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Autore: REAwhereverIgo    19/09/2012    4 recensioni
Che succederebbe se una ragazza con autostima pari allo zero si innamorasse di un bellissimo motociclista? E se le sue sorelle si mettessero in mezzo per darle una mano, rischiando di peggiorare la situazione?
Spero che questa storia sia di vostro gradimento, io di sicuro mi divertirò a scriverla! Rea
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Fa male…

 

Era praticamente chiusa in camera da tre giorni. Cellulare spento, porta chiusa, finestra sbarrata e mp4 sempre nelle orecchie per evitare di sentire il mondo fuori. Usciva di lì solo per mangiare e per andare a scuola. Non riusciva quasi nemmeno a parlare da quanto stava male e si rifiutava di avere contatti con chiunque non fossero i suoi genitori. Per qualche motivo si era categoricamente rifiutata di parlare anche con Johan.

In classe stava taciturna da una parte e non rispondeva se Emma, Laura o Fabio la chiamavano; faceva il suo e poi tornava a casa. Era diventata una specie di ombra, un ricordo lontano di sé stessa.

Tutti e quattro avevano provato, in un modo o nell’altro, a parlarle, ma lei li fissava vuota e rimaneva in silenzio, per poi andarsene quando avevano finito di inventare scuse senza senso. Tanto a che serviva ascoltarli? Erano solo parole al vento.

Inoltre, come se tutto ciò non bastasse, una mattina aveva scoperto che il quaderno che aveva prestato a Fabio, quello con il suo romanzo finito, ce l’avevano Maria, Matilde e Ginevra.

Era in bagno, chiusa in un cubicolo a cercare di calmarsi, a cercare di fermare le lacrime, quando le aveva sentite parlare.

“Siamo sicure che non sia qui?” aveva chiesto Maria.

“Sì, non ti preoccupare. L’ho vista in classe cinque minuti fa a piangere” la rassicurò Ginevra.

“Comunque secondo me è stata una bastardata togliere quel quaderno dalla sua cartella. Non penso che siano affari nostri” provò a dire Matilde. A quelle parole Rea aveva allungato un orecchio ed era rimasta immobile, cercando di non fare rumore.

“Ma via, non facciamo niente di che! Stiamo solo curiosando. E poi, se devo essere sincera, a me i segreti non piacciono. Comunque ce l’ho qui, vediamo che scrive nei suoi appunti” disse la seconda. Lei iniziò ad avere dei dubbi, una specie di sensazione tremenda che partiva dalle viscere. “No, no, no, ti prego…

Prendi le mie mani. Questo avrebbe voluto urlare Chiara, fragile bambina che cadeva in un abisso infinito. Questo voleva gridare ai suoi genitori, che non si accorgevano del dolore oscuro che l’aveva completamente inglobata; questo voleva gridare ai suoi amici, che continuavano a vivere la propria vita senza rendersi conto che lei si stava trasformando, giorno dopo giorno, in un essere indefinito e silenzioso. Proprio questo voleva diventare: un’ombra che cammina tra la gente, che si mimetizza e scompare senza lasciare traccia sulla terra, che viene risucchiata nelle viscere più profonde del mondo per farsi dimenticare, per non dare più fastidio a quelli che non la sopportavano, per non dover più sentire tutto il rumore al di fuori di sé che spesso la faceva stare male. E provava a estraniarlo, a non ascoltarlo, a non udire l’urlo di dolore delle persone che le stavano attorno e che gridavano per la rabbia, la tristezza, la gioia, facendo un chiasso assordante, rimbombante e terribilmente doloroso. Prendete le mie mani e fatemi rialzare, vi prego. Questa la sua minuscola ma rumorosa richiesta di aiuto” lesse Ginevra. Rea voleva vomitare.

“A me non starà molto simpatica, però devo ammettere che sono parole belle” disse Maria.

“Forse un po’ troppo sofferenti, per i miei gusti. Ma andiamo! Chi è che vive una vita schifosa in questo modo, al giorno d’oggi?” chiese Matilde.

Io” rispose la rossa, prendendo tutto il coraggio che aveva in corpo. Tutte e tre si immobilizzarono nel vederla uscire dal cubicolo con gli occhi gonfi e le mani tremanti.

E se ti crea qualche problema il mio dolore, sono cavoli tuoi. Restituitemi. Il. Mio. Quaderno” ordinò. Ginevra le passò il blocco.

“Senti, non volevamo frugare…”

Nella mia roba? Ah, scusa, allora questo è finito nelle vostre sudice manine solo per sbaglio. O, magari, ci è volato da solo” la bloccò. I suoi occhi mandavano fiamme, ma la sua voce era precisa e calcolata.

“Scusaci” dissero all’unisono. Rea le sorpassò, poi si voltò a guardarle, ferita ma orgogliosa.

Scusaci un cazzo. Tre stronze come voi non dovrebbero leggere certe cose non perché sono private, no, ma perché siete così oche e impegnate a far vedere quanto siete belle e troie che sono parole scritte al vento per voi. E non lo potete capire che significa star male perché le vostre teste sono talmente piene di voi che non c’è spazio per altro. Avete la profondità emotiva di una forchetta da dolce. Ma non ve ne importa niente, giusto? Dovevate frugare, farvi gli affari miei e poi prendermi pure in giro. La sapete una cosa? Volete conoscere me? Benissimo: il mio ragazzo è uno stronzo, le mie sorelle anche di più, sono rimasta sola e devo affrontare i prossimi sei mesi di studio senza uno straccio di amico; mi odio; non faccio che piangere e piangere, giorno dopo giorno, perché non ricordo più né mia mamma né mio papà, e non sopporto di non riuscire a focalizzare i loro visi nella mia mente; mi nascondo da tutta una vita da persone orrende come voi e come i vostri stupidissimi amici e, come se non bastasse, non appena decido di fidarmi di una persona, questa decide di farmi soffrire. Avete bisogno di altro? Adesso sfottetemi quanto volete, non me ne importa un accidente delle vostre stronzate” urlò.

Se ne andò dal bagno lasciandole lì, basite e in silenzio, poi si mise a correre a più non posso fuori dalla scuola con le lacrime agli occhi e le gambe tremanti. Voleva solo scomparire dalla faccia della terra e non tornare più, farsi inglobare dalla strada e morire lì.

Si chiuse la porta di casa alle spalle e crollò sul pavimento, sfinita, piangente e tremendamente stanca. Era scappata da scuola; si era appena tirata dietro l’ira delle tre peggiori vipere del globo terrestre; non aveva nessuno con cui parlare per fare in modo di sfogarsi.

Fa male… questa solitudine che sento nel cuore mi strazia… che devo fare? Non mi è rimasto nemmeno un amico, nessuna persona da cui andare… provo una pena tremenda” pensò. Si trascinò in camera, dove si chiuse, e rimase seduta in terra in stato comatoso per delle ore prima che sua madre arrivasse a bussare. Ormai era buio e lei non si era nemmeno resa conto che la stanza aveva bisogno di luce.

“Rea, tesoro, stai bene? Mi hanno chiamata da scuola per dirmi che sei scappata. Che cos’è successo?” le chiese attraverso la porta. A quelle parole le lacrime, che pensava fossero ormai finite, ripresero a cadere incessanti, facendola singhiozzare forte.

“Rea?” chiamò di nuovo la donna.

Vai via, mamma, ti prego. Non voglio vedere nessuno” la implorò a bassa voce. Probabilmente lei non la sentì, perché continuò a picchiare sulla porta cercando di farla uscire di lì.

Vattene!” gridò infine, distrutta.

Va’ via di qui e non mi chiamare più!” le ordinò in malo modo. Sua madre rimase basita di fronte al suo tono.

“Ma tesoro, è ora di cena, dovrai mangiare qualcosa…”

Non ho fame. Adesso lasciami stare” rispose. E, per la prima volta, la donna comprese e se ne andò.

Se ne andò sentendo anche lei un certo dolore al cuore per sua figlia, per quella bambina che aveva accolto in casa sua. Non la poteva abbandonare, non poteva lasciarla sola di nuovo. Anche se ammetterlo le faceva male, lei lo sapeva perché non riusciva a rapportarsi con gli altri. Lo sapeva… e non poteva farci niente.

 

 

Probabilmente era notte fonda quando Rea decise di alzarsi e andare a prendere da bere. La casa era completamente in silenzio, e le luci erano tutte spente. Magari si erano dimenticati di lei e tutti continuavano a vivere la propria vita senza pensarla… e, magari, adesso poteva morire in pace. Era quello che voleva, decise infine: sparire completamente. Forse così tutto quel dolore sarebbe scomparso. C’era una canzone che lo diceva. “E l’occhio ride ma ti piange il cuore... Sei così bella, ma vorresti morire... Sognavi di essere trovata, su una spiaggia di corallo una mattina dal figlio di un pirata: chissà perché ti sei svegliata? E il mondo ride se mi piange il cuore...  Sei così bella, ma vorresti sparire, in mezzo a tutte queste facce, come se con te sparisse anche il dolore, senza lasciare tracce!”

Ma le piccole gocce salate che bagnarono le sue mani le fecero capire che non era vero, non voleva quello. Non voleva andarsene, voleva superare la sofferenza, riuscire a non essere sola almeno per una volta. Avere la forza per perdonare quelli che la facevano star male… ecco cosa voleva.

Mamma… papà… dove siete? Mi sento così sola… sto tanto male…” sussurrò. E non parlava dei suoi zii, no… stava parlando con i suoi veri genitori, quei due che l’avevano abbandonata per primi, che per primi se n’erano andati senza dirle niente. Era sempre stata sola, in fin dei conti. Era sempre stata costretta a farcela da sola, a contare sulle proprie forze senza chiedere niente a nessuno. Ma era così stanca. Perché avevano dovuto frugare tra i suoi segreti e farle questo? Perché rubarle i quaderni? Che idioti. Che stupidi.

Si sedette al tavolo e mise la testa tra le mani, cercando un modo per stare meglio, qualcosa che riuscisse, forse, a toglierle un po’ di dolore.

E poi capì. Capì che un posto dove quella sofferenza poteva essere indebolita esisteva. Era l’unico che poteva farla star meglio.

Si alzò e uscì di casa, prendendo solo il giacchetto e infilandosi le scarpe con il pigiama.

 

 

La mattina dopo, la prima che si alzò fu la signora Stevens, che mise la moka a scaldare e poi andò a svegliare le figlie. Prima si diresse da Laura, che non voleva alzarsi. La donna vide le matite e i pennarelli sparsi sulla scrivania e capì che aveva fatto le ore piccole disegnando.

“Forza, devi andare a scuola. Muoviti” la spronò sorridendo.

Altri cinque minuti” la implorò la bionda, coprendosi la testa.

“Se quando torno non ti sei ancora alzata uso il secchio d’acqua” l’avvertì, aprendo le finestre e facendo entrare il sole nella camera.

Poi andò da Emma, che aveva tenuto la musica nelle orecchie tutta la notte. Sapeva che le figlie stavano facendo del loro meglio per non pensare a quanto si sentivano in colpa nei confronti della sorella, e quello era il loro modo di esternare il dolore, ma questo non la faceva comunque stare meglio. Anzi, se possibile, era quasi peggio così.

“Tesoro, è mattino” la chiamò, scuotendola lievemente.  La ragazza aprì un occhio e sbadigliò.

Di già?” chiese assonnata.

“Sì. Forza, devi prepararti” le disse. Lei si sedette sul letto e si stirò, iniziando piano, piano a svegliarsi.

Rea e Laura sono già in piedi?” s’informò.

“Più o meno sì” rispose sua madre.

Ok, mi vesto e arrivo

La signora Stevens uscì e si diresse alla camera dell’ultima ragazza. Bussò un paio di volte alla porta, ma era chiusa dall’interno e non rispondeva nessuno.

“Rea? Rispondi” le ordinò, ma non ebbe nessun riscontro. Iniziò a preoccuparsi.

“Ehi, svegliati!” gridò, in preda al panico.

Mamma, qualche problema?” le chiese Laura, arrivando in corridoio. Emma la seguì poco dopo.

“Non mi risponde!” esclamò.

Starà dormendo. Aspetta, vado a vedere dal giardino” la rassicurò la bionda, mettendosi un paio di ciabatte e uscendo nel mattino freddo.

Rea? Su, è giorno fatto!” la chiamò col tono più solare che riusciva a fare. Quando si affacciò alla finestra, però, si congelò: nella stanza non c’era nessuno.

Rientrò di corsa, col cuore in gola.

Non è in camera!” esclamò. Sua madre e sua sorella sgranarono gli occhi.

“Non è possibile” sussurrò la donna, mettendosi a cercarla in tutta la casa.

Mezz’ora dopo la ragazza non era stata trovata, e lei si accasciò a tavola.

“Non ci credo, se n’è andata” disse, sull’orlo delle lacrime.

Mamma, aspetta a preoccuparti, intanto chiamo Johan e Fabio, poi vediamo che fare. Tu non farti prendere dal panico” la spronò Emma. La donna annuì in silenzio e lasciò che fossero le figlie ad occuparsi di tutto. Non aveva la forza di alzarsi da lì.

 

  
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