Cercare
Rea
I signori Stevens passarono tutta
la mattina a fare telefonate a destra e manca per cercare la figlia, ma nessuno
sapeva niente. Laura, Johan, Fabio e Emma erano usciti e si erano divisi,
setacciando da cima a fondo tutto il paese, ma non ottennero risultati. Rea era
scomparsa.
A nessuno dei sei veniva in mente
un possibile posto in cui la ragazza potesse essere andata per rifugiarsi, e
nemmeno Jason, che li raggiunse appena poté, fu di qualche aiuto. Sembrava
scomparsa nel nulla.
“Cosa possiamo fare?” chiese la
madre, disperata, camminando per la cucina senza riuscire a
tranquillizzarsi.
“Per avvertire la polizia dobbiamo
aspettare ventiquattro ore, altrimenti non è considerata sparizione, quindi non
possiamo muoverci fino a domani mattina” ragionò suo marito, sospirando.
I ragazzi erano in stato
catatonico, non riuscivano a parlare. Se ne stavano seduti sul divano ad
aspettare una telefonata, colpevoli di averle causato tanto dolore. Non erano
nemmeno in grado di comprendere appieno la cosa e rendersi conto che lei era
scomparsa per causa loro.
“Dovevamo
dirle tutto subito” sospirò, sconsolato, Fabio.
“Secondo te sarebbe cambiato qualcosa? Quella testona, se
possibile, si sarebbe arrabbiata anche di più” commentò Laura. Teneva la
mano del suo fidanzato stretta nella sua e cercava un motivo per calmarsi.
“Ma forse
potevamo cambiare qualcosa, ammettendo subito la colpa! E poi, nonostante
sapessimo quanto stava male perché si sentiva abbandonata, ferita e delusa,
nella nostra arroganza abbiamo peggiorato la situazione. Penso che se ne sia
andata e con ragione” ragionò il ragazzo, prendendosi la testa tra le
mani. Emma, che era rimasta zitta fino a quel momento, sbottò.
“Certo, infatti! È colpa nostra se lei è un’idiota, vero?
E’ colpa nostra se le piace farsi del male! Dall’inizio non faccio che pensare a
quanto sia stupido che lei creda di essere stata sempre sola e abbandonata,
visto che ha noi, ma non fa altro che essere compatita e compresa! Peggio per
lei!” gridò.
Sua madre arrivò dalla cucina e le
dette uno schiaffo in pieno viso, con le lacrime agli occhi. La ragazza rimase
basita da quel gesto inaspettato, ma vide la rabbia negli occhi della donna e
non ribatté.
“La stupida sei tu, Emma” le
disse. Alzò lo sguardo per puntarlo nel suo.
“E’ normale che si senta
abbandonata! Non ci hai mai pensato, vero? Non hai mai riflettuto sul fatto che
lei è un’orfana, che i suoi genitori sono morti quando aveva quattro anni e che
è sola da allora! Non lo sai, vero, che significa perdere qualcuno di così
prossimo? Io me la ricordo la piccola Rea in lacrime che veniva da me durante la
notte e piangeva disperata perché mamma e papà l’avevano abbandonata. E io che
tentavo di non piangere, di farle vedere che andava tutto bene, e di
tranquillizzarla perché no, non era vero che loro l’avevano lasciata lì per
volontà, se n’erano andati perché l’aveva voluto qualcun altro. E come glie lo
spieghi, a una bambina di quattro anni, che i genitori sono morti? Lo sai cosa
significa? Io sento la mancanza di mia sorella ogni giorno, figurati lei” le
spiegò. Emma si toccò la guancia, poi si mise a piangere disperata, gettandosi
tra le braccia della madre.
“Lo
so!” ammise in lacrime.
“Lo so
che ha sempre sofferto, e non dovevo dire niente, dovevo stare zitta, così non
avrebbe provato più dolore di quanto non ne provi da sola, ma non sono riuscita
a pensare, non volevo! Non volevo che piangesse ancora, che pensasse di nuovo di
essere sola. È colpa mia” disse. La donna l’abbracciò, stringendola
forte.
“Si aggiusterà tutto” le promise.
Anche Laura si avvicinò a loro, tremando, e si unì a loro. Era un dolore comune,
quello di aver perso Rea, e insieme, forse, potevano sopportarlo meglio.
Mezz’ora dopo nessuno aveva ancora
dato notizie della ragazza. Fabio sapeva che c’era un dettaglio che gli
sfuggiva, qualcosa di evidente ma che non riusciva a vedere. Eppure era così
semplice.
Entrò in camera sua e si guardò
intorno: i vestiti erano sulla sedia; il letto era completamente fatto, segno
che non aveva assolutamente dormito; i suoi quaderni erano sparsi sulla
scrivania, come sempre, e un libro di poesie era aperto in terra, con il segno
su una pagina tutta piegata. Prese in mano il volume e lesse.
Non sto pensando a niente
Non sto pensando a niente,
e questa cosa centrale,
che a sua volta non è niente,
mi è gradita come l'aria notturna,
fresca
in confronto all'estate calda del giorno.
Che bello, non sto pensando
a niente!
Non pensare a niente
è
avere l'anima propria e intera.
Non pensare a niente
è vivere
intimamente
il flusso e riflusso della vita...
Non sto pensando a niente.
E' come se mi fossi appoggiato male.
Un dolore nella schiena o sul
fianco,
un sapore amaro nella bocca della mia anima:
perché, in fin dei
conti,
non sto pensando a niente,
ma proprio a niente,
a
niente...
- Fernando Pessoa
“Da
quando in qua leggi Pessoa?” le chiese, ipoteticamente. Rimise a posto il
libro, chiudendolo per bene e appoggiandolo sul letto, poi si sedette alla
scrivania e sfogliò distrattamente le pagine, senza leggerle sul serio. Non gli
importavano più i suoi segreti, ormai. Aveva solo peggiorato le cose nel voler
entrare a tutti i costi nella sua vita, lo sapeva benissimo. Vide una poesia
scritta a mano da lei sul diario.
“Dieci cose che
odio di te –dal film” era il titolo.
“Odio il modo in
cui mi parli. E il tuo taglio di capelli.
Odio il modo in cui guidi la mia
macchina. Odio quando mi fissi.
Odio I tuoi stupidi anfibi. E il modo in cui
leggi la mia mente.
Ti odio talmente tanto che mi fa star male - E mi fa
anche scrivere poesie.
Odio il modo in cui hai sempre ragione. Odio quando
menti.
Odio quando mi fai ridere - ancora peggio quando mi fai
piangere.
Odio quando non ci sei. E il fatto che tu non abbia chiamato.
Ma
la cosa che odio di più è il fatto che io non riesca a odiarti - nemmeno
lontanmente, nemmeno un po', proprio per niente.”
E, subito accanto, un suo appunto.
“Stupido Fabio!” sorrise nel leggere ciò, e
rise di gusto nel pensarla che scriveva quella frase. Per un istante gli parve
che fosse lì. “Lo vedi, a fare di testa tua? Io ti
avevo avvertito di non ferirmi, idiota!” gli avrebbe detto col suo tono
arrogante e arrabbiato. Gli mancava. Gli mancava più di quanto avrebbe mai
potuto ammettere, più di quanto avrebbe mai potuto pensare. Lo sentiva nelle
ossa.
“Dove
sei?” le chiese. E poi, sfogliando il diario la trovò. Trovò quel
tassello mancante che aveva avuto davanti tutto il tempo. La prese e corse in
cucina.
“Non è possibile” disse la signora
Stevens, allontanando il foglio.
“Sì,
invece. Ecco dov’è, lei è qui” continuava ad affermare Fabio con
convinzione.
“Ma non ha senso! Non è mai voluta
venire con noi per non piangere” lo contraddisse il padre.
“Pensate
che potrebbe stare peggio di come sta già?” domandò retoricamente.
“No, però è comunque strano”
ammise la madre.
“Ascoltatemi, se ragioniamo come ragiona lei non è così
strano. Rea sta male, e tutti sappiamo che il suo dolore principale, anche se
non lo ammette, viene da qui. Viene da questo momento particolare della sua
vita, che lei ha vissuto come qualcosa che non le appartiene davvero. E, dato
che tutto parte da qui, da quest’avvenimento, è qui che lei è andata a ritrovare
le risposte. Qui l’ha riportata la sua vita” spiegò. Si guardarono tutti
confusi, poi la donna annuì.
“Ok, va bene, ammettiamo che sia
come dici tu. Come facciamo per riportarla a casa? Lei se n’è andata di sua
spontanea volontà, non credo che sia disposta a tornare così semplicemente,
altrimenti sarebbe già rientrata” domandò.
“Noi non
faremo proprio un bel niente. Siete voi a doverci parlare, signora Stevens. Lei
e suo marito, o anche solo uno dei due. Se c’è qualcuno che può capirla e
aiutarla, siete solo voi due” le rispose. I due si guardarono
preoccupati, ma sapevano che quel ragazzo aveva ragione.
Sospirò e si alzò.
“Va bene, ma se non la troviamo
nemmeno lì cosa possiamo fare? Dove possiamo cercare?” chiese. Fabio le mise una
mano sulla spalla.
“Ci
penseremo poi, ma io sono sicuro che lei è lì ad aspettare qualcosa. O qualcuno,
non so. Forse sta solo cercando le risposte che le servono per sorridere di
nuovo, o forse sta pensando a come fare per essere felice, ma io sento che lei è
lì. E l’unica che può aiutarla è lei” le assicurò. La donna lo abbracciò
forte.
“Sei un caro ragazzo, non importa
ciò che Rea pensa. E sono sicura che perdonerà tutti voi, una volta fatta
chiarezza nella sua vita” gli disse.
Lei e il marito si misero i
cappotti e uscirono di casa, infilandosi nel freddo di gennaio. Lanciarono la
macchina a tutta velocità sulla strada, per poi parcheggiare in malo modo
davanti al gigantesco cancello di ferro. L’uomo prese la mano alla moglie.
“Spero che stia bene” ammise. Lei
sorrise.
“Sono certa che sta bene, come
sono certa che tornerà a casa con noi” lo tranquillizzò.
“E se non volesse? Ha diciotto
anni e può decidere di andarsene” chiese preoccupato.
“Non lo farà. Sa di essere amata
come e più di Laura e Emma, sta solo passando un momento in cui non regge più il
dolore che ha in corpo. Ha bisogno di piangere fino allo sfinimento, stavolta
con qualcuno che l’ascolti e la conforti. È di questo che nostra figlia ha
bisogno” affermò convinta.
“Però lei non si considera nostra
figlia” ribatté l’uomo. La signora Stevens lo guardò dritto negli occhi.
“Non mi interessa ciò che pensa,
ciò che dice o ciò che fa, Rea è, è stata e sarà sempre mia figlia. L’ho
promesso a mia sorella, che mi sarei presa cura di lei fino alla morte, e non
intendo venir meno alla promessa fatta. Era il nostro patto di sangue: l’una per
l’altra, ora e per sempre. E so che ciò che vorrebbe Valeria non è che noi
lasciamo sola quella bambina che amava tanto” lo sgridò. Lui sospirò.
“Hai ragione, tesoro” ammise,
baciandola lievemente. Si strinsero le mani.
“Sei pronto?” gli chiese la donna,
sentendo il cuore battere forte. L’uomo annuì.
“Andiamo a riportare a casa nostra
figlia” le rispose, varcando il cancello.