Il
sogno
I piedi di Rea si erano mossi da
soli, lei non si rendeva quasi conto di dove stava andando. Era notte fonda, ma
non aveva paura come al solito, perché, se anche le fosse successo qualcosa, non
le importava. Ormai non le importava più di nulla, voleva solo trovare un modo
per stare meglio.
Probabilmente era troppo presto,
perché i cancelli erano ancora chiusi e non c’era nessuno nei dintorni, così si
sedette sul muretto del marciapiede e attese. Faceva freddo e si strinse nel
pesante giacchetto che aveva addosso. Non era l’ideale avere solo quello e il
pigiama indosso a gennaio e, soprattutto, alle sei del mattino. Nemmeno il sole
era ancora uscito fuori, figuriamoci.
Rimase in attesa quasi un’ora,
sentendo le ossa congelarsi e la gola dolere. Forse non era stata una buona
idea, in fin dei conti.
Il guardiano arrivò intorno alle
sette, e sgranò gli occhi quando la vide.
“Non sei mai venuta” la salutò. Lo
conosceva, per caso?
“Come
scusi?” chiese confusa. L’uomo le prese il viso e la guardò.
“Sapevo che prima o poi saresti
arrivata. Lo avevo detto a tua zia” le spiegò. Pareva sapere chi lei fosse.
“Ma mi
conosce?” s’informò la ragazza, leggermente preoccupata. Il signore annuì
gravemente.
“Io mi ricordo di te” rispose,
lasciandola andare. Aprì un piccolo casotto e vi entrò, per poi uscirne con una
coperta in mano.
“Sei congelata, mettiti questa” le
disse, coprendole le spalle. Rea era stupita da tanto calore, ma non proferì
parola.
“So perché sei qui, quindi
seguimi” le ordinò. Non aveva senso, tutto questo non aveva nessun senso, ma la
ragazza era stanca e affaticata, e non ce la faceva a controbattere.
Le pietre, alla luce della
lanterna del guardiano, erano spettrali. “Bel gioco di parole” commentò la sua
testa. Le parole incise sopra di esse brillavano quando loro passavano, evocando
nomi di persone scomparse. C’era un senso tremendo di morte e nostalgia, lo si
poteva quasi toccare con mano.
“Le tombe sono quelle” le indicò
l’uomo, illuminando due lastre di marmo nero. Sopra c’erano le foto dei suoi
genitori, sorridenti e spensierati.
Vivi. Le venne da piangere a vederli lì, in quelle due piccole cornici
bianche un po’ consumate dalle intemperie.
Si inginocchiò di fronte alle
lapidi e lesse la scritta. Era la stessa per entrambi.
“Qui riposano
Valeria e Francesco. Amici validi, genitori stupendi e persone meravigliose. Con
tutto l’affetto di questo mondo” pronunciò Rea ad alta voce.
“Tua zia viene qui ogni settimana
a cambiare i fiori” la informò il guardiano, indicandole i due vasi di rose che
riposavano placidi vicino alle foto. Erano così belle che stonavano in quel
posto.
“Può
lasciarmi sola?” gli chiese la ragazza, guardandolo supplicante.
“Sei hai bisogno vieni pure a
cercarmi, io sono qui vicino” le rispose lui, andandosene.
Una volta rimasta sola, lei si
mise a piangere.
“Mamma…
papà…” sussurrò con voce tremante. Dio, quanto gli mancavano. Erano un
pezzo del suo cuore che si era staccato ed era rimasto lì, sepolto nel marmo.
Come mai loro per primi l’avevano abbandonata? Non era giusto che una bambina di
quattro anni rimanesse sola così, da un giorno all’altro.
Si sentì mancare il respiro e il
cuore iniziò a batterle forte in petto. Forse stava morendo. Era il posto
migliore, in fin dei conti, un cimitero. Ma non voleva. Nonostante pensasse di
voler far terminare quel dolore che la stava consumando dall’interno, non voleva
assolutamente morire. Doveva combattere contro sé stessa per riuscire ad
arrivare almeno dal guardiano, ma non riusciva ad alzarsi in piedi.
“Aiuto…” sussurrò. Strinse i denti e, con tutta la
forza che aveva in corpo, aprì la bocca.
“Aiutatemi!” esclamò, sperando che l’uomo la sentisse
e andasse da lei. Fu l’ultimo sforzo che riuscì a fare prima di accasciarsi
sulla tomba di sua madre.
Riconosceva il posto in cui si
trovava. Era la sua vecchia casa, quella in cui era stata per i primi anni della
sua vita. E lei era in camera sua, sdraiata nel piccolo letto rosa e bianco in
cui, tante volte, aveva ascoltato sua madre cantare le ninnananne per lei.
Strano però… si ricordava che fosse molto piccolo, adatto a una bambina di
quattro anni. Va bene, non era proprio enorme, a diciannove anni era piuttosto
piccina, ma non era possibile stare così larghi in una brandina per infanti.
Si mise a sedere e si guardò
intorno, per capire come mai tutto fosse esattamente della stessa misura di
allora, e gridò quando si vide riflessa nello specchio.
“Oddio mio!” esclamò. Si toccò i
capelli, lunghi e sottili, e si guardò le mani, piccole e affusolate. Che
diavolo, non aveva i capelli lunghi da decenni! Ormai li portava poco sotto alle
spalle, non più fino a fine schiena come allora.
“Ti sei svegliata” osservò una
voce dalla porta. Lei sobbalzò e si voltò spaventata.
“Ma…
mamma?!” chiese stupita. Era proprio lei: i capelli neri corti fino al
collo; gli occhiali celesti che contornavano le iridi color nocciola, più chiare
delle sue; il maglione azzurro che la faceva sembrare piccolissima al suo
interno e i pantaloni rossi che cozzavano tremendamente con la maglia, ma che a
Rea erano sempre piaciuti perché erano suoi, e profumavano di lei.
La donna annuì sorridendo, a aprì
le braccia per accoglierla quando Rea si precipitò ad abbracciarla.
“Mamma,
mamma, mamma…” continuava a ripetere. Le arrivava a mala pena alla
pancia, ma la stringeva forte anche se aveva solo quattro anni ed era minuscola.
Non voleva più lasciarla andare.
“Mamma,
ho fatto un sogno terribile! Ho fatto un incubo” le disse piangendo. La
donna la allontanò e si inginocchiò di fronte a lei.
“Come sei bella, tesoro mio” le
rispose. La ragazza non capì quella risposta.
“Immagino che tu veda una bambina
di quattro anni, vero?” le chiese sua madre, sorridendo. Lei annuì.
“Oh, piccola mia. Quanto mi sei
mancata” esclamò, abbracciandola ancora.
Rea non fece domande, ma pianse
aggrappata al suo collo, in silenzio.
“Ciao amore” disse un uomo,
arrivando dal corridoio. Lei sgranò gli occhi e si allontanò da Valeria, che si
asciugò una lacrima e la spinse verso di lui.
“Papà!” esclamò la rossa, stringendo anche Francesco.
Erano lì, c’erano sul serio: i suoi genitori erano vicini a lei e la stavano
abbracciando, le stavano sorridendo davvero. E lei piangeva, di felicità, perché
era stato tutto un sogno, lei non era un’orfana, ma aveva un padre e una madre
biologici, non li aveva perduti mai.
Dopo un tempo infinito in cui
tutti e tre erano rimasti in silenzio, la donna fissò il marito.
“Rea, tesoro, ci sei mancata
tanto” le disse, asciugandole le guance rosee.
“Ma non
mi sono mossa! Però ho avuto un incubo tremendo!” ribatté lei, tirando su
col naso. I due si guardarono un attimo, poi si inginocchiarono a terra per
essere alla sua altezza.
“No, amore, non è così” la
corresse il padre. La ragazza non capì.
“Sì, è
così. Io ho sognato che voi eravate morti, che io rimanevo sola e che zia e zio
mi adottavano. Però stavo tanto male e volevo morire…” spiegò, sentendo
formarsi un groppo in gola.
“Piccola mia, devi aver sofferto
così tanto” commentò sua madre. Qualche lacrima scese dai suoi occhi, ma se le
asciugò subito e tornò a sorridere.
“E ci dispiace davvero molto”
aggiunse il marito, abbracciandola di nuovo. Rea si allontanò bruscamente e li
guardò con gli occhi sgranati, scuotendo la testa.
“No, non
dovete dire così. Voi siete qui, era un incubo, non… non è successo sul
serio” balbettò in preda al panico.
“Questo è un sogno, amore. Solo un
sogno” le spiegò sua madre.
“No! No,
non lo è! Io non ho sofferto, voi non siete mai morti… io ho quattro
anni…” si mise a piangere, disperata e triste.
“Questo
non è un sogno” sussurrò, sperandoci sul serio.
“Ci dispiace, Rea. Ci dispiace che
tu abbia provato tanto dolore, e ci dispiace che tu sia rimasta sola così
giovane, siamo così tristi nel pensare che hai affrontato gli ultimi quindici
anni senza di noi” disse il padre. Lei si tappò le orecchie.
“Non
voglio sentire! Voglio che questa sia la realtà, che sia tutto vero!”
gridò. Però sapeva benissimo che non era così, che tutto ciò era solo una sua
fantasia. Loro erano stati strappati al suo abbraccio da un incidente, e non
poteva negarlo nemmeno volendo.
“Ma non
lo è, giusto?” sussurrò poi, abbassando le mani. Alzò gli occhi su di
loro, su suo padre e sua madre, e le lacrime le annebbiarono la vista quando
loro annuirono.
“Capisco” disse semplicemente. Rimase in silenzio a
fissare la sua immagine riflessa nello specchio, e si sentì morire: era tutto
come allora. Tutto quanto come quindici anni prima, dal suo corpo alla sua
stanza. Ma era tutto finto, era tutto solo una stupidissima immaginazione della
sua mente.
“Quindi
cos’è questo? C-come mai voi siete qui?” domandò, arrabbiata. Valeria le
mise una mano sulla spalla e la fece voltare verso di sé.
“Tesoro, sei stata tu a volerci.
Anche se non te ne sei resa conto, anche se hai rifiutato, in tutti questi anni,
di ammettere di soffrire per noi. Questa è tua, vero?” le passò la lettera che
aveva scritto il mese prima, e Rea la prese con le dita tremanti.
“Voi mi
avete abbandonata…” balbettò, ferita e triste. Lanciò il figlio in terra,
poi li fissò.
“Perché
ve ne siete andati? Perché mi avete lasciata sola? Non volevo questa vita, non
volevo che voi mi lasciaste, non volevo che zio e zia diventassero i miei
genitori. Io volevo voi, volevo solo voi! Ma non ci siete stati… e mi siete
mancati così tanto da stare male, da desiderare di raggiungervi in qualche modo.
Perché dobbiamo separarci ogni volta?” gridò isterica. Se quello era un
sogno avrebbe dovuto svegliarsi, lo sapeva, ma non voleva lasciarli ancora.
“Non è così” le assicurò il
padre.
“Noi non avremmo mai desiderato
lasciarti, e penso che tu lo sappia benissimo. Tu ci sei stata strappata via con
una tale forza che non ce ne siamo nemmeno accorti, ma non ti abbiamo mai
abbandonata, nemmeno una volta, nemmeno per un secondo. C’eravamo, sai? Quando
sei andata per la prima volta alle elementari… quando, di notte, canticchiavi le
ninnananne di quando eri bambina… quando scrivevi sul tuo quaderno i tuoi primi
romanzi, e anche quando hai incontrato Fabio. Ci siamo sempre stati” le
raccontò, con un sorriso malinconico sul viso immutato.
“Ma io
volevo abbracciarvi! Avrei voluto che tu, papà, mi stringessi quando tornavo a
casa con un brutto voto, e che la mamma mi assicurasse che sarebbe andato tutto
bene anche quando pensavo di non farcela… era questa la vita che volevo”
ammise tra le lacrime. Si sentiva piccola davvero, adesso.
“Però avevi mia sorella e suo
marito” le ricordò Valeria, sorridendo. Rea la fissò.
“Ma non
sono voi. Loro sono i miei zii, non sono voi. E Laura e Emma non sono mie
sorelle, sono le mie cugine. Questa è la verità, questa è la realtà dei fatti.
Io sono un ospite in quella casa” confessò.
“Non è vero” la rimproverò
Francesco.
“Loro ti hanno amata come se tu
fossi sul serio una Stevens. Come se tu fossi sul serio figlia loro, parte
integrante della famiglia. E anche quando pensavi di essere sola, si sono mossi
tutti per aiutarti, per non lasciarti cadere nel buio della tua disperazione.
Pensaci un secondo: per quanto sbagliato, Emma e Laura si sono esposte per
capire di cosa avevi bisogno per sorridere ancora” le fece presente. Ed era
vero, Rea lo sapeva, ma scosse comunque la testa.
“Io non
voglio tornare là” disse semplicemente. Entrambi i suoi genitori
sorrisero.
“Piccola mia, la vita non è
semplice, questo è vero. E lo so come ci si sente a sperare di morire, per non
soffrire più, per calmare quel vuoto che si ha nel petto. Non puoi capire quanto
io lo abbia chiesto quando avevo la tua età. Ma ora so che non è così che
funziona. Tu potresti tranquillamente toglierti la vita, questo lo sappiamo. Il
tuo grido di dolore ha raggiunto anche noi. Però non faresti altro che fare del
male a quelli che ti amano” la sgridò sua madre.
“Io non
ho qualcuno che mi ama. Le persone di cui mi sono fidata mi hanno tradita… Fabio
mi ha delusa… sono sola senza di voi!” ribatté.
“E mia sorella? Suo marito? Emma e
Laura ne soffrirebbero come pazze, lo sai. Se te lo diciamo noi che morire non è
la soluzione migliore, devi fidarti. Non sai quanto ci sentiamo male per averti
lasciata laggiù, Rea, non te ne rendi nemmeno conto. Tu eri la ragione della
nostra vita, il motivo per cui sorridevamo, la bambina che tanto avevamo cercato
e amato, e siamo stati portati via con violenza inaudita. Non sappiamo nemmeno
dove siamo, qui, ma possiamo starti accanto nonostante tutto, e tanto ci basta.
Ti abbiamo voluto così bene che non puoi nemmeno immaginare, e ti abbiamo donato
questa vita che tu adesso odi, ma non devi. La vita non si odia, non si deve
odiare mai, perché un giorno può capitare che ti venga tolta senza che tu abbia
finito di viverla, e non sai come rimediare. Io so che questo lo capisci, perché
sento che in cuor tuo sai che abbiamo ragione. Ti prego, ti imploro, non buttare
al vento la tua vita” le disse sua madre. Rea si sentì tanto meschina, tanto
cattiva nei confronti di tutti, che cadde a terra inginocchiata.
“Mi
dispiace” sussurrò, singhiozzando. Sentì il caldo abbraccio dei suoi
genitori e rimase ferma fino a quando le lacrime non furono asciugate, fino a
quando il pianto non lasciò spazio solo a una grande stanchezza.
“Mi
sento… strana…” ammise. Le forti braccia di suo padre la presero in
braccio e la fecero sdraiare sul letto, coprendola con la sua profumata coperta
rosa.
“Sai, sei diventata una ragazza
splendida. E ci manchi sempre. Ma ricordarti che siamo con te, sempre e
comunque. Non dimenticarlo mai” la salutò, scomparendo lentamente.
“No, non
andartene” sussurrò lei, allungando una mano.
“Siamo qui, tesoro. Non ti
abbandoniamo” le promise sua madre, lasciando un dolce bacio sulla fronte.
“Mamma…
papà…” li chiamò, ma gli occhi le si chiudevano, e la sua stanza stava
lentamente sparendo.
“Vi
voglio tanto bene….” li salutò, svenendo subito dopo.