Racconti
Stavolta aprì gli occhi in un
luogo che non conosceva. Era una piccola catapecchia di legno, che puzzava di
muffa e di vecchio.
“Dove
sono?” chiese.
“Ben svegliata,
piccola Simons. Era l’ora che
tu riprendessi conoscenza” la salutò il guardiano del cimitero. Rea sentì
il cuore battere forte.
“Come mi
ha chiamata?” gli chiese. Erano secoli che non sentiva quel nome, l’aveva
quasi dimenticato.
“Tu sei la
figlia di Valeria e Francesco, giusto? La piccola Rea Simons. Mi ricordo di te, anche se non
posso dire che tu ti ricordi di me” rispose. Era vero, lei non aveva idea
di chi quell’uomo fosse e di come mai la conoscesse tanto bene, però, per
qualche ragione, non ne era spaventata.
Lo osservò per bene: i suoi
capelli radi erano bianchi, e il viso era stanco e rugoso. Aveva le mani
tremanti e la postura non del tutto dritta, e il respiro faticoso di chi fuma
molto ed ha, ormai, una certa età.
“L’ho
mai vista?” domandò la ragazza, cercando di focalizzarlo per bene. Lui
rise malinconico.
“Oh sì, tesoro
mio. Ma eri così piccina e indifesa che non mi stupisce
che tu non mi riconosca” le rispose, mettendo a bollire un pentolino.
“E quando? Come fa lei a sapere chi sono io?”
continuò a chiedere.
“Avevi quattro
anni ed eri così carina nel tuo vestito nero con il pizzo. Avevi i
capelli legati in due codini ai lati della testa e tenevi stretta la mano di tua
zia. Non piangevi nemmeno, mi ricordo che guardavi distrattamente la fossa in
cui due tombe di legno stavano per essere messe e tirasti la sua gonna, indicandole, e chiedesti a lei
come mai mamma e papà andavano via” raccontò. Rea sgranò gli occhi.
“Lei era
qui?” si stupì.
“Bambina, io
lavoro qui da trent’anni. Ho visto passare da queste parti persone di
ogni genere: famiglie distrutte dalla perdita di un figlio; uomini morti in
solitudine al cui funerale non viene nessuno; vecchi che, arrivati alla fine
della loro vita, se ne vanno in silenzio per non disturbare. Ma tu eri la prima
che vedevo che rimaneva senza entrambi i genitori, che nemmeno aveva l’età
giusta per capire cosa stesse succedendo. Mi sembravi così
alienata, in mezzo a tutti quegli adulti che non facevano che piangere, che ti
presi con me e ti portai qui” disse. La ragazza chiuse gli occhi e cercò
di ricordare quella mattina, ma non ci riusciva: aveva davanti solo il momento
in cui sua zia le aveva detto che l’avrebbe presa con sé.
“Ti detti un po’ di torta al
cioccolato, e ti feci rimanere qui fin quando gli invitati al funerale non se ne
furono andati. Sembravi non accorgerti di dove fossi e di cosa stesse
succedendo”
“Davvero
è successo tutto questo?” gli domandò Rea. L’uomo annuì.
“Sì, e tu mi dicesti una cosa
buffa. Mi dicesti certo che mamma e papà
sono strani. Martedì mi hanno detto che tornavano per cena e mia zia stamani
diceva che non torneranno più. Pensavo che la vacanza sarebbe
durata di meno” le raccontò,
ridendo. La ragazza ricordava quelle parole, non le erano
nuove.
“E’… è
vero… e lei mi rispose che non erano in vacanza, che semplicemente si erano
trasformati. Adesso, invece che starti
vicini e abbracciarti, ti seguiranno dall’alto, mi disse”
“Sì, proprio come due angeli
bellissimi” ammise il guardiano.
“E io le risposi che agli angeli non avevo mai
creduto. Non importa, loro saranno con te anche se
non li vedrai. E un giorno, forse, potrai rivederli, aveva ribattuto” si ricordò
infine.
“Esatto, piccola
Simons. Provavo una tale pena a pensare che tu,
così giovane, fossi rimasta orfana, e volli dirti qualcosa che ti aiutasse a non
stare male. Dopo non ti ho più vista. Tua zia è venuta ogni settimana a portare
i fiori sulla tomba della sorella, e ogni volta piangeva disperata. Quanto sente
la mancanza di Valeria. Ogni volta mi dice che, guardando te, vede la sua
sorellina, vede lo stesso sguardo dolce ma aggressivo che aveva lei. E dice che sei stata una benedizione, perché tu l’hai fatta andare
avanti dopo che lei è morta” spiegò. Spense il pentolino e mise in due
tazze l’acqua calda, aggiungendoci, poi, due bustine di tè.
“Prendi
questo. Non so quanto tu sia stata fuori casa al
freddo, ma mi sei sembrata piuttosto congelata” le disse. Rea prese la
bevanda e si scaldò, tenendola tra le dita infreddolite.
“Grazie” rispose. Rimasero in silenzio per un po’,
ognuno perso nei propri pensieri.
“La zia
stava male, per il fatto che io non l’accompagnassi?” chiese infine la
ragazza.
“Non le faceva
piacere che tu perdessi il ricordo dei tuoi veri genitori, ma sapeva che era la
cosa giusta per te. Tu sei sempre risultata molto matura per la tua età,
o almeno così mi dice lei, e tutti sanno che ciò che decidi per la tua vita è
ciò che è giusto per te. Lei ha sempre rispettato il tuo modo
di porti davanti al dolore” spiegò. Rea si sentì cattiva per aver pensato
di essere sola al mondo, e le veniva voglia di scappare da lì e tornare a casa.
Casa… cavolo, da quanto tempo mancava di casa?
“Devo
rientrare!” esclamò all’improvviso, scendendo dalla brandina. Il
guardiano la fissò.
“Scusa, non ho capito” ammise.
“Che ore
sono?” domandò la ragazza.
“Le quattro e mezzo, più o meno”
rispose. Lei sbiancò.
“Del… del
pomeriggio?” chiese. L’uomo annuì.
“Sono uscita di casa dodici ore fa! I miei si saranno preoccupati! Cavolo,
sono un’idiota” spiegò, infilandosi il
cappotto.
“Aspetta,
ragazzina. Fuori fa freddo, e presto sarà buio. Se hai
pazienza di aspettare un’ora ti ci riporto io” la fermò lui, prendendola per un
braccio. Rea s’immobilizzò, combattuta, però poi pensò che tanto ormai aveva fatto il danno, quindi tanto valeva
prendere la palla al balzo e non rimanere fuori a meno due gradi in pigiama.
“Ok, va
bene” accettò.
I signori Stevens cercarono la
ragazza in tutto il cimitero, ma non la trovarono. Si divisero, anche, per
riuscire ad avere una possibilità in più di ritrovarla, ma non ci riuscirono.
Alla fine, quando tornarono a casa, erano disperati e scoraggiati.
Laura e Emma li aspettavano
trepidanti, preoccupate e speranzose.
“Allora? Dov’è Rea?” chiesero non appena i
genitori furono in casa. Loro si guardarono e scossero
sconsolati la testa, guardandole affranti.
“Non è
possibile!” esclamò Fabio, arrabbiato.
“Noi abbiamo guardato ovunque, ma
lei non era lì” spiegò la madre, sedendosi sul divano, distrutta. Il ragazzo
s’infuriò.
“Sono certo che sia andata là! Me lo sento” ribatté.
“Probabilmente
ti sei sbagliato. Apprezziamo il tuo aiuto, ma,
purtroppo, anche questa traccia è svanita” gli disse il padre. Non era
plausibile, che Rea non fosse al cimitero.
“Scusatemi” salutò uscendo di casa. Si mise a correre e
nemmeno lui sapeva come mai. Semplicemente correva verso di lei, verso la sua ragazza.
“Comunque è stato molto gentile, sul serio. Grazie per avermi accudita” stava dicendo la rossa al guardiano mentre lui
chiudeva i cancelli.
“Figurati, piccola Simons” minimizzò lui. Lei strinse le labbra e ci pensò su
un attimo.
“Senta,
posso chiederle un favore?” domandò.
“Certo, dimmi”
“Io… io non sono una Simons da
quindici anni ormai. E, per quanto
questo mi faccia soffrire, devo lasciar andare quella me stessa. Per cui, se non le è troppo difficile, potrebbe chiamarmi piccola
Stevens o… o solo Rea?” lo pregò
imbarazzata. L’uomo rise e annuì.
“Non preoccuparti, me ne
ricorderò” le assicurò. L’ultimo lucchetto scattò, e il cimitero cadde nel più
profondo silenzio.
“Mette i
brividi” commentò la rossa, tremando. Il sole, ormai, era caduto oltre
l’orizzonte, e il vento le sferzava i capelli.
“Sa
quanti gradi sono?” s’informò, cercando di scaldarsi con le mani.
“Meno tre, meno
quattro, più o meno. Non preoccuparti, piccola Sim…
ehm, piccola Stevens, tra poco ti riporto a casa” le rispose
rassicurante. Lei sorrise e si strinse il cappotto addosso.
Salirono sul furgoncino bianco
dell’uomo e rimasero fermi per qualche minuto.
“Posso fartela io, ora, una
domanda?” le chiese il guardiano. La ragazza annuì.
“Perché sei
scappata di casa? Come mai sei venuta qui proprio
adesso?” s’informò. Rea si rabbuiò.
“Mi sono… mi sono successe delle cose, negli ultimi
giorni. Cose che mi hanno fatto perdere
completamente la bussola. Non vedevo più né chi ero né cosa volevo, così mi sono
interrogata e ho pensato che qui potevo trovare delle risposte. Loro… i miei
genitori io non li ricordavo più e avevo bisogno di vedere una volta ancora i
loro volti. Per cui sono uscita dalla mia stanza, mi sono messa le scarpe e il
giacchetto e sono corsa qui. Il resto lo sa” raccontò, sorridendo.
“E adesso hai trovato ciò che
cercavi?” indagò l’uomo. Rea sospirò.
“Non lo so. Ho capito
sicuramente che non posso vivere così. Ho bisogno di altro dalla mia vita e da
me stessa. Sa, può sembrarle strano, ma prima, quando ero
svenuta… io li ho visti, mamma e papà” confessò,
arrossendo. Si sentiva una scema a dire una cosa
simile.
“Erano preoccupati per me e per quello che sto
facendo. E avevano
ragione” ammise. Il
guardiano rimase zitto e aspettò sorridendo.
“Io non… non devo rimanere attaccata a
loro. Sono e rimarranno i miei genitori
e io li vorrò accanto per sempre, ma… ma non ci sono più. Lo so fin troppo bene.
E, anche se io, in questo momento, vorrei solo morire per tutto il dolore che
sto provando, io devo… devo vivere. Me l’hanno regalata loro,
la vita, e non posso sprecarla a piangere”
comprese. L’altro rise forte.
“Sai,
comprendere che devi tenere stretta con le unghie e con i denti la vita mentre
sei in un cimitero è una cosa piuttosto insolita, anche se non del tutto
incomprensibile. Sei una ragazza strana, piccola Stevens, ma mi piace il
tuo modo di pensare. Non tutti sarebbero fuggiti alle quattro
del mattino per andare a trovare delle tombe, in pigiama per giunta”
commentò. Anche lei fu contagiata da quella risata, e, tra le lacrime,
riuscì a sentire quel peso tremendo che la soffocava evaporare dal suo cuore e
dissolversi nell’aria.
In quel momento iniziò a piovere,
e il parabrezza fu appannato dalle gocce d’acqua.
“Strano, le previsioni del tempo
non davano temporali, in giornata” disse il
guardiano.
“A gennaio non è così strano, giusto? Anzi, è quasi assurdo che non
nevichi” rispose Rea.
Misero in moto i tergicristalli e liberarono il vetro dalla pioggia.
“Chi è quel matto?” esclamò
l’uomo, indicando qualcuno davanti al cancello. Stava gridando qualcosa, ma con
il rumore dell’acquazzone che rimbombava sulla macchina non sentivano.
“Ehi! Ehi, tu!” gridò il signore,
affacciandosi dal finestrino.
La figura si voltò e si
avvicinò.
“Deve
aprirmi il cancello, devo trovare una persona” disse. Rea sgranò gli
occhi.
“Fabio?” chiese stupita. Il ragazzo la mise a fuoco e
sospirò di sollievo. Fece il giro della macchina e aprì la portiera, tirandosi
la ragazza addosso e abbracciandola senza dire niente.
“Lo
sapevo che eri qui” sussurrò solamente.