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ATTENZIONE!
Vitotal
NON È
una storia per stomaci delicati.
E' violenta, e gli argomenti che verranno trattati non saranno,
diciamo, felici. Se siete impressionabili, allora probabilmente
questa storia non fa per voi. Per tutti gli altri invece, buona
lettura.
COLONNA
SONORA!
Si
riprende questa usanza a me tanto cara. Per chi vuole, questo
capitolo avrebbe una sua colonna sonora. Si tratta di “Numb” di
Alanis Morisette.
CAPITOLO
3
Hannibal
*
Siete
il trofeo.
Una manciata di semplici parole; un mare sconfinato di
nausea, di pugni nello stomaco, di immagini che neppure la mente
aveva il fegato di affrontare.
Gemma se ne restò lì, immobile, a fare i conti con ciò
che quelle tre parole avevano aperto in lei, le mani legate dietro la
schiena e il cuore che avrebbe voluto gridare per il disgusto. E
poi... poi c'era l'altro cuore, quello innamorato; quello costretto a
vivere nella disperata sete di un'opportunità. Quel cuore che non
era disposto a cedere.
La
dignità in cambio della vita di Curtis.
Fu imposto loro il silenzio.
Mentre Agatha si intratteneva in compagnia di alcuni
uomini in giacca e cravatta, con un occhio sempre e comunque puntato
su di loro – perché non poteva mai accadere che quella donna le
lasciasse da sole, naturalmente -, Gemma trovò il coraggio di alzare
lo sguardo.
Guardò quell'umana desolazione che le si apriva
davanti, le facce di quelle persone attorno a lei; volti di uomini e
di donne comuni, in apparenza proprio come lei, corrosi talmente a
fondo dal Vitotal da essere lì, in quell'albergo di facciata in cui
si vendeva ogni tipo di piacere. Persino quello del sangue. E poi...
Poi guardò di sotto.
Mentre tutte le donne del suo gruppo restavano con lo
sguardo basso, proprio come era stato detto loro da Agatha, Gemma
allungò il collo quanto più possibile per guardare oltre la
balaustra. Non vide molto, naturalmente: ogni tanto qualche braccio,
una porzione di schiena, la luce argentata di un'arma bianca.
Hannibal,
Hannibal!, chiamava
a gran voce la folla, questo sì che Gemma riusciva a vederlo. Più
a fondo, Hannibal! Più violento! Più sangue, più carne, più
rabbia, e smembra e spezza e massacra come se non dovesse morire!
E in qualche modo, forse, quella gente s'era dimenticata che quel
povero diavolo davvero non poteva farlo.
Quel pensiero fu letteralmente agghiacciante.
E
noi dovremmo essere il trofeo di queste bestie?
Fu un attimo, un istante breve e tremendo in cui la
disperazione per se stessa ebbe la meglio su quella per Curtis, e
ricordarsi di lui fu un po' meno semplice. Probabilmente si sarebbe
vergognata di quella debolezza, se non ci fossero state quelle grida.
Quegli urli terrificanti che provenivano dal centro dell'arena, il
campo del massacro.
Erano grida disumane, grida che non potevano in alcun
modo appartenere a una persona normale, non in normali condizioni.
Erano grida strappate da morsi di bestia; il rumore di un'anima che
veniva lacerata dal corpo assieme alla carne.
«Buon Dio, che cosa
sta succedendo lì sotto?»
Perfino la folla era
rimasta ammutolita. C'era ancora un lieve chiacchiericcio, per lo più
di qualcuno incredulo e sgomento, ma gli altri... Le altre persone
erano senza parole, sui loro volti un'espressione sgomenta che
probabilmente era la stessa che aveva anche lei.
«Che cosa succede?»
questa volta Gemma si rivolse alla donna che le stava accanto, anche
lei prigioniera strappata al calore della sua casa, una ragazza
trentenne che la guardò torva.
«Cosa vuoi che ne
sappia, io? Si staranno ammazzando, o almeno mi piacerebbe tanto.»
Gemma fu sul punto
di ribattere qualcosa di altrettanto inacidito, quando il movimento
repentino di Agatha attirò la sua attenzione. A insospettire Gemma
non fu semplicemente la velocità con cui si congedò dall'uomo con
cui stava parlando fino a poco prima, tutta sorrisi calibrati e
tocchi leggeri, ma anche – e soprattutto – la luce preoccupata
che le aveva acceso lo sguardo nel momento in cui le era cascato
l'occhio sull'arena. Aveva visto qualcosa, lì dentro. Aveva visto
ciò che aveva scatenato le grida atroci di quel gladiatore, e tanto
era bastato per farla sbiancare.
Seguirono momenti
confusi, attimi in cui quelle grida s'intrecciarono al
chiacchiericcio della folla. Minuti in cui le persone andarono avanti
e indietro, cercando posizioni migliori da cui poter guardare di
sotto; istanti in cui le guardie appostate vicino alle porte si
fiondarono giù per le scale, verso la pancia dell'arena ingravidata
di sangue.
Gemma non perse mai
di vista Agatha, neppure per un attimo. Nemmeno quando andò a
parlare con il ragazzo che le aveva fatte scendere dai camion
soltanto poche ore prima, quando erano arrivate all'Overlook. Allen,
se non sbagliava a ricordare il suo nome.
Quando le
raggiunsero, quel cruccio preoccupato non era ancora sparito dal viso
di Agatha e soltanto allora, guardandola così pensierosa, Gemma si
accorse che la vita lì dentro le aveva procurato più di qualche
ruga.
«L'incontro è
finito. Ha vinto Hannibal, com'era prevedibile.»
«Ha vinto per
forza, non c'era rimasto molto altro contro cui lottare» commentò
Allen con un'alzata di spalle.
«Chi è Hannibal?»
domandò Gemma, incapace di tacere. Quel nome era rimbalzato
continuamente sulla bocca del pubblico, l'aveva fomentato come se
fosse una bestia, per lasciarlo quindi ammutolito e disorientato. Una
reazione affatto normale.
«E questa?» Allen
la avvicinò, salvo poi voltarsi verso Agatha. «Cos'è, adesso fai
la guida alle puttane?»
Lei gli rivolse un
sorriso largo, tirato agli estremi della minaccia velata, trentadue
denti esposti tanto quanto le sue intenzioni. «Non parlare a una
puttana di altre puttane con quel tono, Allen. Puzzi ancora da latte,
ma fai già certe porcate che ti varrebbero di certo una punizione,
se il signor Benedict lo venisse a sapere.»
Una frase ben
assestata che bastò per metterlo a tacere, anche se Gemma poté
giurare di scorgere una certa irruenza, una fame di rivalsa in quel
ragazzo così giovane e già così irrimediabilmente incastrato dal
Vitotal. Aveva degli occhi grandi e luminosi, bellissimi, pieni di
una tempesta d'orgoglio che non si sarebbe accontentata di restare
soppressa nel silenzio. Il suo era uno sguardo di chi avrebbe
facilmente portato guai.
Ma quelli veri –
quelli impellenti, quei problemi affilati e pericolosi, quei guai
inevitabili che si sarebbero frapposti tra lei e l'obiettivo che
Gemma inseguiva -, beh, quelli li chiamò Agatha.
«Sono entrati a
pulire l'arena. Tra poco Hannibal sarà qui.»
*
Lo fecero salire in ascensore, scortato da due agenti
che impugnavano pistole elettriche in grado di tramortire un bestione
tre volte più grande di lui. Entrò nel piano più alto dell'arena,
nel trionfo della folla perduta in un delirio malato; zuppo di sangue
dalla testa ai piedi, il volto ridotto a un'alternanza disgustosa di
chiazze e schizzi, la bocca sporca dalle labbra agli zigomi, in
rivoli che gocciolavano corposi lungo il mento.
Gemma restò raggelata quando lo vide attraversare la
porta: aveva ancora il suo nome nelle orecchie, gridato al vuoto come
se fosse quello di un eroe, ma vedere quale fosse il viso che portava
quel nome...
E
questo dovrebbe essere un uomo?
Non riusciva a distinguere le fattezze del volto di
Hannibal: tutto il sangue che portava addosso gli cancellava i
lineamenti, rendendoli spaventosamente vicini a quelli di un demone
fatto di fiamme e oscurità. A turbarla più di qualunque altra cosa
avesse visto in lui, però, era la luce che gli accendeva gli occhi.
Più
del sangue concentrato sulla sua bocca – Dio, non voleva neppure
pensare a come avesse fatto a finire proprio lì
-, più di quello che gli imbrattava il petto nudo e i pantaloni
bianchi, più dei suoi capelli biondi rappresi in ciocche grumose e
sanguinolente, erano i suoi occhi castani a sconvolgerla. Sembravano
guardare ciò che gli stava attorno senza vederlo davvero, quasi che
il mondo circostante non fosse altro che una sequenza di immagini
senza senso; perduti in un mondo che apparteneva a lui e a nessun
altro, a un mondo che gli stava dentro e che non avrebbe mai potuto
espandersi al di fuori dei confini del suo corpo. In quel mondo in
cui ribolliva la violenza, la stessa che aveva sfogato nell'arena;
quella che annegava la sua bocca nel sangue e che, persino in quel
momento di trionfo, spingeva il suo sguardo verso orizzonti che
nessuno di loro avrebbe mai potuto raggiungere.
Erano occhi di chi aveva venduto l'anima al diavolo.
«Dante, complimenti
per la tua vittoria. Il signor Benedict è stato trattenuto da affari
di lavoro e mi ha mandata a fare le sue veci. Vieni» Agatha gli fece
cenno di raggiungerla, sfoggiando tra le mani una boccetta di vetro
che conteneva chissà quale liquido. «Le opzioni sono quelle di
sempre: o la morfina, oppure una donna viva da usare a tuo
piacimento.»
Usare.
Era una parola che, in quel contesto, a Gemma faceva letteralmente
ribrezzo.
Probabilmente Agatha
aveva un'idea ben precisa di quale sarebbe stata la risposta di quel
tizio – ma non si chiamava Hannibal? -, almeno a giudicare dalla
sicurezza con cui andò verso di lui, quasi a porgergli la morfina
che reggeva in mano. Ma poi... Poi quell'uomo si scostò.
Si allontanò da
Agatha, lo sguardo che puntava verso di loro - donne in fila davanti
al plotone di esecuzione. Le avvicinò nel silenzio generale, quasi
fosse una novità; quasi la scelta della morfina fosse una certezza
assodata come parte integrante dell'universo. Un passo dopo l'altro,
lento, attento a tutto quello che poteva raccogliere con gli occhi.
Passò davanti a
loro in un esame scrupoloso dei loro volti, degli sguardi intimoriti,
dei tremiti che squassavano le gambe; chiuso in un silenzio rigoroso,
l'olezzo disgustoso del sangue che lo seguiva come una compagnia
fidata e immancabile, neanche fosse stato l'angelo della morte. Nulla
sembrò accendere i suoi occhi, fino a quando non arrivò davanti a
Gemma.
Fu in quel momento,
che qualcosa in quel volto coperto dal sangue cambiò. E lo vide,
Gemma, oh se lo vide: l'istante in cui si accorse di qualcosa in lei,
quel lampo di consapevolezza, una curiosità che arrivava da chissà
dove. Era qualcosa che l'aveva bloccato lì, davanti a lei, mentre
l'intenzione di proseguire oltre l'aveva costretto a voltare soltanto
la testa nella sua direzione.
Cristo santo,
tutto ma non questo tizio!
Le si avvicinò
senza mai distogliere lo sguardo da lei. Da qualcosa che dal suo
collo spariva sotto la maglia che indossava.
Gemma mantenne la
testa alta, lo sguardo sempre puntato su di lui, mentre il cuore
batteva furioso in petto la propria fame di libertà. Avrebbe voluto
sottrarsi al suo interesse, alla sua vista, a qualunque cosa le fosse
costata quell'attenzione per la quale avrebbe davvero barattato il
proprio corpo con altri uomini, pur di sottrarsi a lui.
Farei volentieri
la puttana di centinaia di uomini, piuttosto che diventare la
proprietà di uno con tutto questo sangue addosso.
Ma poi rivide il
volto di Curtis, consumato dal cancro.
Rivide i segni neri
che gli circondavano gli occhi, rivide il suo pallore, quei chili che
il tumore si era mangiato allo stesso modo in cui gli aveva mangiato
il corpo.
Non poteva
permettersi certi pensieri.
I cedimenti non
erano concessi.
Non aveva tempo per
essere debole.
«Quanti anni hai?»
Dante - o Hannibal, o qualunque nome avesse – sfilò la collana che
le scendeva lungo la clavicola, lasciando una scia di sangue sulla
sua pelle.
Aveva le mani calde,
esattamente come il liquido vermiglio che le insozzava.
«Venticinque»
Gemma si costrinse a non cedere all'agitazione, a non scoprirsi
debole e vulnerabile; a fronteggiare qualunque cosa fosse arrivata
con la voce ferma e lo sguardo che mai avrebbe potuto vacillare. Così
lo guardò negli occhi.
Guardò
quel gladiatore, quello scherzo della natura, quel mostro ricoperto
di sangue rubato ad altri con la forza. Lo guardò negli occhi e capì
che lei, nella discoteca dove le puttane raccoglievano i clienti,
non ci sarebbe mai andata a lavorare, perché sarebbe appartenuta a
lui.
«Bene.»
Poi Dante abbassò
lo sguardo sul medaglione di Gemma che reggeva tra le mani, e
qualcosa che lei non riuscì a decifrare gli riempì gli occhi. Non
era una luce particolare, nemmeno la consapevolezza di un pensiero
ben formato. Si trattava di qualcosa di informe, qualcosa che
emergeva sul suo volto anche attraverso il colore del sangue.
Qualcosa che accompagnava il suo verdetto.
«Scelgo lei.»
«Lei? Sei sicuro?
Non preferisci la morfina?» Agatha sembrò stranita, quasi lui
l'avesse spiazzata con quella decisione. Gli si avvicinò, i tacchi
che scandivano i suoi passi, ma Dante afferrò Gemma per un braccio e
la costrinse a uscire dalla fila.
«La morfina posso
procurarmela comunque. Voglio lei.»
«Per favore...»
Gemma non sapeva neppure che cosa volesse dirgli, ma a lui non sembrò
interessare: il modo in cui le rispose aveva un che di irritato,
spazientito quasi. La guardò come se gli avesse appena fatto un
torto.
«Per
favore cosa? Tu sei un
premio, io ti ho vinta. Non c'è nessun favore da fare.»
Poi
la portò verso la balaustra, la mano impiastricciata di sangue che
scivolava sul suo braccio in una stretta che cercava di mantenere il
possesso della situazione.
La
esibì come il trofeo che Gemma era in realtà e lì, mentre
dichiarava a quel mondo folle e malato che da quel momento lei gli
apparteneva, finalmente lo vide per ciò che Hannibal era oltre il
sangue che gli schizzava il petto e gli copriva il viso: una di
quelle stesse persone che stavano distruggendo il mondo dopo la Cura,
una di quelle persone che si erano fatte consumare dal Vitotal e che
ne portavano le tracce addosso e sotto la pelle. Vide l'avidità, la
pazzia, la violenza che faceva girare il suo mondo e che regolava la
vita di quell'uomo.
La
stessa che da quel momento avrebbe piegato anche la sua.
*
NOTE
DELL'AUTRICE
Questo capitolo è decisamente breve, lo so. E' che mi
sembrava perfetto così.
Finalmente facciamo la conoscenza di Dante, detto
Hannibal per gli amici, che – posso anticiparvi – sarà un
personaggio estremamente complesso.
Che dire? Con questa long si profila all'orizzonte
un'altra storia che tratta di un amore corrosivo e doloroso, e in
qualche maniera decisamente inevitabile e chi ha già letto Obsession
sa che quando accosto l'aggettivo corrosivo ad amore non
è mai una buona cosa :P
Dal prossimo capitolo comunque conosceremo meglio
Hannibal, o meglio, inizieremo a intravedere qualcuna delle sue
numerose sfumature. Prima tra tutte – suppongo, devo farmi due
conti – del perché del suo soprannome. Però se voi avete
supposizioni fatevi pure avanti! :P
Spero ad ogni modo che la storia non vi stia annoiando:
se è così fatemelo pure sapere, io sono aperta a qualunque tipo di
osservazione e di critica!
Per chi volesse lascio i miei soliti contatti:
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A me fa sempre molto piacere poter parlare con voi,
quindi fatevi pure avanti ;)
A presto,
Brin
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