idillio. In quel
momento, Peeta era la sola parvenza di un rifugio, e forse da allora ho
iniziato ad associare le sue braccia alla sicurezza.
Le sue braccia.
Appunto.
Non
quelle di Gale.
Arrivata
alla mia conclusione, che non so per quale motivo mi lascia un
certo amaro in bocca, rinuncio completamente alla speranza di
riaddormentarmi.
Purtroppo,
però, non posso evitare di pensare, e il mio
cervello lavora freneticamente, tormentato dalle spaventose immagini di
Peeta picchiato, torturato, mezzo annegato e fustigato.
Cerco di
dirmi che sono mie fantasie, che non posso sapere quello che
gli stanno facendo davvero, ma in qualche modo questo peggiora la
situazione.
Perché
se gli stanno facendo qualcosa di diverso da quello
che immagino, gli stanno facendo qualcosa di peggio.
Alla
fine, proprio quando credo che non ce la farò
più, arriva il mattino.
Gale si
solleva con un respiro un po’ brusco. Trovo
incredibile che abbia passato tutta la notte a tenermi abbracciata: a
giudicare da come si sgranchisce le braccia e da come tende la schiena,
dev’essere stata una posizione scomodissima.
«Sei
riuscita a dormire?» mi domanda, schiarendosi
la voce.
Io non
voglio mentirgli, ma non voglio nemmeno farlo star male, quindi
faccio uno strano cenno, a metà tra l’assenso e il
diniego. Non ci metto nemmeno una gran convinzione.
Gale mi
guarda e capisce. «Se vuoi vado a chiamarti un
infermiere» si offre. «Possono darti qualcosa per
farti dormire».
Non so
cosa rispondere. I farmaci basteranno a non farmi avere incubi?
Gale si
china su di me. «Le cose andranno meglio, Katniss.
Vedrai» mi dice, in tono consolatorio.
La sua
voce è confortante. Se fossi un animale, di certo mi
fiderei di lui.
Purtroppo,
però, sono un essere umano, e se una parte di me
tenta di bisbigliarmi che peggio di così non può
andare, un’altra ribatte che al peggio non
c’è mai fine.
Ed
è a quest’ultima che credo.
«Ora
devo andare» dice Gale, con un sospiro.
«Ma torno presto, promesso».
Faccio
segno di sì con la testa e sto a guardarlo mentre si
allontana.
Poi mi
giro su un fianco e solo in quel momento mi accorgo che sto
tremando. Afferro con forza due lembi di lenzuolo e me li stringo
addosso. La mia presa è così ferrea che le mie
nocche sbiancano. Serro gli occhi e cerco di dimenticare dove sono, di
dirmi che quello che ho attorno non sono due falde di coperte, no. Sono
le braccia di Peeta.
Ma, come
Peeta mi ha detto un giorno nell’arena, non sono
affatto brava a mentire.
Nemmeno a
me stessa.
|