TSS - 5
Guardai
l’orologio: ancora 2 ore prima della scadenza dell’ultimatum. 1 5 H… 15 ore sarebbero state
un’eternità per Sherlock.
Una
volta tanto mi trovavo in anticipo a un appuntamento, davanti a un’abitazione
anonima nella periferia di Londra, con l’intonaco cadente in qualche punto, le
tende tirate e nessun segno di vita. Eppure le informazioni erano precise: i
rapitori, i terroristi, gli assassini o qualunque cosa fossero, si trovavano
lì, assieme ai loro ostaggi, ai loro fornitori personali di minacce sotto forma
di carne.
Mentre
attendevamo in una macchina scura e incognita, con la tensione a sorreggerci le
schiene, con i respiri a scandire i secondi, mi ero preparato a ciò che avrei
trovato all’interno di quella casa: attrezzi raccapriccianti, sangue, il suo, Sherlock senza dita, forse senza
una mano o senza un piede o un orecchio. La verità era che non mi interessava
minimamente quali atrocità avessi trovato e quanto orribilmente fosse stato
mutilato, fintanto che avesse avuto ancora la testa attaccata al resto del
corpo.
Dall’auto
sull’altro lato della strada il poliziotto seduto di fianco al sergente Donovan
fece un impercettibile cenno; la radio di Lestrade goglottò e in un attimo dieci
uomini si riversarono fuori dalle macchine sparpagliate e circondarono la casa
con le armi in pugno. Io, ovviamente, ero tenuto nelle retrovie, ma non mi
perdevo il più piccolo movimento, stringendo la mia pistola con due mani.
Gli
agenti non bussarono e non intimarono la resa: uno di loro aprì la porta con un
calcio, altri due lo seguirono per verificare la sicurezza della stanza e poi,
improvvisamente, ci ritrovammo dentro a correre dappertutto, rasentando i muri
come topi.
Si
capiva subito che quello era il posto giusto: la casa era sporca e trascurata,
permeata dalla polvere a da un disgustoso odore di marcio: sangue e
decomposizione.
Le
porte sbattevano per tutta la casa, da ogni stanza provenivano le voci dei
poliziotti che dichiaravano quella zona libera e sicura. Corsi in cantina
assieme a Lestrade e Donovan e ci ritrovammo in quello che sembrava il
laboratorio di un macellaio o di un chirurgo improvvisato: i muri dell’ambiente,
umido e freddo, erano ricoperti di gommapiuma, per attutire i rumori –
immaginavo, soprattutto le urla; vi era un bancone degli attrezzi che mostrava
una collezione di oggetti taglienti, seghe, coltelli e pinze, alcuni ancora
macchiati di sangue come gli stracci abbandonati sul pavimento sporco. Qua e là
siringhe usate e boccette rotte di penicillina, ovunque l’odore penetrante
della formaldeide. Sul lato più lontano dalla strada era appoggiato un tavolo
operatorio, coperto da un ammasso di lenzuola insanguinate. Impiegammo pochi
istanti a capire che quegli stracci seguivano il profilo di un corpo umano. Da
un’estremità si intravedevano uscire dei capelli scuri, dall’altro un piede
talmente menomato e incrostato di sangue da essere quasi irriconoscibile. Colui
che apparve sul tavolo, dopo aver scostato le lenzuola, era invece
riconoscibilissimo: quel volto corrispondeva alla foto che avevo visto di
Eduardo Lucas.
Se
erano stati fatti dei tentativi per limitare le infezioni, avevano dato
risultati molto deludenti: il fetore della cancrena ci investì, risalendo da
quel corpo che non ero nemmeno sicuro fosse ancora vivo. Ma non era ciò che
stavo cercando. Sentii Donovan richiedere un’ambulanza dalla sua radio e forse
Lestrade chiedermi di aiutarlo a fare qualcosa. Alzavo e ribaltavo tutto ciò
che potevo, aprivo ogni porta e ogni armadio, senza pensare minimamente alle
prove che avrei potuto distruggere. Tutti i miei danni furono vani perché in
quella casa e in quella cantina non c’era nessun altro.
«John!»
gridò Lestrade per l’ennesima volta. «Dobbiamo tenerlo vivo finché non arrivano
i paramedici, sbrigati e vieni a fare qualcosa!»
Sapevo
perfettamente cosa. Scostai Lestrade e mi chinai sopra al volto di Lucas,
incurante di tutto il sangue infetto e dei suoi occhi vitrei.
«Dov’è?
Dove si trova?!» gridai per essere sicuro che mi sentisse bene. Lo presi per
una spalla ridotta pelle e ossa. «Dov’è Sherlock? Perché non è qui?!»
«Non
ti dirà niente se non rimane vivo, John!» esclamò Lestrade cercando di
spingermi via.
Lucas
non mi avrebbe più risposto in ogni caso.
Gridai
per la frustrazione.
Brixton.
Era lì che si trovava la sede dei rapitori, l’altra casa era solo la loro
prigione e il loro mattatoio personale. Lucas l’aveva sussurrato a Lestrade
prima di morire di setticemia in quel luogo da incubo. Ciò che non aveva fatto
in tempo a rivelare, invece, era dove si trovasse Sherlock.
Quando
raggiungemmo Brixton le due ore erano già scadute e io avevo vissuto l’arresto
come una successione di fotogrammi al di là di un vetro di disperazione: quella
casa era perfettamente pulita, non una traccia di sangue, né di Sherlock.
L’interrogatorio
pressante a cui erano stati sottoposti i tre uomini – due francesi e un inglese
– aveva permesso alla polizia di scoprire qualcosa in più su
quell’organizzazione che, se riferita ai loro numerosi precedenti casi, non era
nuova a Scotland Yard. Ma non vi fu il benché minimo riferimento a James
Moriarty o a Sherlock Holmes; giuravano di non aver mai sentito parlare né
dell’uno né dell’altro. Sembravano entrambi fantasmi di miti mai esistiti.
Mi
sentivo letteralmente immerso nel fallimento: una pesante e appiccicosa cortina
scura mi impediva di muovere qualsiasi passo verso una zona più luminosa. Non
avevo più altro scopo nella vita che stare seduto in quella sala d’attesa del
Bart’s, vicino all’obitorio, dove il cadavere di Lucas aveva rivelato ciò che
già sapevamo, ovvero praticamente niente.
Avevo
sempre tenuto in considerazione il fatto che sia io che Sherlock avremmo potuto
perdere la vita in uno di quegli sconsiderati inseguimenti in cui ci gettavamo
senza riflettere, oppure durante un’emozionante sparatoria contro il criminale appena
scovato o colpiti da un cecchino che decideva di vendicarsi. Probabilmente
avrei accettato più di buon grado la sua morte se fosse avvenuta così,
improvvisamente, nel mezzo dell’azione in cui vivevamo e di cui ci nutrivamo
entrambi; ma convivere col fatto che fosse morto a causa della mia
inadeguatezza non era possibile.
Un
passo leggero avvolto da calzature ospedaliere si fermò di fronte a me. Non
alzai lo sguardo ma intravidi dei piedi familiari e delle calze colorate e
infantili.
«John…»
Molly si asciugò discretamente il naso, «sappiamo che hai fatto tutto quello
che hai potuto e che non è colpa tua. Lo sa anche lui. La polizia continuerà a
cercare!»
Se
era morto, lui sapeva solo che non sono stato capace di salvarlo, ma non era il caso di esprimere
quell’amaro pensiero ad alta voce. Molly cercava di consolarmi ed io ero
stanco. Annuii per farle capire che apprezzavo il gesto, lei cercò di
recuperare un po’ di allegria offrendomi un tè e si allontanò per andare a
procurarselo.
C’era
un inusuale silenzio in quel luogo remoto dell’ospedale; avvicinandosi ai morti
la gente si sentiva in dovere di abbassare il tono della voce, come se si
potessero svegliare. Se ciò fosse stato davvero possibile, avrei gridato con
tutto il fiato. Ma la mia vita non era fatta di grida e chiasso: era fatta di
intuizioni, di sussurri e di occhiate complici, di codici decifrati, di respiri
trattenuti prima di uno sparo e di quelli soffocati nel buio di un
nascondiglio; di quelli liberati in un’improvvisa ammirazione e di quelli
esasperati in un attimo di rivalità. D’ora in avanti la mia vita sarebbe stata
ancora più silenziosa.
Approfittai
della solitudine per prendere in mano il telefono e fare qualcosa di cui
altrimenti mi sarei vergognato. Premetti lentamente sui tasti, indugiai sulla
tastiera accarezzandola col pollice in un momento di esitazione, poi inviai il
messaggio. Appena in tempo, perché una mano robusta si appoggiò sulla mia
spalla facendomi sussultare.
«John»
salutò Culverton Smith, aggirando la fila di sedie e sedendosi di fianco a me.
Avvertii indistintamente qualcosa di sgradevole che mi fece allontanare di
qualche centimetro. Il dottore estrasse le mani dalle tasche del camice e le
intrecciò in grembo, senza dire altro.
Non
apprezzavo quella presenza invadente, in quel momento, per cui trovai qualcosa
di cui parlare e con la quale fare terminare quell’incontro casuale. «Non c’era
niente di interessante sul corpo di Lucas?»
Smith
sospirò pesantemente, guardando il vuoto. «Nessun indizio, se è quello che
vuole sapere: palese presenza di batteri da infezione, parecchie tracce dei
materiali in cantina e formaldeide qua e là. Dev’esserci entrato in contatto
attraverso gli oggetti nella stanza.»
In
quel momento ricollegai quella sensazione sgradevole che avevo provato
all’odore sulle mani del dottore. «Formalina» riconobbi, «hanno fatto passi
avanti con le ultime imbalsamazioni…»
No.
C’era qualcosa che non tornava: nella cantina avevo trovato solamente barattoli
di formaldeide, non c’era nessuna traccia di formalina, la sua versione più
evoluta, né nelle confezioni né nelle siringhe che avevo trovato. Però i resti
di Sherlock erano stati trattati con la formalina.
Era
indubbiamente formalina, come lo era quella che sentivo provenire dal dottor
Smith, un ricercatore che trascorreva la maggior parte del suo tempo in
laboratorio, che possedeva una grande varietà di conoscenze tecniche ma che non
aveva bisogno di metterle in pratica.
Alzai
gli occhi e notai che mi stava guardando.
«Formaldeide,
volevo dire» mi corressi, sentendo la bocca inaridirsi all’improvviso.
«Già»
concordò lui, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Un
brivido lungo la spina dorsale mi portò un’ispirazione. «È meglio che me
l’appunti. Avrebbe una penna?»
«Oh!
Uh… certo.» Si tastò le tasche sul petto senza risultato, ripiegando su quelle
dei pantaloni ed estraendone, infine, una penna corta. Avevo un vecchio
scontrino in tasca, ma non aveva molta importanza dove stessi per scrivere.
Quando il pennino raffinato scorse sulla carta lasciò dietro di sé una spessa
scia di particolare inchiostro verde.
Trassi
un lungo, profondo respiro: non era il caso di lasciarsi andare a qualcosa di
avventato, prima bisognava riflettere, prendere in considerazione le variabili,
escludere le possibilità. Questo era ciò che avrebbe sicuramente fatto Sherlock
Holmes. Non io.
«Lui
dov’è?» Mi rivolsi al dottor Smith cercando di incatenare il suo sguardo al
mio. Volevo apparire determinato, e lo ero; volevo incutergli timore, volevo
che sapesse che il rispetto della legge, in quel momento, era l’ultima delle
mie priorità e che ero pronto ad afferrargli il collo e stringerlo finché non
avesse parlato.
«Lui?»
domandò Smith simulando sconcerto.
«Mi
porti subito da lui» intimai avvicinandomi minacciosamente, facendogli capire
che quella era la sua ultima possibilità di ubbidire senza nessun osso rotto.
Non afferrò il messaggio.
«Questo
atteggiamento minaccioso è del tutto ingiusti-» Gli afferrai il colletto della
camicia, osservai il colore del suo viso virare al rosso, avvicinai
pericolosamente la punta della penna al suo occhio sinistro.
«Lei
mi porterà immediatamente nel luogo dove si trova Sherlock Holmes, o io
l’accecherò, le caverò gli occhi e la torturerò finché qualcuno non mi sparerà
in testa, ma consideri il fatto che a quell’ora lei sarà probabilmente già
morto!»
Udii
un rumore poco distante: un bicchiere di plastica era caduto a terra spandendo
il proprio contenuto fumante; Molly Hooper era spuntata dal corridoio
assistendo alla scena con gli occhi spalancati.
«J-John?»
«Lui
sa dov’è Sherlock, Molly!»
«No,
io-» Strattonai il colletto.
«Lo
sa.»
Molly
si guardò alle spalle con inaspettata determinazione. «Ti copro io, John.»
Svanì nuovamente correndo dietro l’angolo.
«L’arresteranno
per questo» disse Smith, in un tentativo di minaccia.
«Mi
porti da lui e vedrà che ci arresteranno insieme, a me non importa, ma forse
lei potrà risparmiarsi un paio d’anni di prigione.»
Smith
spostò lo sguardo da una parte all’altra. «Mi lasci e lo farò.»
Allentai
solo un poco la presa, per permettergli di muoversi, poi lo feci alzare.
L’avrei tenuto così anche per chilometri e chilometri, anche se Sherlock si
fosse trovato in Francia o in Cina. Mi sarebbe dovuto interessare cosa ne avesse
fatto e perché proprio lui, quale storia vi fosse sotto, quale ipotetica
vendetta o rancore l’avesse spinto a fare una cosa del genere; ma non
m’importava.
Il
dottor Smith, accompagnato dalla mia solida stretta, svoltò l’angolo a
sinistra. Non ci stavamo dirigendo all’uscita dell’ospedale; significava che
Sherlock era lì? Era davvero così vicino? Vidi, appesi ai muri, la segnaletica
che conduceva alle scale. Imprigionato nei sotterranei, magari? Chi visita mai
i sotterranei di un ospedale? Avremmo potuto setacciare tutta Londra prima di
prendere in considerazione quel posto.
Superammo
le scale. Tenevo ancora il dottore per il colletto, costringendolo a tendere la
schiena, e allo stesso tempo gli stringevo un braccio. Non provai nemmeno a
pensare di cosa mi avrebbero potuto accusare, non mi importava.
Iniziai
ad irrigidirmi a mia volta, a mano a mano che ci avvicinavamo alla fine del
corridoio: in quella direzione c’era solamente la sala dell’obitorio. Dovevamo
aver sbagliato strada.
«Non
faccia scherzi, Smith» gli sussurrai con uno sfarfallio di panico che avrei
voluto restasse celato.
«Nessuno
scherzo» replicò seccamente, «è qui.»
Ci
fermammo di fronte alla porta pallida, un sommesso vociare più distante aumentò
la mia agitazione. Avrei dovuto spingerlo dentro per evitare di essere visti,
temevo che Molly non riuscisse a tenerci lontano da possibili spettatori, ma allo
stesso tempo…
«Non
le interessa più?» fece Smith, brusco. «Allora le dispiace lasciarmi andare? Ho
del lavoro di cui occuparmi.»
«Silenzio
ed entri» lo incoraggiai con una spinta.
Avevo
sperato che, una volta entrati, la stanza si fosse trasformata in
qualcos’altro, una sala d’attesa, un bar… avevo sperato di aver sbagliato a
leggere la targa all’esterno e di essermi orientato male all’interno
dell’edificio, ma gli alti, profondi scaffali che si addossavano alle pareti,
divisi in scomparti ed etichettati, i tavoli di metallo e il violento odore
misto di disinfettante e morte mi privarono di ogni dubbio e di ogni speranza.
Lasciai vagare lo sguardo sui nomi impressi sui cubicoli senza riuscire a
soffermarmi su nessuno di loro.
Mi
accorsi tardi di aver allentato la presa su Smith, il quale si divincolò con
facilità. Pensai che avrebbe colto l’occasione per colpirmi e scappare, invece
si limitò a incrociare le braccia con atteggiamento offeso e a guardare verso
l’angolo più lontano.
«Pretendo
di ricevere un extra per questo trattamento.»
«Anch’io
avevo sperato che la conclusione sarebbe stata più cerebrale.»
Dall’angolo
remoto e buio era giunta una terza voce intrusa. Mi era rimbombata nelle
orecchie come se si fosse trovata nella mia testa, l’unico luogo, tra l’altro,
in cui credevo di poterla ancora udire.
Bastarono
un paio di passi e Sherlock si svestì delle ombre che l’avevano tenuto
nascosto.
«Adesso
lasciaci» disse ancora, rivolgendosi a Smith, ma con gli occhi fissi su di me.
«Va
bene, ma fate in fretta, stanno per portare un altro paio di cadaveri.» Si
interruppe e rise, come se si fosse ricordato di una battuta divertente. «Tre,
forse, a giudicare dalla faccia del dottor Watson!»
Udii
ancora la sua risata allontanarsi e la porta che si chiudeva alle sue spalle.
Sherlock
stava immobile e muto, come aspettandosi che fossi io a parlare, come se fosse
il mio turno di agire; ma non potevo fare niente, non sapevo più cosa pensare e
mi sentivo immerso in un’atmosfera sinistra. Sherlock era di fronte a me, vivo,
in un luogo dove ogni cosa, soprattutto lui, avrebbe dovuto essere morta.
Teneva le mani nelle tasche del cappotto e dovetti combattere con forza
l’impulso di afferrarle tra le mie per rendermi conto dei danni, accertarmi di
quante dita avesse ancora, capire se avesse bisogno di medicazioni. C’era qualcosa,
nella sua espressione calma che mi diceva che quello non poteva essere un uomo
al quale avevano appena amputato delle dita, né che era stato rapito, tenuto
prigioniero e torturato. La risata del dottor Smith continuava a riecheggiare
in quella stanza metallica come una tetra eco. Mi rendevo conto di essere di
fronte a qualcosa che non avevo capito e che ogni mia mossa avventata non mi
avrebbe procurato altro che umiliazione.
Come
in risposta al mio desiderio, Sherlock estrasse le mani dalle tasche: erano
intatte e perfettamente sane, nessun dito mancante e nessuna ferita, pallide,
forti e affusolate come al solito. Improvvisamente i miei ricordi parvero
stridere con la realtà, iniziai a domandarmi se quelle che avevo visto
scivolare fuori dai pacchetti potessero davvero assomigliare alle dita di
Sherlock. Sicuramente non lo erano.
Sentivo
un’invadente felicità risalire fin dallo stomaco, ma il dubbio, lo sconcerto e
persino la rabbia che si accumulavano via via nel mio petto le impedivano di
fuoriuscire.
«Hai
risolto il caso grazie agli odori, John. Ho sempre detto che gli odori sono
importanti.»
Non
risposi. Non potevo, non capivo. Non volevo. La sua indifferenza di fronte al
mio disorientamento mi rendeva furioso.
«Sapevo
che non l’avresti risolto con i miei stessi metodi, per questo ho cercato di
metterti a disposizione molte strade diverse. Due odori diversi, due casi
diversi. È stato… istruttivo, no?»
Istruttivo?
Forse avrebbe persino voluto dire divertente?
«Anche
se, tecnicamente, non avresti risolto il secondo caso: il tempo era già
scaduto…»
«Che
diavolo significa?!» La mia voce sovrastò la sua, la mia rabbia e la mia
frustrazione esplosero in un istante senza che potessi controllarle e avevano
ormai via libera.
«Non
è il luogo giusto per alzare la voce, John.»
«Ed
è il luogo giusto per riapparire dopo avermi fatto credere di essere morto per
colpa mia?»
Fece
una pausa, non per riflettere, ma per permettere al rimbombo della mia voce
di posarsi al suolo come polvere
inutile. «Sì.»
Il
mio respiro si fece pesante nel tentativo di frenare un altro sfogo che si
tradusse in una risata debole e incerta.
«Ma
sbagli a dire che sarei morto per colpa tua, John; sarei morto per via del mio
assassino. I casi non vanno presi sul personale. Il messaggio che mi hai
mandato…»
«Cancella
quel messaggio, dannazione!»
«Perché
dovrei? L’hai mandato a me.» Prese il suo telefono dalla tasca dei pantaloni e
lesse: «Mi dispiace davvero – John.
Toccante, ma del tutto superfluo.»
Un
gioco. Per lui era sempre un gioco, persino quando si trattava di me: era un
gioco quando si era alleato con Culverton Smith per manomettere i risultati
delle analisi, ed era un gioco anche il riapparire all’improvviso senza
spiegazioni e scoprire quale sarebbe stata la mia reazione. Stava cercando un
modo originale per vantarsi delle sue facoltà? Ora avrebbe avuto tutti gli
spunti che voleva per criticare le mie capacità di ragionamento di fronte
all’ovvietà e per sfoggiare come lui avesse risolto il caso in soli 3 minuti,
mentre io avevo brancolato come un disperato, sovraccaricato da ansia, paura,
affetto, determinazione e poi di nuovo terrore, ostacolato da me stesso, dal
mio essere umano. Ma continuavo a non capire lo scopo di tutto ciò e mi
rassegnai all’ottenere qualche forma di dispiacere da parte sua.
Non
potei guardarlo negli occhi, avvertivo lo spiacevole tarlo della delusione in
me. «Perché l’hai fatto?» domandai dopo aver pensato: ‘Perché hai fatto questo a me?’
«Per
allenarti, John.»
Non
capivo perché continuasse a ripetere il mio nome in quel modo; forse per farmi
calmare, come una specie di mantra. In qualche modo sembrava funzionare, anche
se dentro di me continuavo ad avvertire un’orribile sensazione di delusione e
abbandono.
«Era
qualcosa che andava fatto, dovevi capire certe cose, prepararti al futuro.»
Continuavo
a non capire. Non mi importava più.
«Era
un caso estremamente semplice, ma bisognava saper riconoscere gli indizi
importanti da quelli piazzati per depistare. Avevo già avuto a che fare con
questo gruppo di individui, in passato. Commettono crimini di solito di natura
politica – prediligono in assoluto la vendita di informazioni confidenziali di
alte cariche, segreti di Stato, e simili – e poi fanno ricadere la colpa su
gruppi terroristici o associazioni a delinquere che sono, in genere, troppo
ampie per essere setacciate da cima a fondo, facendo perdere le loro tracce
mentre la polizia, stupidamente, perde tempo interrogando tutti gli anarchici
del paese.»
Una
volta tanto, non mi interessava conoscere le geniali intuizioni di Sherlock
Holmes; per quanto fossi furioso, per quanto mi sentissi usato e umiliato, non
potevo fare a meno di pensare che non era mai stato in pericolo. Il sollievo mi
liberò, in piccola parte, dalla mia rabbia.
«Era
evidente che questa volta avessero commesso un passo falso per punire uno di
loro che si era infiltrato nel governo britannico. I riferimenti agli anarchici
erano assolutamente deboli – quel graffito, per esempio, era del tutto fuori
posto – ma la polizia non l’ha saputo capire, come al solito. Tu ce l’hai fatta
in qualche modo, alla fine. È bastato fare una visita a casa di Lucas per poter
ricostruire ogni cosa. Il profumo, unico oggetto femminile, denotava una
relazione segreta; il fatto che Lucas svolgesse il lavoro di traduttore, ma che
in casa non avesse nulla che facesse riferimento alla Francia – nonostante
tutti quei cimeli inutili – nemmeno un dizionario,
mi ha fatto pensare che nascondesse qualcosa, la sua relazione o addirittura
una doppia vita. Tutte queste sono rimaste supposizioni finché non ho visto il
quaderno: la polizia avrà pensato che fossero scarabocchi, vero? Omini
stilizzati che ballavano. Era un codice, e nemmeno troppo difficile. L’ho
fotografato e l’ho decifrato in meno di una notte, bastava avere un po’ di
pazienza. Si trattava di informazioni private su Trelawney Hope e sui suoi
confidenti che Lucas spediva regolarmente a suoi complici, i quali potevano
rivenderle. Era chiaro che avesse deciso di smetterla con questi affari pericolosi,
visto che era stato rapito. I suoi complici volevano probabilmente estorcergli
le ultime informazioni: l’hanno torturato e, per coprire il rapimento, hanno
avuto la pittoresca idea di simulare l’attacco di un gruppo anarchico ad alcuni
Paesi europei, mandando pezzi qua e là, credendo di risultare credibili
spedendoli solo alle monarchie, ma commettendo errori grossolani che, alla
fine, anche tu hai saputo cogliere. Hanno capito tardi che tutte le
informazioni scritte in un codice facilmente decifrabile si trovavano ancora
nell’appartamento, che però era sotto sorveglianza e che non avevano tempo di
perlustrare, così hanno pagato profumatamente una ditta di traslochi che si
intrufolasse e portasse via qualunque cosa, liberandosi così di tutte le prove
che potessero condurre a loro. A questo punto bastava scoprire i nomi, il
metodo che hai usato tu era-»
«Cosa
c’entravi tu, in tutto questo?» Non mi interessavano i magri complimenti alle
mie rare intuizioni, non mi importava sapere come tutti gli indizi si fossero
trovati a mia disposizione, né quanto tempo avessi sprecato cercandoli
inutilmente. Le sue spiegazioni erano solo un brusio di sottofondo alla mia domanda
ridondante.
«Il
caso era risolto e c’era un sacco di materiale con cui impegnare la tua mente
poco allenata.»
«Capisco.
Il caso era così noioso, per te, che hai deciso divertirti usandomi come cavia
e osservandomi cercare di uscire dal labirinto?»
«Non
è stato divertente» rispose lui, con un’ingenuità talmente sincera da farmi
irritare ancora di più, «mi sono annoiato ad aspettarti, e non mi piace
indossare gli stessi vestiti per tanto tempo. Ho cercato di metterti fretta con
quel messaggio, ma 15 ore erano comunque un’eternità.»
«Non
eri davvero malato… vero?» Ormai iniziavo a intuire come tutto ciò che era
accaduto fosse stato orchestrato per i suoi scopi.
«No.
Volevo un po’ di tempo da solo per organizzare le cose con Smith.»
Quindi
Moriarty non c’entrava niente. Sherlock aveva preso il suo posto.
«E
Mycroft… non sembrava molto preoccupato.»
«L’avevo
avvertito precedentemente in modo che non ficcasse il naso.»
Distesi
e contrassi la mano sinistra, così combattuto dal desiderio di prenderlo a
pugni e di abbracciarlo allo stesso tempo da avere le braccia formicolanti.
Abbracciarlo, sì, avrei voluto farlo. Due persone normali l’avrebbero fatto
dopo un’avventura simile, ma Sherlock aveva l’innata – o forse allenata –
capacità di eliminare in me ogni tipo di razionalità. Alla fine mi rassegnai,
era la soluzione migliore. Non ero in grado di sostenere una prova di
resistenza con la mente di Sherlock Holmes.
Mi
stava ancora scrutando, cercando di indagare all’interno della mia mente, forse
chiedendosi perché non rispondessi, perché avessi rinunciato ad arrabbiarmi,
perché non fossi rimasto sorpreso dalle sue brillanti deduzioni. Cercava di
capire quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Forse ero l’unica persona in
grado di sorprenderlo, perché il più delle volte, quando ero con lui,
sorprendevo addirittura me stesso.
«Era
un addestramento» constatai infine, come se volessi giustificarlo. Non avrei
dovuto farlo, non meritava il perdono, non così in fretta, ma c’era sempre una
parte, dentro mi me, che voleva difenderlo. «Gli addestramenti sono sempre
difficili, alle volte crudeli.»
Trassi
un profondo respiro. Era tutto finito, avrei potuto far finta che non fosse
accaduto niente, ma non era quello lo scopo di un addestramento.
Sherlock
si avvicinò a me per la prima volta – forse aveva davvero temuto di essere
colpito.
«Sei
stato… bravo, John. La prossima volta sarai più veloce.»
Ero
sicuro che un giorno mi sarei pentito di quel pugno mancato.
«Se
proverai a rifarlo, ti ucciderò, Sherlock.»
**
«John!»
Il
ricordo sfuma in una luce abbagliante e poi in quella del tramonto. Il sole sta
calando e il tè, rimasto intatto nella tazza, è ormai freddo.
«John,
fissi il vuoto da 5 minuti. Cosa c’è che non va?»
I
capelli di Mary ardono di tramonto, ma le ombre nella casa iniziano già ad
allungarsi; il tempo ricomincia lentamente a scorrere, la vita riprende
pigramente, presto tornerà frenetica, ma io sono giunto a un bivio e l’ho
finalmente superato. Un solo attimo si è rivelato un’epifania.
«Cosa
c’è che non va?» ripete Mary, scrutandomi dall’altro capo del tavolo, facendo
il tentativo di allungare le mani nella mia direzione.
Riemergo
dai ricordi, ritrovo i miei pensieri e le mie parole, come dopo una lunga
immersione.
«Io
credo… credo che Sherlock sia vivo.»
|