più o meno
Salve a tutti,
premetto col dire che questa è assolutamente una storia
senza pretese, priva di senso, concepita dopo una meditazione poco
seria. So solo che avevo voglia di scrivere di questi due da un bel po'
di mesi e che alla fine ho buttato giù qualcosa.
E' una storia
leggermente lunga ma mi dispiaceva dividerla in due parti quindi, se
non ve la sentite proprio di avventurarvi in una lettura del genere,
non ve ne vorrò.
Naturalmente nessuno dei personaggi mi appartiene - per fortuna loro -
Detto ciò,
Buona lettura!
Più o meno
(
Quando un Kurt Hummel depresso e un David Karofsky drogato di
caffè s'incontrano, con la partecipazione di una Rachel
Berry mediamente normale )
***
Di tutte le persone che avrebbe potuto incontrare in un Gap nel bel mezzo
di New York, Kurt Hummel non avrebbe assolutamente dato un centesimo
per scommettere di incontrare lui.
Non era il suo genere di negozi, il Gap.
Come assistente del caporedattore di Vogue avrebbe
dovuto – teoricamente - tenersi lontano da posti come quelli
per dedicare la sua attenzione unicamente alle costose boutique e ai
negozi privilegiati, dove avrebbe potuto fare sfoggio del suo buon
gusto in fattore moda.
Tuttavia dubitava seriamente che avrebbe trovato un regalo per Finn in
una boutique di Gucci
o Dolce&Gabbana,
quindi aveva optato per il primo Gap
che gli si era parato davanti sulla via di casa.
Non aveva ancora un’idea precisa di che cosa volesse
acquistare al fratellastro, magari una camicia, avrebbe lasciato che il
suo istinto lo guidasse. Come sempre.
Vagò per una buona mezz’ora facendosi largo tra
uomini annoiati che seguivano le proprie mogli indaffarate e
freneticamente in cerca di qualcosa da un reparto all’altro,
e vecchie signore che tentavano di accaparrarsi le ultime offerte.
Si ritrovò a dare un’occhiata tra le camice a
tinta unita perchè, si disse, non si poteva mai sapere di
trovare qualcosa di elegante da mettere anche in un Gap, quando
all'improvviso un’altra mano tentò di prendere un
modello blu oltremare.
- Mi scusi – disse subito una voce e la mano si
allontanò di scatto.
E Kurt avvertì un brivido lungo la schiena, alzando lo
sguardo, incredulo.
David Karofsky.
Si guardarono per alcuni istanti a bocca aperta, spaesati, poi il
più grande tossicchiò appena, in imbarazzo.
- Che... che ci fai qui? – domandò brusco. Come
sempre, aggiunse mentalmente Kurt.
- Vivo a New York, Karofsky – rispose, forse con un tono
troppo secco – tu, piuttosto, come mai sei qui? –
- Alleno una squadra di un liceo, ora –
- Qui? –
- Già. Sorpreso? – chiese con tono di sfida,
infilandosi le mani nelle tasche dei jeans slavati.
- No – disse subito Kurt preso in contropiede –
solo, non lo sapevo. Da quanto tempo sei a New York? –
- Quattro mesi. Tu balli e canti ancora su un palco come una fatina?
–
Kurt non riuscì a non arrossire per il nomignolo che aveva
dimenticato e posò la camicia all’appendiabiti.
- Lavoro per Vogue
– mormorò alzando il mento fieramente. Non si
aspettava che qualcuno dello stampo di David Karofsky conoscesse Vogue.
- Quel giornale di moda per donnicciole? –
- Lo conosci? – balbettò, sgranando appena gli
occhi.
- Solo perché la mia vicina di casa si è abbonata
e getta le riviste vecchie nei cassonetti del condominio –
Kurt lo guardò perplesso e si umettò appena le
labbra.
- Frughi nel cassetto della spazzatura spiando la tua vicina di casa
per leggere Vogue?
–
David Karofsky si era stupito non poco vedendo la sua fatina del
liceo frugare tra gli scaffali del Gap; sapeva che lavorava nel settore
della moda grazie ad una chiacchierata avuta a Natale quando aveva
portato la macchina a riparare da Burt Hummel. L’ormai
vecchio meccanico si era lasciato andare ad una lunga conversazone,
appena fuori l’officina, su quanto fosse fiero di suo figlio
e di quanto gli mancasse. L’aveva trattenuto per una buona
mezz’ora e David si era domandato da quando Hummel senior fosse
diventato così loquace ed espansivo con lui. Alla fin fine
se n’era ritornato a casa con la testa piena di
novità riguardanti la fatina
e con un gran freddo. Più tardi, facendosi una bella doccia
bollente, aveva ammesso a sé stesso di aver fantasticato
più di una volta di ritrovare Kurt tra il traffico
newyorkese e i negozi affollati, ma aveva rinunciato presto, dandosi
dell’illuso, ed aver deciso di dedicarsi con particolare
dedizione alla propria squadra.
E quel pomeriggio aveva quasi rischiato l’infarto per
esserselo ritrovato davanti; era poco più alto dai tempi del
liceo, la pelle nivea e gli occhi grandi e attenti erano gli stessi.
Così come i capelli acconciati in quel modo assurdo, da fatina, appunto.
Si erano salutati per modo di dire all’uscita del Gap: David con un
paio nuovo di jeans e Kurt con un regalo per
quell’allampanato di Finn Hudson. Un saluto mezzo borbottato
e un sorriso di cortesia dopo e Hummel si era già voltato e
allontanato di un paio di metri quando David l’aveva rincorso
e l’aveva invitato per un caffè, maledicendosi una
frazione di secondo dopo.
- Perché no? – aveva annuito Kurt, stupito.
Kurt non seppe dire a Rachel, quella sera, perché
accettò il caffè da Karofsky; dopotutto era a
causa sua se ricordava i suoi anni del liceo come un inferno in terra
e, nonostante avessero cucito una presupposta amicizia quel giorno in
ospedale, l’uomo gli incuteva ancora soggezione. Eppure
sembrava diverso.
Davanti a due caffè bollenti parlarono del più e
del meno, della squadra di David e del lavoro di Kurt.
Tutto sembro andare bene, anzi andò
bene e Kurt se ne meravigliò. Si salutarono velocemente, non
si promisero di rivedersi, né si scambiarono i numeri di
cellulare.
Semplicemente non era
una cosa da fare, pensò Karofsky salendo le
scale e salutando la sua vicina di casa con un cenno della mano, non si
vedevano da anni e dopo tutto quello che gli aveva fatto passare, David
non se l’era sentita di invitare il ragazzo per un altro
caffè.
Kurt, dopo averlo salutato con un sorriso appena accennato, aveva
cercato di mettere più distanza possibile da Karofsky e
dallo Starbucks. Non era da lui avvertire la bocca dello stomaco
serrarsi in quel modo così piacevole, non dopo la rottura
con Blaine per lo meno.
Kurt e David s’incontrarono di nuovo nello stesso locale e
nessuno dei due si sorprese più di tanto; entrambi erano
ritornati ogni giorno alla stessa ora, curiosi. Troppo orgogliosi,
tuttavia, di ammettere a sé stessi il perché.
Tra un sorso e l’altro decisero di fissare giovedì
come giornata-caffè.
Nessuno dei due trovò scuse plausibili per giustificare
quegli incontri, perciò ignorarono il tutto e si
concentrarono sul piacere di fare quattro chiacchiere dopo una giornata
di lavoro estenuante.
- La tua squadra di football gioca qualche partita? – chiese
Kurt sedendosi ad un tavolino appartato, tenendo in bilico un
caffè doppio. Karofsky lo imitò prendendo posto
davanti a lui.
- Non dirmi che t’interessi al football, fatina. Potrei
versarmi il caffè addosso per lo stupore –
Kurt arrossì e borbottò qualcosa di simile a era tanto per far conversazione,
gorilla.
Quando Kurt rientrò nell’appartamento dovette
reprimere un urlo di spavento, vedendosi piombare letteralmente addosso
la sua coinquilina. Rachel Barbra Berry nel suo pigiama rosa confetto
lo fissava con cipiglio severo e il sopracciglio pericolosamente
corrugato.
- Sono quasi le
due di notte, Kurt –
- Non sei mia madre Rachel e, fino a prova contraria, non ho nessun
coprifuoco. Cosa ci fai ancora in piedi, comunque? Domani non hai
un’audizione? – le domandò, togliendosi
il cappotto e andando in cucina con tutta l’intenzione di
prepararsi del tè bollente. Nonostante fosse solo novembre,
fuori si gelava.
- Ero preoccupata! Dove sei stato? –
- Ad una partita di football – il giovane sbuffò
leggermente allo sguardo stranito dell’amica –
Giocava la squadra di David – precisò.
- David?
– chiese lei stizzita – lo chiami per nome, ora
Kurt? –
- Rachel, ne abbiamo già parlato. Va tutto bene, non mi ha
picchiato se è questo che vuoi sapere. Era solo una partita
–
- A te non piace il football –
- Insomma, Rachel, di cosa ti preoccupi? Siamo... – Kurt si
bloccò indeciso su che cosa dire. Prese una bustina di
tè earl grey
e la mise nell’acqua bollente della tazza. Odiava il
tè in generale, preferiva il caffè, ma
l’earl grey
era una delizia.
- Amici? – concluse la ragazza per lui.
- Mhm
più o meno – mormorò lui, evitando di
guardarla.
- Kurt, era un bullo. Ti ha reso la vita un inferno, hai cambiato
scuola per colpa sua – rimarcò lei.
- E’ cambiato, Rachel, davvero. Non me ne andrei in giro con
lui se sapessi che è la stessa identica persona degli anni
del liceo –
- Ha fatto coming out?
–
- No –
Rachel allargò le braccia in un segno eloquente.
- E con questo? Ci sono uomini che non dicono di essere gay fino ai
quarant’anni. E’ una scelta personale –
- Quindi ne avete parlato? –
- Più o meno – tolse il filtro di tè,
gettandolo nel lavello e fece per portarsi la tazza di tè
alle labbra quando Rachel gli prese le mani, costringendolo a guardarla.
- Ascoltami Kurt, so che dopo la rottura con Blaine le cose non son
– il ragazzo l’interruppe.
- Possiamo tralasciare il discorso Blaine,
per una volta? –
- Ascoltami – ripetè decisa – dopo la
rottura con Blaine – e qui Kurt alzò gli occhi al
cielo con una smorfia stizzita – ti sei dedicato
completamente alla carriera, com’è giusto che sia.
Ma lavori troppo, te lo dicono tutti quanti. Hai bisogno di un
po’ di svago e ora non vorrei che questi... questi incontri
con Karofsky ti dessero alla testa –
Kurt corrugò leggermente le sopracciglia, guardando il volto
sicuro dell’amica.
- In che senso? Non è legale prendere un caffè
con un conoscente? –
- Non vorrei che tu tornassi a casa una sera, disperato,
perché Karofsky si è divertito a giocare con te
–
- Rachel, invece di andare avanti con questi giri di parole, ti
spiacerebbe venire al dunque? Temo di non seguirti. E il fatto che
siano le due di notte passate non aiuta –
- Oh bè,
ci vado cauta io
perché è una cosa delicata e di solito tu la
prendi mal –
- Al dunque – l’interruppe Kurt con mezzo sospiro;
avvertiva il desiderio impellente di sprofondare nel suo letto e
dormire.
- Non vorrei che tu t’innamorassi di Karofsky –
disse Rachel tutto d’un fiato e si guadagnò uno
sguardo perplesso da parte del giovane.
- Sei seria, Rachel? – le chiese portandosi la tazza alle
labbra – Avresti una carriera come cabarettista, sai? -
- Non fare così. Ti conosco, Kurt Hummel, viviamo assieme da
tre anni oramai e ho notato il cambiamento –
- Quale cambiamento? –
- Sei più sereno, sorridi di più e ti svegli
riposato. Eri così anche con Blaine –
Kurt sussultò appena e sopirò pesantemente,
lavò la tazza e baciò la ragazza su una guancia.
- Buonanotte Rachel, in bocca al lupo per la tua audizione domani
– detto ciò si diresse verso la sua stanza.
- Dovrai abituarti a sentire il nome Blaine uscire dalla
mia bocca. E credo uscirà spesso anche Karofsky
d’ora in poi – gli urlò dietro
– buonanotte anche a te, comunque, e stai attento! –
Kurt sorrise.
Dov’è
quel damerino tutto ingellato?
David Karofsky capì di aver chiesto la cosa sbagliata
all’istante; Kurt abbassò gli occhi, posando il
caffè macchiato sul tavolino.
Il caffè del giovedì pomeriggio era diventato
quasi un’abitudine: alle diciassette e quindici
s’incontravano in quello Starbucks piccolo ma accogliente,
ordinavano due caffè e chiacchieravano.
- Ci siamo lasciati un anno fa – disse Kurt asciutto.
- Mi dispiace – disse David, incerto. Cosa si diceva in quelle
occasioni?
- No – l’altro bevve un sorso e scrollò
le spalle – non importa. Tu piuttosto? –
- Piuttosto cosa? –
- Hai un ragazzo? – chiese abbassando il tono di voce,
sorridendo poi all’espressione imbarazzata
dell’altro.
- Ne ho avuto qualcuno, sì, ma non è andata.
Diciamo che erano per lo più avventure –
Kurt annuì, appuntandosi mentalmente di rivedere le proprie
priorità; David Karofsky, omosessuale represso, aveva avuto
più storie di lui, Kurt Hummel, meraviglioso e decisamente
avvenente assistente del caporedattore di Vogue.
- Qualcuno si è divertito lontano da Lima – disse
buttandola sul ridere, ma ne uscì solo un commento
malinconico, da casalinga disperata.
- New York è una città diversa e più
aperta – disse David, finendo il proprio caffè.
- Appunto per quello. Un coming
out qui non verrebbe preso come un cataclisma naturale
– disse Kurt ponderando bene le parole.
- Credo che il fatto che io stia bevendo il caffè con te, fatina, sia la cosa
più vicina ad un coming
out che esista –
Il meraviglioso e avvenente assistente del capo direttore di Vogue, Kurt Hummel,
rischiò di strozzarsi con il caffè.
Cos’aveva
detto?
Kurt Hummel era mollemente abbandonato sul divano, teneva tra le
braccia una mega confezione di gelato alla nocciola e guardava con
sguardo vacuo una soap
opera tragica e noiosa.
Era giovedì. Erano le diciotto e venti. E non era andato
allo Starbucks.
Non aveva nemmeno avvertito Karofsky, che aveva prontamente chiamato
tre volte. Ovviamente Kurt non aveva risposto.
Emise un sospiro e si massaggiò la radice del naso. Perché poi non si era
presentato? gli chiese una vocina nella sua testa. Era
arrivato in anticipo, in realtà, al locale, ma si era
rifiutato di entrare. Lo stomaco gli si era chiuso ripensando agli
ultimi incontri.
Kurt Hummel aveva finto di ignorare tutti i sintomi; sudorazione
eccessiva, farfalle nello stomaco, caldo improvviso, vertigini, gambe
molli, sogni compromettenti e felicità, troppa
felicità. Ma c’erano troppi sintomi a lui
conosciuti e ignorarli era diventato impossibile.
Aveva impiegato una notte intera – insonne – per
ricondurre tutte quelle sensazioni alla persona di David Karofsky. E
arrendersi. Si era dato dello stupido per poi dirsi che era stato davvero un cretino
a non voler ascoltare Rachel. Quella ragazza lo conosceva sul serio.
Kurt Hummel era letteralmente scappato dallo Starbucks
perché si era innamorato di David Karofsky e aveva il
terrore di affrontarne le conseguenze.
Era talmente assorto che quasi non si accorse nemmeno della sua
coinquilina. Quasi,
perché la ragazza entrò sbattendo la porta e
sbraitando contro qualcuno di non ben identificato.
- Ciao Rachel – la salutò atono.
- Oh, la
odio! Forse prenderanno lei perché ha più
referenze, ti rendi conto? Io sono stata strepitosa, ho fatto venire i
brividi a tutti con la mia canzone di Barbra. I brividi. Poi
è entrata quest’oca giuliva, ha cantato qualcosa
di scialbo e moderno e Congratulazioni,
signorina Mortimer, ottima performance, le faremo sapere.
E’ ingiusto! – ti tolse il cappotto e il cappello,
gettandosi a peso morto accanto a Kurt.
- Quindi le hanno dato la parte? –
- No, certo che no! Lo sapremo sabato mattina. Ma erano così
entusiasti per lei –
- Vedrai, sceglieranno te – mormorò lui.
- Speriamo –
Seguirono un paio di minuti di silenzio, spezzati solamente dal suono
del cucchiaio che affondava nel gelato per poi andare nella bocca di
Kurt, e in sottofondo dalle voci della soap opera.
- Stai mangiando gelato – notò Rachel.
- Ottima intuizione, Sherlock
–
- Tu non mangi mai gelato –
- Sono solo stanco. E depresso –
- Perchè? –
- Mhm
nessun motivo in particolare –
- C’entra Karofsky –
- Forse –
- La mia non era una domanda, Kurt. Ne vuoi parlare? –
- Non è niente di che – disse – davvero
– aggiunse, tentando di convincere la coinquilina.
- Sicuro? Dubito che mangiare tutto il gelato ti sia di sollievo
–
- Me ne pentirò domani mattina –
- Non rimandare a domani quello che potresti fare oggi –
recitò la ragazza con tono petulante.
- Promettimi che non commenterai –
- Certo, sai che ti puoi fidare –
- Non sono andato all’appuntamento –
- Che appuntamento? – chiese lei interrogativa.
- Ogni giovedì pomeriggio, alle diciasette e un quarto io e
David andiamo a berci un caffè –
- Insieme? –
- Non sono andato oggi – ripetè, ignorando la
domanda precedente.
- Non capisco, perchè? –
- Perché avevo paura – disse secco.
- Di cosa? Oh,
non ti avrà minacciato di morte, vero? –
esclamò allarmata.
- No, anzi –
- E allora perché? – Kurt la guardò,
incapace di dirlo. E Rachel ricambiò lo sguardo, accigliata,
poi sgranò gli occhi.
- Lo sapevo!
Te l’avevo detto. Da quant’è che vanno
avanti questi appuntamenti? –
- Quasi cinque mesi –
- Cinque mesi,
e non me l’hai mai detto? –
- Rachel ti prego, fai l’amica gelosa in un’altra
occasione – disse posando il gelato sul tavolino e passandosi
una mano sul viso.
- Mi ha chiamato tre volte – disse poi.
- Cosa gli hai detto? –
- Non gli ho risposto –
- Mi fa un po’ pena, ora, Karofsky. Una misera spiegazione se
la merita anche lui. Scrivigli che ti dispiace e che hai avuto un
contrattempo –
- Non mi piace mentire –
- Bè
perché non vai a parlargli? – Kurt la
guardò come se fosse una pazza criminale.
- Dimmi che stai scherzando -
- Perché no? Meglio che poltrire e ingrassare su questo
divano, non credi? –
Kurt rimase davanti alla porta dell’appartamento 52 per un
tempo che gli parve infinito, incapace di bussare.
Era uscito di corsa, maledicendosi ad ogni passo, aveva preso un taxi
ed era finito lì, davanti alla porta
dell’appartamento di David Karofsky. E lì si era
fermato, indeciso sul da farsi.
- Caro, dovresti bussare – disse una voce tremula. Kurt si
voltò di scatto, spaventato.
- Non credo la porta si apra da sola – continuò la
vecchietta affacciata dalla porta dell’appartamento di fronte
al numero 52.
- Uhm,
sì, grazie signora. Mi osserva da molto? –
domandò incuriosito.
- Quanto basta per capire che non sai se bussare o meno –
- Ha visto se... se David è in casa? –
La vecchietta annuì – E’ divertente
spiare quel giovanotto, sai? E’ tornato a casa prima oggi, e
non sembrava molto felice, povero caro. E’ gentile, un
po’ scorbutico, ma mi aiuta sempre se ho qualcosa da
aggiustare in casa. Poi mi chiede sempre di prestargli le mie riviste
–
- Non le pesca dalla sua spazzatura, signora? – chiese Kurt
stupidamente, senza pensare.
- Che cosa stai dicendo, caro? –
- Nulla, nulla –
- Sei un suo amico? –
- Più o meno – farfugliò preso in
contropiede – devo scusarmi con lui per una cosa –
- Allora ti consiglio di bussare – gli sorrise –
buona serata – e rientrò in casa.
Kurt si voltò consapevole che la vecchia lo stesse ancora
guardando dallo spioncino. Respirò a fondo e
bussò due volte, chiudendo gli occhi.
Sentì dei passi oltre la porta, la serratura scattare e si
ritrovò davanti David Karofsky.
- Ciao – disse, intimorito.
- Sono le dieci e mezza, tra dieci minuti inizia la partita, quindi se
devi dire qualcosa fallo in fretta – disse bruscamente.
- Mi dispiace – esclamò Kurt non riuscendo
più a trattenersi – mi dispiace di non essere
venuto oggi – ripetè alzando la voce.
David sussultò appena e si spostò
dall’uscio, fecendolo entrare nell’appartamento.
- C’è gente che dorme e la tua voce da donnetta
non è il massimo – borbottò richiudendo
la porta dietro Kurt.
- E’ acuta, non è da donnetta – lo
corresse quest’ultimo punto sul vivo.
- E’ uguale –
- Ascolta, David, mi dispiace di non essere venuto oggi –
- Ti ci sono volute cinque ore per realizzarlo? Una chiamata e non mi
sarei disturbato a prendere tre taxi – disse seriamente, le
mani nelle tasche dei pantaloni della tuta.
Kurt si morse il labbro evitando di guardarlo in faccia e guardandosi
intorno, cercando qualcos’altro da dire;
l’appartamento di David era decisamente
maschile, certificati e diplomi, palloni da football firmati, bottiglie
di birra aperte sul tavolo, televisione accesa, i resti di una cena
cinese e qualche tazza sporca nel lavello. Però era pulito.
- Mi dispiace – ripetè per la quarta volta nel
giro di quattro minuti.
- Ti si è incantato il disco? – domandò
l’altro inspirando, spazientito – Non
m’interessa se avevi altri programmi o qualsiasi altra cosa
da fatina –
- Me ne sono andato perché ero spaventato, non
perché non volessi o avessi altro da fare –
precisò, arretrando appena inconsapevolmente.
- Terrorizzato da cosa? – domandò
l’altro non capendo – non mi pare di averti
minacciato ultimamente – aggiunse con un sorriso amaro.
- N-no, assolutamente – balbettò Kurt,
tormentandosi il labbro con gli incisivi.
Karofsky sospirò passandosi una mano tra i capelli corti,
rassegnato.
- Senti, perché non pensi a quello che devi dire? Non ho
tutta la serata per ascoltare le tue frasi sconnesse, fatina
– fece per riaprire la porta, congedandolo che Kurt lo
fermò, afferrandolo per un polso, sollevandosi sulle punte
dei piedi e sfiorando le labbra di David con le sue.
Il contatto non durò più di un secondo ma, quando
si allontanarono, ad entrambi sembrò essere passata
un’eternità.
Karofsky fissò Kurt tra il sorpreso e il confuso e Kurt, dal
canto suo, si limitò ad arrossire e a farfugliare qualcosa
d’incomprensibile.
- F-forse è meglio se me ne vado –
biascicò poi, indicando la porta.
- Non credo – David si chinò su di lui e fece
scontrare bruscamente le loro labbra, strappando un gemito di sorpresa
all’altro che gli prese il volto tra le mani. Si
allontanarono appena, necessitando ossigeno, e si guardarono con gli
occhi lucidi.
- Dio,
volevo farlo da anni – ansimò Karofsky baciandolo
con impeto, cingendogli la vita con le braccia e attirandolo a
sé. Kurt portò le braccia al suo collo,
approfondendo il bacio.
Sentirono il fischio d’inizio della partita alla televisione.
- E’... è iniziata – soffiò
Kurt senza fiato.
- Al diavolo anche la partita, ho altri progetti per questa sera, fatina –
ringhiò David scendendo a baciargli collo.
Kurt buttò la testa all’indietro gemendo.
- Oh,
c-concordo –
Bip*
Segreteria telefonica di
Kut Hummel, prego lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.
Bip
"Kurt! Sono Rachel, ti
prego dimmi che sei vivo e vegeto! Non potrei mai sopportare l'idea di
averti mandato diritto diritto verso la morte. Per favore, richiamami"
Bip*
***
Vi meritate un premio se siete riusciti a giungere fino alla fine senza
subire danni. Spero di avervi strappato almeno un sorrisino :3
Se aveste dubbi, note, consigli, correzioni, non esitate a farmelo
sapere.
Grazie mille per aver letto,
alla prossima
hiccup
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