[Tutte le persone da me citate in questa storia
esistono realmente, e mi hanno dato il permesso per scrivere su di
loro. Non ho modificato nè il loro aspetto, nè il loro nome, nè il
loro carattere o la loro storia, e per motivi ovvi non
menzionerò il loro cognome.
L'unica persona a
cui ho cambiato nome è il dottore nel primo capitolo.]
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Esme si fermò per
alcuni istanti davanti a me, mentre la folla di bambini si faceva
strada
urtandoci di tanto in tanto.
“Tu hai
paura
delle persone, giusto?” domandò, anche se la
risposta era ovvia.
Annuii piano.
“C’è
anche chi ha
una paura che è il contrario della tua, più o
meno.” Disse. “Mia madre mi ha
detto che esistono persone socio fobiche che hanno paura delle persone,
altre
autofobiche che hanno paura di rimanere soli.”
Rimase immobile, a
pensare, mentre Margherita mi aveva già salutata ed ora si
stava dirigendo
verso suo padre.
Social
Phobia.
[Autofobia]
“Il tulipano rosso
quindi significa dichiarazione d’amore? Che bella
cosa.” mio padre distolse lo
sguardo dal giornale “Chi ti insegna queste cose,
tesoro?” mi domandò.
"Esme.”
Mormorai
“Sua madre ha un’amica che fa la fiorista e insieme
le hanno insegnato il
linguaggio dei fiori. Ogni fiore ha un significato. E poi, Esme mi ha
detto che
se voglio può insegnarmi a suonare il piano. Lo sa suonare
davvero bene. Anche
se è una bambina solitaria sa un mucchio di cose in
più degli altri e …”
“Miranda”
disse
mio padre all’improvviso.
Mi bloccai, e
fissai la tazza appoggiata sul tavolo, accanto a lui.
“S-Sì?”
balbettai.
“Non hai mai
parlato così tanto. E non ricordo l’ultima volta
in cui eri così di buon umore.
Dimmi, questa Esme ti piace tanto, giusto? Siete molto
amiche.” Si lasciò
scappare una piccola risata “Sembra quasi che questa bambina
in poco tempo sia
riuscita a capire mia figlia meglio di me!”
esclamò, rivolgendosi più a sé, che
parlando a me direttamente.
“Beh, io
…”
iniziai, torturandomi le mani “Dov’è la
mamma?”
“La mamma
non
torna, principessa, credo tu l’abbia capito.”
“Divorziate?”
“Come
conosci
questa parola?” chiese mio padre quasi turbato.
Arrossii
“Una mia
compagna di classe ha detto questa parola una volta. Esme mi ha
spiegato che si
chiamano così, le coppie separate.” Feci, tutto
d’un fiato.
Mio padre sorrise,
stranamente. “Non sembri davvero più tu. Con tutte
le paure che avevi fino allo
scorso anno …” poi si rattristò
all’improvviso. “Miranda, non te la prendere,
ma devi sapere che ho ricevuto un’offerta di lavoro che non
posso rifiutare. Mi
trasferisco. Anzi, ci trasferiamo.”
“Come
…?”
“Principessa,
capiscimi … non posso rifiutare. Tua madre
resterà qui, ma io devo partire
quanto prima.”
Strinsi i pugni
“Allora resto con la mamma!” gridai.
“La mamma
non
vuole, Miranda. Lei non ti vuole con sé. Riesci a renderti
conto che non le
importa di te?!” urlò, frustrato, gettando il
giornale sul tavolo.
Sobbalzai e mi
salirono le lacrime agli occhi “Lo so … lo so, ma
… io non voglio andarmene …”
Che mia madre mi
odiasse ne ero consapevole. Le dava fastidio che non fossi come tutte
le altre
bambine. A me non piacevano le feste con tanti regali e tanti invitati.
A me
non piacevano le cene con i parenti. A me non piaceva quando lei si
vantava
della mia intelligenza, o diceva che ero bella. Non volevo.
Perché poi
gli
altri mi avrebbero giudicato. E a me faceva paura.
Ma sarei passata
sopra a tutto pur di restare con la mia Margherita. Era la mia migliore
amica,
l’unica vera che avessi mai avuto. E non volevo perderla.
“Principessa,
ne
sono consapevole, ma … non possiamo fare altro. Partiamo
appena la scuola sarà
finita. Avrai tempo fino a Giugno per salutare Esme. È il
massimo che posso
fare, purtroppo.” La nostra conversazione terminò
lì.
“Tutti
i fiori hanno un significato?”
“Sì,
tutti i fiori.”
“Tu li conosci
tutti?”
“No, ma mi
piacerebbe tanto.”
“Enrico una
volta ha detto che i tuoi fiori sono
stupidi …”
“Non mi importa
cosa pensano gli altri.”
“Come sta tua
madre?”
“Non bene.
Però vorrebbe parlare di nuovo con te. A
luglio dovrebbero dimetterla. Tu ci sei, a luglio, MiriMiri?”
“Certo,
Margherita.”
Ma il dieci Giugno
io partii. Esme non venne a salutarmi, odiava gli addii.
Alle medie era
tutto diverso. La scuola era difficile da raggiungere,
perché Venezia era una
città complicata, e le prime volte io e mio padre ci
perdemmo, arrivando in
ritardo.
Gli altri erano
quasi … arrabbiati, con me. Forse dava loro fastidio il
fatto che avessi
saltato un anno, in pratica. Non ci volle molto tempo che finii isolata
da tutto e da tutti. Non che l’idea mi
dispiacesse. Non amavo stare in compagnia. Però, dopo
essermi separata da Esme,
una nuova amica non mi sarebbe dispiaciuta. Ma nessuno era come
“l’innocente
Margherita solitaria”.
Ogni tanto qualche
compagno mi chiedeva aiuto per una qualsiasi materia, dal momento che
come alle
elementari l’unica cosa che sapevo fare era andare bene a
scuola.
Durante la prima
settimana di Novembre, iniziarono le prese in giro. Erano cattivi,
soprattutto
le ragazze. Facevano battutine stupide e imitazioni improbabili
probabilmente
per farmi arrabbiare. Solo che io non mi arrabbiavo.
Non ci riuscivo,
potevo solo lasciare che la mia irrazionale paura mi tormentasse dalla
mattina
alle otto fino a quando tornavo a casa.
Smisi persino di
parlare con mio padre, e questo lo fece preoccupare. Andai avanti
così per un
mese, circa. Poi una mattina fui svegliata dalla suoneria del
cellulare. Non
sapevo bene come, ma erano riusciti ad avere il mio numero ed ora
sapevo che mi
avrebbero tormentato anche lì.
Quando lessi il
messaggio, scoppiai a piangere, mi sentii una completa idiota e non
uscii dalla
mia stanza per il resto della giornata.
Mi chiusi dentro, e mio padre non si
azzardò nemmeno a cercare di convincermi. Passai una
settimana intera così, poi
pensai a quello che mi avrebbe detto Esme, e non so come trovai la
forza di
mettere piede nella mia classe, il lunedì della settimana
seguente.
In qualsiasi caso,
gli ultimi giorni prima delle vacanze di Natale mi rifiutai nuovamente
di
uscire dalla mia stanza. Avevo troppa paura, e ormai non parlano
nemmeno più,
se non attraverso l’ecolalia.
Mi sentivo
terribilmente stupida e
in colpa. Mio padre si preoccupava per me, ed io
continuavo imperterrita a dargli problemi.
Dopo le vacanze di
Natale, a Gennaio, in classe arrivò un nuovo compagno. Si
chiamava Giacomo, di secondo nome faceva Antonio, e lui preferiva farsi
chiamare così.
Sembrava
simpatico, anche se per i miei gusti parlava davvero troppo. Mi
chiedevo perché
tentasse costantemente di attaccare bottone con me. Con me, e io mi
sforzavo di
rispondergli. Però mi domandavo come mai facesse
così. Avevo paura anche di
lui, nonostante non mi prendesse in giro come gli altri.
Infatti dopo poco
ricominciarono.
Ancora. Ancora. E
ancora.
Mi chiesi
perché.
Forse avevo detto o fatto qualcosa di sbagliato, in quegli ultimi mesi.
Non lo
sapevo davvero, ma mi sentii comunque in colpa.
Rimasi assente per
tre giorni di fila. Poi di sabato udii qualcuno suonare il campanello,
e mio
padre aprì la porta. C’era la sua voce, insieme a
quella di un’altra persona.
Non capii di chi si trattasse, così uscii perché
ero curiosa. Indossai le
pantofole e mi avvolsi nella coperta di pile.
Antonio se ne
stava lì, nel centro del corridoio, davanti a me, mentre mio
padre era
scomparso nuovamente nel suo studio.
Ebbi
l’impulso di
voltarmi e correre via, chiudendomi in camera, ma non lo feci.
“Non sei malata.”
Constatò lui, guardandomi.
Ripetei la frase,
a me stessa, e mi ritrovai a pensare quanto fossi davvero stupida. Poi
sentii
Antonio ridere, piano. Ma non era una risata divertita. Era
più … imbarazzata.
Alzai lo sguardo, e vidi che lui aveva il suo fisso a terra, ed era
arrossito.
“Scusa”
disse
all’improvviso “forse non avevi voglia di vedere
nessuno. È che mi sembri
l’unica con un poco di cervello in tutta la
classe.” Continuò a fissare il
parquet “Però sei strana, a volte. Ti sto antipatico, per caso?”
domandò, e
allora rialzò gli occhi grigi per puntarli nei miei.
Distolsi lo
sguardo.
“Non mi stai
antipatico.” Risposi.
“È
per colpa loro
se stai a casa, vero?”
mi chiese, facendo intendere di chi parlava.
Annuii.
“Non
dovresti dar
peso a quello che dicono. Lo fanno solo perché vogliono
farti arrabbiare. Nulla
di più. Forse
non le pensano nemmeno quelle cose.”
Cercò di spiegare.
“Però le dicono!”
ribattei “Se sei venuto qui solo per questo, puoi anche
andartene!” gridai,
voltandomi e andando a grandi passi verso la cucina. Mi avvicinai al
davanzale
e guardai fuori dalla finestra.
Antonio mi
seguì.
“Cammini
sempre in
punta di piedi e a testa bassa, a scuola. È come se avessi
paura del cielo, ma
anche della terra.” Disse, forse più a se stesso o
all'aria, che a me. “Hai paura di loro,
per caso?” azzardò.
“Sì.”
“Anche di
me?”
“Sì.”
“E dei
professori?
Non ne hai parlato con loro, ti fanno paura come me e gli
altri?”
“Sì. Ho
paura di
tutti. Di tutte le persone. Voglio restare sola.”
“Io invece
non ci
riesco.” Mormorò “Non riesco a stare da
solo. Sai, forse è per questo che sono
venuto. Non per darti i compiti o per capirti … solo per non
stare solo. Davvero
egoistico.” Rifletté, e si
lasciò scappare un'altra risata imbarazzata.
Appoggiai una mano
sulla finestra, trovandolo freddo. “Sei
autofobico?” mormorai.
Dal riflesso nel
vetro vidi che annuiva.
Mi ricordai
improvvisamente di Esme. Lei mi aveva aiutata, mi aveva quasi
“salvata”, per
così dire. Solo che lei ora non c’era
più.
E Antonio era l’unica persona che
forse, in qualche modo, poteva sostituirla. Mi trovai incredibilmente
egoista,
mentre mi avvicinavo a lui, dopo aver appoggiato la coperta su una
sedia.
“Facciamo
così.”
Dissi, con un tono di voce stranamente deciso “Io non ti
lascio solo, e tu in
cambio non mi giudicherai per quello che faccio.”
Antonio mi
guardò,
un po’ incerto “Quindi hai paura quando le persone
ti giudicano.”
“Sì.”
“Okay, va
bene.”
All’inizio
pensai
che si sarebbe trattato semplicemente di un accordo di … "convenienza".
Antonio
aveva un’amica e io qualcuno che non mi giudicava e mi
aiutava a superare le
prese in giro. Non era come avere accanto Esme, ma mi bastava.
Sapevo quanto
fosse sbagliato usare Antonio come sostituto, ma in quel momento avrei
fatto
qualsiasi cosa pur di sentirmi meglio.
Poi però
con il
tempo le cose cambiarono. Mi divertivo davvero, con lui. Riusciva
davvero a
capirmi, a non giudicarmi per le cose che facevo e dicevo, e non
perché non
voleva che mi allontanassi da lui.
Riuscivo quasi a
dimenticarmi della mia fobia.
Alla fine delle
terza, però, decisi che forse sarebbe stato meglio
continuare da privatista, al
liceo. Preferii fare così, e mio padre non mi contraddisse.
"Senti un po’.”
Fece un giorno Antonio, durante le vacanze estive, distogliendo lo
sguardo dal notebook “Com’era questa Margherita
di cui parli a volte?” chiese.
"Era speciale."
mormorai.
"Non l'hai
più sentita, da quando ti sei trasferita qui?"
domandò, guardando l'acqua che scorreva sotto il ponte.
"No. A volte mi chiedo
cosa stia facendo, se per caso si è trasferita anche lei ...
però credo sia parecchio inutile. In ogni caso, non la
risentirò mai più, temo."
"Beh, non ci si deve
mai arrendere." ribattè lui, distogliendo lo sguardo dalla
pagina internet aperta.
Cambiai discorso, e mi
avvicinai un po' di più a lui "Che cos'è?" dissi,
indicando lo schermo.
"Si chiama EFP."
rispose "É un sito in cui le persone possono scrivere storie
..."
Non ricordo davvero
perché, ma il sito mi incuriosì così
tanto che iniziai ad entrarci ogni giorno.
Con la scoperta di
efp, e l'arrivo del liceo, le cose migliorarono ulteriormente. Conobbi
due ragazze della stessa classe di Antonio, e il migliore amico di
quest'ultimo. Il fatto che ora avessi veri amici mi pareva quasi
irreale.
Nonostante tutto
però, continuavo ad avere paura. Non riuscivo ad essere
sempre me stessa, per la costante paura di essere giudicata.
Avevo ancora paura, e
quando una volta iscritta su efp venni a sapere che una delle ragazze
che avevo conosciuto abitava nella mia stessa città, il mio
cuore mancò un battito.
Ma non per la felicità.
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