CAPITOLO SETTIMO pozzanghere
CAPITOLO SETTIMO
POZZANGHERE
"And those nights are getting colder
And your heart is a frozen wound
Don't you wonder who'll be there when you awake?"
Avantasia - "Cry just a little"
È bene sapere che gli occhi di Takeshi
Yamamoto avevano un potere particolare. Dietro quelle iridi castane, dietro
quella tonalità così simile al colore della più dolce delle nocciole, c’era più
di quanto tutti, Gokudera compreso, potessero anche solo immaginare.
Si trattava di comprensione, e non di
una qualsiasi o di quella che gran parte della gente spaccia per comprensione
autentica, ma della capacità di leggere fra le righe la più sottile e pallida
sfumatura di chi o cosa aveva di fronte. Come quella foto e, ancor prima, come
quelle sette parole.
Voltò di nuovo la busta e lasciò
scappare lo sguardo su ciò che Hayato gli aveva scritto. Cosa c’era lì, dietro
l’inchiostro blu? Tacita frustrazione, forse; il fastidio di dover ammettere
che qualcun altro al posto suo aveva l’occasione di riabbracciare la madre. Eppure,
ancora oltre la trama di questi sentimenti, c’era il sollievo d’aver dato ad un
amico la stessa possibilità che a lui era invece stata negata. Era un gesto di estremo
altruismo.
I suoi occhi tornarono alla foto
Oyaji.
Okaasan.
proprio nel momento in cui sentì la
porta aprirsi. Non aveva bisogno di sollevare le pupille per guardare chi si
fosse fermato là sull’uscio, perché diede subito un nome a quelle iridi che,
silenziose ma tangibili, gli spedirono un’espressione asciutta.
“Ohi, baka.”
Hayato.
“La colazione.”
Takeshi alzò gli occhi solo in quel
momento, obbedendo al perentorio ordine dell’istinto. Tra le mani stringeva
ancora la fotografia e in grembo aveva appoggiata la busta. Sotto i ciuffi
scuri ancora scompigliati dal sonno, la sua fronte si corrugò in un gesto che
era al contempo una domanda e un bisogno di risposta. Non parlò.
Allora le sopracciglia di Gokudera si
avvicinarono appena, un cipiglio di fastidio misto ad impotenza. Le dita strette
attorno alla maniglia lasciavano trasparire la tacita eppure evidente minaccia
di richiudere la porta senza dare alcuna spiegazione.
“Tempo un’ora e voglio già essere per
strada” puntualizzò.
“Avresti dovuto dirmelo prima, Gokudera.”
E non si parlava della partenza.
Hayato si mosse nervosamente. Sviò con
lo sguardo. Un mormorio: “Avrei potuto non dirtelo affatto.”
Yamamoto gli diede mentalmente ragione. Anzi,
si scoprì a pensare che forse sarebbe stato meglio così: non sapere nulla, non
condividere la verità. Almeno, si disse, non sarebbe stato costretto a
abbandonare chi aveva per così tanto tempo cercato. E invece in salotto, là da
qualche parte, c’era sua madre; una madre che non l’aveva nemmeno riconosciuto
come suo figlio, ma di madre si trattava.
Gokudera dovette cogliere qualcosa nello
sguardo del moro, perché si passò la lingua sulle labbra e si lanciò un’occhiata
alle spalle prima di tornare nei suoi occhi. “Avrai tutte le spiegazioni che
vuoi” cominciò, e bisbigliava. “Dopo la colazione. Dopo che saremo fuori di
qui.”
Poi Takeshi vide la porta richiudersi e
rimase di nuovo solo con quella fotografia.
Restarsene nel silenzio con quei due
volti di fronte, uno del suo vecchio e l’altro di Misako, era come rimanere in
compagnia di un fantasma. In quell’assenza di suoni c’era la fredda eppur
concreta presenza di un desiderio rimasto troppo tempo in fondo alla coscienza,
inghirlandato di sorrisi troppo perfetti per poter essere giustificati; se lo
sentiva correre lungo il braccio sino alle dita, dove fremeva sottoforma dei
brividi dell’immaginazione, come se volesse ricordargli d’esistere ancora e d’essere
pronto a prendere il controllo della mente.
Ma lasciare che un desiderio solo, per
quanto forte, divenga il burattinaio di decisioni future che da coscienti non
prenderemmo una seconda volta è sbagliato. E questo lui lo sapeva bene.
* * *
È anche bene sapere che persino gli occhi
di Hayato Gokudera avevano un potere particolare. Dietro quei suoi occhi all’apparenza
immobili ed incuranti palpitavano più sentimenti di quanti ne lasciassero
trasparire, un po’ come se il verde acquamarina delle iridi fiutasse le sensazioni
altrui per poi analizzarle e catalogarle senza che alcun indizio di
partecipazione potesse gocciolare oltre la parete con cui si teneva lontano dal
mondo.
Aveva così osservato Yamamoto dall’uscio
e aveva capito che nemmeno con la verità tra le mani aveva intenzione di
posticipare la partenza. Proprio per questo aveva anticipato il meraviglioso
idiota e finito la colazione proprio quando il meraviglioso idiota in questione
entrava in salotto. Si scambiarono uno sguardo, ma non perché si fossero
cercati, quanto pur puro caso.
Se Gokudera avesse capito che dietro
quella casualità c’era quella dannata, insistente parola di cinque lettere, non
avrebbe nemmeno alzato lo sguardo.
Yukiko lasciò immediatamente cascare il
cucchiaio nella tazza di cereali e filò svelta dal ragazzo chiamandolo per noi,
prima di aggrapparsi di volata alla sua maglietta come a pretendere di essere sollevata
in braccio; e Takeshi, le cui labbra si erano schiuse in una risata, la
accontentò con il paziente, gaio atteggiamento del fratello maggiore.
“Ohayou,
Yukiko-chan.”
“Non voglio che Takeshi-kun parta!”
“Passerò a trovarti, promesso.”
Daisuke li spiò da sopra il giornale
scambiando un sorriso con la moglie e Gokudera, in un istinto di acido
realismo, si chiese se veramente quella promessa sarebbe stata mantenuta. Eppure
si limitò a storcere le labbra in un invisibile grugnito, neanche avesse
avvertito una fastidiosa puntura nel fianco, mentre prendeva gli ultimi sorsi
di tè.
Yukiko scalciò un poco e gonfiò una
guancia. Nei suoi occhi tanto simili a quelli di Takeshi c’era la fiducia. “Davvero?
Takeshi-kun lo promette?”
Lui lo guardò un momento, un piccolo ma
affettuoso sorriso ad ammorbidirgli il volto. Ancora prima che potesse
risponderle, la calda voce di Misako:
“Sareste i benvenuti.”
Allora Yamamoto si sentì in dovere di
incrociare il suo sguardo. Non che lo volesse evitare, perché sapeva quanto
sarebbe stato inevitabile; eppure, nonostante avesse ordinato al cuore il silenzio,
percepì un indesiderato formicolio serrargli dita di disagio attorno alla
coscienza come a voler spremere in quel pugno tutto quanto avrebbe voluto
dirle.
Invece, immancabile, il suo sorriso. “Torneremo”
acconsentì, riportando di nuovo gli occhi in quelli della bambina. “È una
promessa.”
Allora Hayato capì ciò che avrebbe
fatto. Capì anche che non voleva a tutti i costi impedirgli di continuare a
nascondersi dietro quella sua perpetua serenità. Forse aveva la sue ragioni.
Forse più avanti, tempo qualche minuto, qualche giorno o qualche anno, gli
avrebbe spiegato il perché di quella decisione: Yamamoto lo avrebbe preso da
parte e gli avrebbe sorriso e gli avrebbe spiegato tutto quel che c’era da
spiegare e allora Gokudera avrebbe capito quanto fottutamente lo amava.
Presto o tardi, sarebbe successo. Ma
ora, da dietro una rassicurante distanza fatta di tazza di tè e tavolo da
pranzo, poté solo restarsene a guardare l’idiota che scoccava un bacio sulla
guancia di Yukiko, e Yukiko ridere, e Misako sorridere, e se stesso aspettare.
* * *
Hayato uscì prima di Takeshi. Per portar
fuori i due bagagli, aveva detto, e per portare la moto davanti al piccolo
viale d’accesso. La realtà era un’altra: aveva sì sistemato i borsoni, ma il
fatto d’aver varcato per primo l’uscio sottintendeva anche un proposito ben
diverso dai preparativi della partenza.
Anche l’idiota doveva salutare chi li
aveva ospitati fino a quella mattina. La verità era che Gokudera fuggiva le
dimostrazioni d’affetto un po’ come si eviterebbe il contagio della peste, e
tenendo in conto che là dentro aveva lasciato un figlio ed una madre, le
probabilità di contrarre troppi sentimenti altrui avrebbe raggiunto i massimi
livelli storici.
Evita, Hayato. Evita.
Giusto.
Si sfilò un pacchetto dal giubbotto e decise di acciuffare un accendino dall’altra
tasca. Sì, il sapore agrodolce del fumo sarebbe valso come un vaccino. Lo avrebbe
aspettato, forse per minuti, forse per ore, così come lo aveva atteso davanti a
casa per la partenza. Così si accese una sigaretta e alzò gli occhi verdi al
cielo. Profumo di pioggia.
* * *
Lo
stava aspettando. Appoggiato sul sedile della motocicletta rossa, la testa
china, una sigaretta già mezzo consumata tra l’indice ed il medio. La mano
libera in tasca e il piede sollevato sulla punta erano un ostentato sintomo
d’impazienza.
Esattamente come lo aveva trovato tempo
prima fuori da casa, lì sul marciapiede, pronto a giocarsi una carta chiamata ‘È
stato Juudaime a chiedermi di venire con te’. Con la differenza che ora
sarebbero tornati indietro.
Gokudera lo sbirciò, soffiò fumo dalle
narici, lenti nastri di grigio che salirono verso il piombo del cielo, e con il
capo gli fece cenno di muoversi; qualsiasi cosa là dentro avesse fatto,
qualsiasi cosa a Misako avesse detto, di muoversi.
Allora Yamamoto si avvicinò, le labbra atteggiate in un pallido sorriso, mentre
Hayato buttava la sigaretta a terra e montava. Alla finestra, vide, si erano
affacciati lei e lui, con il naso della pulce schiacciato contro il vetro. Dubitava
che l’idiota si sarebbe voltato, e invece fu esattamente quello che fece,
perché alzò la mano verso di loro in un gesto di saluto per la gioia della
piccola Yukiko, che scalpitava tra Daisuke e Misako, intenti a ricambiare il
saluto sventagliando in risposta le dita.
Poi Takeshi salì dietro di lui e
stavolta Gokudera gli permise di reggersi alla sua vita. Era troppo impegnato a
crogiolarsi nel silenzio per potergli sputare addosso altro veleno. Azionò il
motore e la moto scivolò docile sulla corsia. Nessuno di loro si voltò.
Un quarto d’ora più tardi, quando
imboccarono il primo cartello su cui spiccava il nome della loro destinazione,
Hayato avvertì le labbra dell’idiota là dove tanto adorava che fossero. All’orecchio.
Per un momento temette di perdere il controllo della due ruote.
“Torniamo indietro” lo sentì dire. “All’appartamento.”
Qualche minuto dopo la moto infilò la
prima strada che avrebbe permesso loro di ripercorrere il tragitto nella
direzione opposta.
* * *
A distanza di giorni, sdraiato sul
proprio letto, Hayato Gokudera si sorprende a ripensare a quanto è poi
successo. Credeva che una volta lontano da Shiruka, da quella piccola cittadina
in cui ha scoperto cosa veramente ci sia dietro i sorrisi dell’idiota, avrebbe
semplicemente relegato i fatti in uno dei tanti cassetti della memoria, in
attesa che la polvere si ispessisse abbastanza per illuderlo che si fosse
davvero lasciato tutto alle spalle.
Eppure ricorda ancora il discorso che hanno
intrattenuto una volta tornati all’appartamento di Bianchi in cui si erano
sistemati prima che il genio di Shamal gli infilasse sotto la porta quella
fotografia. Si ricorda d’avergli spiegato il perché di tutto, compreso e
soprattutto il motivo per cui Misako non sapeva e non sa ancora oggi di essere
sua madre. Gli ha spiegato quasi tutto, vero, ma non la cosa più importante. Ai
tempi, aveva ragione di credere che non fosse necessario sprecare parole quando
era ormai chiaro come tra loro sarebbe andata.
“Non
gliel’ho detto, ‘Dera”
“Cosa?”
“Che
è mia madre.”
“...”
“Qualcosa
non va?”
“Sei
un coglione, Yamamoto Takeshi.”
Ma se l’era aspettato, in fondo. Ora, lì
con le dita intrecciate dietro la nuca, Gokudera stringe le labbra e l’angolo
destro della sua bocca si solleva in un sorriso amaro. Non gli ha chiesto il
perché, ricorda, eppure nella sua mente e nel suo cuore le parole di Yamamoto,
voce non interpellata, pretendono ancora una volta di essere ascoltato. E lui è
più che disponibile a porgere l’orecchio della memoria.
“Le
avrei fatto solo del male.”
“Non
ti capisco, baka.”
“Se
glielo avessi confessato... se le avessi detto la verità, si sarebbe sentita
colpevole di non riuscire a ricordare.”
“Sei
complicato, Yamamoto Takeshi.”
perché adorava accostare il suo nome e
cognome.
“Sarò
pure un coglione, sarò pure complicato. Ma sono tuo.”
perché adorava sentirselo ripetere.
Ricorda di aver voltato il capo e di
avergli rivolto un’espressione che mai aveva rivolto a nessun altro. Ricorda di
aver scostato lo sguardo, ricorda di aver farfugliato qualcosa. Ancora meglio,
ricorda di averlo baciato per la seconda volta.
Ricorda tutte queste cose, Hayato
Gokudera, così come ricorda di aver condiviso il letto con lui quella sera. Non
hanno fatto l’amore, ma si sono limitati ad ascoltare il silenzio e le parole e
i baci e le carezze dell’altro. La mattina non c’erano più rimpianti. In fondo,
si sente rispondere, l’idiota ha potuto abbracciare la madre tenendo il resto
per sé e lui ha potuto baciare e farsi stringere da ciò di cui ha sempre avuto
bisogno.
La verità è che ora stanno bene entrambi.
Un giorno torneranno a Shiruka senza
rimorsi e paure, reduci di pozzanghere in cui ora si riflettono
arcobaleni e non il grigio del cielo, si abbracceranno sotto le coperte
e si confesseranno di
amarsi. Ma questo ora Gokudera non può saperlo e nemmeno lo
immagina, preso com’è
ad aspettare che il suo idiota lo chiami per dirgli: “Ehi, sono
sotto casa tua.
Scendi.”
Vi basti sapere che così andranno le
cose.
* * *
E ora vi chiederete:
perché concludere la fic dal punto di vista di Gokudera se il
protagonista dovrebbe essere Takeshi? Ma in fondo credo che a lui si
debba gran parte dei risvolti della storia.
Eccoci alla fine di questa tanto sofferta fic. "Sofferta" perché
ho spillato sangue dalle dita e dalla testa (?) per scriverla, e spero
che il risultato sia soddisfacente.
Inutile dire che mi sono affezionata a quest'atmosfera perennemente
angst, oltre che alla piccola Yukiko. Lei è troppo dolce *-*
E alla fine della fiera (?), il nostro Takè se n'è
rimasto zitto. Ma in compenso il lieto fine va soprattutto alla
relazione fra i due. Non potevo lasciare che si ignorassero, non
sono così crudele.
...Soprattutto, adoro troppo questa coppia da poter lasciare il povero Hayato senza il suo idiota <3
Ahm, come al solito mi scuso per eventuali errori, ma al momento non ho
tempo di rileggere né voglia di posticipare la pubblicazione
-lol-
In conclusione, spero che questa storia vi abbia appassionato - oddio che parolona xD O almeno che vi sia piaciuta.
Mi farebbe non so quanto piacere ricevere, più che un commento
sul capitolo in sé - che, oddio, sempre ben accetto LOL -, un
commento sulla fic in generale.
Non so se pubblicherò presto qualcosa di nuovo sul fandom di
KHR, soprattutto perché sono impegnata con un contest per
originali.
Adesso vi lascio, sìsì.
Grazie per aver seguito fino in fondo, vi sono immensamente grata! *-*
Dew_
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