Fa
male…
Era praticamente chiusa in camera
da tre giorni. Cellulare spento, porta chiusa, finestra sbarrata e mp4 sempre
nelle orecchie per evitare di sentire il mondo fuori. Usciva di lì solo per
mangiare e per andare a scuola. Non riusciva quasi nemmeno a parlare da quanto
stava male e si rifiutava di avere contatti con chiunque non fossero i suoi
genitori. Per qualche motivo si era categoricamente rifiutata di parlare anche
con Johan.
In classe stava taciturna da una
parte e non rispondeva se Emma, Laura o Fabio la chiamavano; faceva il suo e poi
tornava a casa. Era diventata una specie di ombra, un ricordo lontano di sé
stessa.
Tutti e quattro avevano provato,
in un modo o nell’altro, a parlarle, ma lei li fissava vuota e rimaneva in
silenzio, per poi andarsene quando avevano finito di inventare scuse senza
senso. Tanto a che serviva ascoltarli? Erano solo parole al vento.
Inoltre, come se tutto ciò non
bastasse, una mattina aveva scoperto che il quaderno che aveva prestato a Fabio,
quello con il suo romanzo finito, ce l’avevano Maria, Matilde e Ginevra.
Era in bagno, chiusa in un
cubicolo a cercare di calmarsi, a cercare di fermare le lacrime, quando le aveva
sentite parlare.
“Siamo sicure che non sia qui?”
aveva chiesto Maria.
“Sì, non ti preoccupare. L’ho
vista in classe cinque minuti fa a piangere” la rassicurò Ginevra.
“Comunque secondo me è stata una
bastardata togliere quel quaderno dalla sua cartella. Non penso che siano affari
nostri” provò a dire Matilde. A quelle parole Rea aveva allungato un orecchio ed
era rimasta immobile, cercando di non fare rumore.
“Ma via, non facciamo niente di
che! Stiamo solo curiosando. E poi, se devo essere sincera, a me i segreti non
piacciono. Comunque ce l’ho qui, vediamo che scrive nei suoi appunti” disse la seconda. Lei iniziò ad
avere dei dubbi, una specie di sensazione tremenda che partiva dalle viscere.
“No, no, no, ti prego…”
“Prendi le mie mani. Questo avrebbe voluto
urlare Chiara, fragile bambina che cadeva in un abisso infinito. Questo voleva
gridare ai suoi genitori, che non si accorgevano del dolore oscuro che l’aveva
completamente inglobata; questo voleva gridare ai suoi amici, che continuavano a
vivere la propria vita senza rendersi conto che lei si stava trasformando,
giorno dopo giorno, in un essere indefinito e silenzioso. Proprio questo voleva
diventare: un’ombra che cammina tra la gente, che si mimetizza e scompare senza
lasciare traccia sulla terra, che viene risucchiata nelle viscere più profonde
del mondo per farsi dimenticare, per non dare più fastidio a quelli che non la
sopportavano, per non dover più sentire tutto il rumore al di fuori di sé che
spesso la faceva stare male. E provava a estraniarlo, a non ascoltarlo, a non
udire l’urlo di dolore delle persone che le stavano attorno e che gridavano per
la rabbia, la tristezza, la gioia, facendo un chiasso assordante, rimbombante e
terribilmente doloroso. Prendete le mie mani e fatemi rialzare, vi prego. Questa
la sua minuscola ma rumorosa richiesta di aiuto” lesse Ginevra. Rea voleva
vomitare.
“A me non starà molto simpatica,
però devo ammettere che sono parole belle” disse Maria.
“Forse un po’ troppo sofferenti,
per i miei gusti. Ma andiamo! Chi è che vive una vita schifosa in questo modo,
al giorno d’oggi?” chiese Matilde.
“Io” rispose la rossa, prendendo tutto il coraggio che
aveva in corpo. Tutte e tre si immobilizzarono nel vederla uscire dal cubicolo
con gli occhi gonfi e le mani tremanti.
“E se ti
crea qualche problema il mio dolore, sono cavoli tuoi. Restituitemi. Il. Mio.
Quaderno” ordinò. Ginevra le passò il blocco.
“Senti, non volevamo frugare…”
“Nella
mia roba? Ah, scusa, allora questo è finito nelle vostre sudice manine solo per
sbaglio. O, magari, ci è volato da solo” la bloccò. I suoi occhi
mandavano fiamme, ma la sua voce era precisa e calcolata.
“Scusaci” dissero all’unisono. Rea
le sorpassò, poi si voltò a guardarle, ferita ma orgogliosa.
“Scusaci
un cazzo. Tre stronze come voi non dovrebbero leggere certe cose non perché sono
private, no, ma perché siete così oche e impegnate a far vedere quanto siete
belle e troie che sono parole scritte al vento per voi. E non lo potete capire
che significa star male perché le vostre teste sono talmente piene di voi che
non c’è spazio per altro. Avete la profondità emotiva di una forchetta da dolce.
Ma non ve ne importa niente, giusto? Dovevate frugare, farvi gli affari miei e
poi prendermi pure in giro. La sapete una cosa? Volete conoscere me? Benissimo:
il mio ragazzo è uno stronzo, le mie sorelle anche di più, sono rimasta sola e
devo affrontare i prossimi sei mesi di studio senza uno straccio di amico; mi
odio; non faccio che piangere e piangere, giorno dopo giorno, perché non ricordo
più né mia mamma né mio papà, e non sopporto di non riuscire a focalizzare i
loro visi nella mia mente; mi nascondo da tutta una vita da persone orrende come
voi e come i vostri stupidissimi amici e, come se non bastasse, non appena
decido di fidarmi di una persona, questa decide di farmi soffrire. Avete bisogno
di altro? Adesso sfottetemi quanto volete, non me ne importa un accidente delle
vostre stronzate” urlò.
Se ne andò dal bagno lasciandole
lì, basite e in silenzio, poi si mise a correre a più non posso fuori dalla
scuola con le lacrime agli occhi e le gambe tremanti. Voleva solo scomparire
dalla faccia della terra e non tornare più, farsi inglobare dalla strada e
morire lì.
Si chiuse la porta di casa alle
spalle e crollò sul pavimento, sfinita, piangente e tremendamente stanca. Era
scappata da scuola; si era appena tirata dietro l’ira delle tre peggiori vipere
del globo terrestre; non aveva nessuno con cui parlare per fare in modo di
sfogarsi.
“Fa
male… questa solitudine che sento nel cuore mi strazia… che devo fare? Non mi è
rimasto nemmeno un amico, nessuna persona da cui andare… provo una pena
tremenda” pensò. Si trascinò in camera, dove si chiuse, e rimase seduta
in terra in stato comatoso per delle ore prima che sua madre arrivasse a
bussare. Ormai era buio e lei non si era nemmeno resa conto che la stanza aveva
bisogno di luce.
“Rea, tesoro, stai bene? Mi hanno
chiamata da scuola per dirmi che sei scappata. Che cos’è successo?” le chiese
attraverso la porta. A quelle parole le lacrime, che pensava fossero ormai
finite, ripresero a cadere incessanti, facendola singhiozzare forte.
“Rea?” chiamò di nuovo la
donna.
“Vai
via, mamma, ti prego. Non voglio vedere nessuno” la implorò a bassa voce.
Probabilmente lei non la sentì, perché continuò a picchiare sulla porta cercando
di farla uscire di lì.
“Vattene!” gridò infine, distrutta.
“Va’ via
di qui e non mi chiamare più!” le ordinò in malo modo. Sua madre rimase
basita di fronte al suo tono.
“Ma tesoro, è ora di cena, dovrai
mangiare qualcosa…”
“Non ho
fame. Adesso lasciami stare” rispose. E, per la prima volta, la donna
comprese e se ne andò.
Se ne andò sentendo anche lei un
certo dolore al cuore per sua figlia, per quella bambina che aveva accolto in
casa sua. Non la poteva abbandonare, non poteva lasciarla sola di nuovo. Anche
se ammetterlo le faceva male, lei lo sapeva perché non riusciva a rapportarsi
con gli altri. Lo sapeva… e non poteva farci niente.
Probabilmente era notte fonda
quando Rea decise di alzarsi e andare a prendere da bere. La casa era
completamente in silenzio, e le luci erano tutte spente. Magari si erano
dimenticati di lei e tutti continuavano a vivere la propria vita senza pensarla…
e, magari, adesso poteva morire in pace. Era quello che voleva, decise infine:
sparire completamente. Forse così tutto quel dolore sarebbe scomparso. C’era una
canzone che lo diceva. “E l’occhio ride
ma ti piange il cuore... Sei così bella, ma vorresti morire... Sognavi di essere
trovata, su una spiaggia di corallo una mattina dal figlio di un pirata: chissà
perché ti sei svegliata? E il mondo ride se mi piange il cuore... Sei così bella, ma vorresti sparire, in
mezzo a tutte queste facce, come se con te sparisse anche il dolore, senza
lasciare tracce!”
Ma le piccole gocce salate che
bagnarono le sue mani le fecero capire che non era vero, non voleva quello. Non
voleva andarsene, voleva superare la sofferenza, riuscire a non essere sola
almeno per una volta. Avere la forza per perdonare quelli che la facevano star
male… ecco cosa voleva.
“Mamma…
papà… dove siete? Mi sento così sola… sto tanto male…” sussurrò. E non
parlava dei suoi zii, no… stava parlando con i suoi veri genitori, quei due che
l’avevano abbandonata per primi, che per primi se n’erano andati senza dirle
niente. Era sempre stata sola, in fin dei conti. Era sempre stata costretta a
farcela da sola, a contare sulle proprie forze senza chiedere niente a nessuno.
Ma era così stanca. Perché avevano dovuto frugare tra i suoi segreti e farle
questo? Perché rubarle i quaderni? Che idioti. Che stupidi.
Si sedette al tavolo e mise la
testa tra le mani, cercando un modo per stare meglio, qualcosa che riuscisse,
forse, a toglierle un po’ di dolore.
E poi capì. Capì che un posto dove
quella sofferenza poteva essere indebolita esisteva. Era l’unico che poteva
farla star meglio.
Si alzò e uscì di casa, prendendo
solo il giacchetto e infilandosi le scarpe con il pigiama.
La mattina dopo, la prima che si
alzò fu la signora Stevens, che mise la moka a scaldare e poi andò a svegliare
le figlie. Prima si diresse da Laura, che non voleva alzarsi. La donna vide le
matite e i pennarelli sparsi sulla scrivania e capì che aveva fatto le ore
piccole disegnando.
“Forza, devi andare a scuola.
Muoviti” la spronò sorridendo.
“Altri cinque minuti” la implorò la bionda,
coprendosi la testa.
“Se quando torno non ti sei ancora
alzata uso il secchio d’acqua” l’avvertì, aprendo le finestre e facendo entrare
il sole nella camera.
Poi andò da Emma, che aveva tenuto
la musica nelle orecchie tutta la notte. Sapeva che le figlie stavano facendo
del loro meglio per non pensare a quanto si sentivano in colpa nei confronti
della sorella, e quello era il loro modo di esternare il dolore, ma questo non
la faceva comunque stare meglio. Anzi, se possibile, era quasi peggio così.
“Tesoro, è mattino” la chiamò,
scuotendola lievemente. La ragazza
aprì un occhio e sbadigliò.
“Di
già?” chiese assonnata.
“Sì. Forza, devi prepararti” le
disse. Lei si sedette sul letto e si stirò, iniziando piano, piano a
svegliarsi.
“Rea e
Laura sono già in piedi?” s’informò.
“Più o meno sì” rispose sua
madre.
“Ok,
mi vesto e arrivo”
La signora Stevens uscì e si
diresse alla camera dell’ultima ragazza. Bussò un paio di volte alla porta, ma
era chiusa dall’interno e non rispondeva nessuno.
“Rea? Rispondi” le ordinò, ma non
ebbe nessun riscontro. Iniziò a preoccuparsi.
“Ehi, svegliati!” gridò, in preda
al panico.
“Mamma, qualche problema?” le chiese Laura,
arrivando in corridoio. Emma la seguì poco dopo.
“Non mi risponde!” esclamò.
“Starà dormendo. Aspetta, vado a vedere dal
giardino” la rassicurò la bionda, mettendosi un paio di ciabatte e
uscendo nel mattino freddo.
“Rea?
Su, è giorno fatto!” la chiamò col tono più solare che riusciva a fare.
Quando si affacciò alla finestra, però, si congelò: nella stanza non c’era
nessuno.
Rientrò di corsa, col cuore in
gola.
“Non
è in camera!” esclamò. Sua madre e sua sorella sgranarono gli occhi.
“Non è possibile” sussurrò la
donna, mettendosi a cercarla in tutta la casa.
Mezz’ora dopo la ragazza non era
stata trovata, e lei si accasciò a tavola.
“Non ci credo, se n’è andata”
disse, sull’orlo delle lacrime.
“Mamma, aspetta a preoccuparti, intanto chiamo Johan e
Fabio, poi vediamo che fare. Tu non farti prendere dal panico” la spronò
Emma. La donna annuì in silenzio e lasciò che fossero le figlie ad occuparsi di
tutto. Non aveva la forza di alzarsi da lì.