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Autore: Leyla_    07/10/2012    2 recensioni
Esme rimase in silenzio per alcuni istanti “Di cosa hai paura, MiriMiri?” chiese.
“Di cosa hai paura.” ripetei, piano.
“Ho paura che mia mamma muoia. Lei ha il cancro. Papà dice che è una cosa brutta.”
“Io ho paura delle persone. Tu sei una persona.” Dissi, per farle capire che temevo anche di lei.
Sentii Esme che picchiettava le unghie sulla porta. “Allora fa finta che sia un fiore.”
“Un fiore?” domandai confusa.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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[Tutte le persone da me citate in questa storia esistono realmente, e mi hanno dato il permesso per scrivere su di loro. Non ho modificato nè il loro aspetto, nè il loro nome, nè il loro carattere o la loro storia, e per motivi ovvi non menzionerò il loro cognome.

L'unica persona a cui ho cambiato nome è il dottore nel primo capitolo.]




*** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** 




Esme si fermò per alcuni istanti davanti a me, mentre la folla di bambini si faceva strada urtandoci di tanto in tanto.

“Tu hai paura delle persone, giusto?” domandò, anche se la risposta era ovvia.
Annuii piano.
“C’è anche chi ha una paura che è il contrario della tua, più o meno.” Disse. “Mia madre mi ha detto che esistono persone socio fobiche che hanno paura delle persone, altre autofobiche che hanno paura di rimanere soli.”
Rimase immobile, a pensare, mentre Margherita mi aveva già salutata ed ora si stava dirigendo verso suo padre.
 

S
ocial Phobia.

[Autofobia]
 


“Il tulipano rosso quindi significa dichiarazione d’amore? Che bella cosa.” mio padre distolse lo sguardo dal giornale “Chi ti insegna queste cose, tesoro?” mi domandò.

"Esme.” Mormorai “Sua madre ha un’amica che fa la fiorista e insieme le hanno insegnato il linguaggio dei fiori. Ogni fiore ha un significato. E poi, Esme mi ha detto che se voglio può insegnarmi a suonare il piano. Lo sa suonare davvero bene. Anche se è una bambina solitaria sa un mucchio di cose in più degli altri e …”
“Miranda” disse mio padre all’improvviso.
Mi bloccai, e fissai la tazza appoggiata sul tavolo, accanto a lui.
“S-Sì?” balbettai.
“Non hai mai parlato così tanto. E non ricordo l’ultima volta in cui eri così di buon umore. Dimmi, questa Esme ti piace tanto, giusto? Siete molto amiche.” Si lasciò scappare una piccola risata “Sembra quasi che questa bambina in poco tempo sia riuscita a capire mia figlia meglio di me!” esclamò, rivolgendosi più a sé, che parlando a me direttamente.
“Beh, io …” iniziai, torturandomi le mani “Dov’è la mamma?”
“La mamma non torna, principessa, credo tu l’abbia capito.”
“Divorziate?”
“Come conosci questa parola?” chiese mio padre quasi turbato.
Arrossii “Una mia compagna di classe ha detto questa parola una volta. Esme mi ha spiegato che si chiamano così, le coppie separate.” Feci, tutto d’un fiato.
Mio padre sorrise, stranamente. “Non sembri davvero più tu. Con tutte le paure che avevi fino allo scorso anno …” poi si rattristò all’improvviso. “Miranda, non te la prendere, ma devi sapere che ho ricevuto un’offerta di lavoro che non posso rifiutare. Mi trasferisco. Anzi, ci trasferiamo.”
“Come …?”
Principessa, capiscimi … non posso rifiutare. Tua madre resterà qui, ma io devo partire quanto prima.”
Strinsi i pugni “Allora resto con la mamma!” gridai.
“La mamma non vuole, Miranda. Lei non ti vuole con sé. Riesci a renderti conto che non le importa di te?!” urlò, frustrato, gettando il giornale sul tavolo.
Sobbalzai e mi salirono le lacrime agli occhi “Lo so … lo so, ma … io non voglio andarmene …”
Che mia madre mi odiasse ne ero consapevole. Le dava fastidio che non fossi come tutte le altre bambine. A me non piacevano le feste con tanti regali e tanti invitati. A me non piacevano le cene con i parenti. A me non piaceva quando lei si vantava della mia intelligenza, o diceva che ero bella. Non volevo.
Perché poi gli altri mi avrebbero giudicato. E a me faceva paura.
Ma sarei passata sopra a tutto pur di restare con la mia Margherita. Era la mia migliore amica, l’unica vera che avessi mai avuto. E non volevo perderla.
“Principessa, ne sono consapevole, ma … non possiamo fare altro. Partiamo appena la scuola sarà finita. Avrai tempo fino a Giugno per salutare Esme. È il massimo che posso fare, purtroppo.” La nostra conversazione terminò lì.


Tutti i fiori hanno un significato?”
“Sì, tutti i fiori.”

“Tu li conosci tutti?”

“No, ma mi piacerebbe tanto.”

“Enrico una volta ha detto che i tuoi fiori sono stupidi …”

“Non mi importa cosa pensano gli altri.”

“Come sta tua madre?”

“Non bene. Però vorrebbe parlare di nuovo con te. A luglio dovrebbero dimetterla. Tu ci sei, a luglio, MiriMiri?”

“Certo, Margherita.”

 

Ma il dieci Giugno io partii. Esme non venne a salutarmi, odiava gli addii.

Alle medie era tutto diverso. La scuola era difficile da raggiungere, perché Venezia era una città complicata, e le prime volte io e mio padre ci perdemmo, arrivando in ritardo.
Gli altri erano quasi … arrabbiati, con me. Forse dava loro fastidio il fatto che avessi saltato un anno, in pratica. Non ci volle molto tempo che finii isolata  da tutto e da tutti. Non che l’idea mi dispiacesse. Non amavo stare in compagnia. Però, dopo essermi separata da Esme, una nuova amica non mi sarebbe dispiaciuta. Ma nessuno era come “l’innocente Margherita solitaria”.
Ogni tanto qualche compagno mi chiedeva aiuto per una qualsiasi materia, dal momento che come alle elementari l’unica cosa che sapevo fare era andare bene a scuola.
Durante la prima settimana di Novembre, iniziarono le prese in giro. Erano cattivi, soprattutto le ragazze. Facevano battutine stupide e imitazioni improbabili probabilmente per farmi arrabbiare. Solo che io non mi arrabbiavo.
Non ci riuscivo, potevo solo lasciare che la mia irrazionale paura mi tormentasse dalla mattina alle otto fino a quando tornavo a casa.
Smisi persino di parlare con mio padre, e questo lo fece preoccupare. Andai avanti così per un mese, circa. Poi una mattina fui svegliata dalla suoneria del cellulare. Non sapevo bene come, ma erano riusciti ad avere il mio numero ed ora sapevo che mi avrebbero tormentato anche lì.
Quando lessi il messaggio, scoppiai a piangere, mi sentii una completa idiota e non uscii dalla mia stanza per il resto della giornata.
Mi chiusi dentro, e mio padre non si azzardò nemmeno a cercare di convincermi. Passai una settimana intera così, poi pensai a quello che mi avrebbe detto Esme, e non so come trovai la forza di mettere piede nella mia classe, il lunedì della settimana seguente.

In qualsiasi caso, gli ultimi giorni prima delle vacanze di Natale mi rifiutai nuovamente di uscire dalla mia stanza. Avevo troppa paura, e ormai non parlano nemmeno più, se non attraverso l’ecolalia.
Mi sentivo terribilmente stupida e in colpa. Mio padre si preoccupava per me, ed io continuavo imperterrita a dargli problemi.

Dopo le vacanze di Natale, a Gennaio, in classe arrivò un nuovo compagno. Si chiamava Giacomo, di secondo nome faceva Antonio, e lui preferiva farsi chiamare così.

Sembrava simpatico, anche se per i miei gusti parlava davvero troppo. Mi chiedevo perché tentasse costantemente di attaccare bottone con me. Con me, e io mi sforzavo di rispondergli. Però mi domandavo come mai facesse così. Avevo paura anche di lui, nonostante non mi prendesse in giro come gli altri.
Infatti dopo poco ricominciarono.
Ancora. Ancora. E ancora.

Mi chiesi perché. Forse avevo detto o fatto qualcosa di sbagliato, in quegli ultimi mesi. Non lo sapevo davvero, ma mi sentii comunque in colpa.
Rimasi assente per tre giorni di fila. Poi di sabato udii qualcuno suonare il campanello, e mio padre aprì la porta. C’era la sua voce, insieme a quella di un’altra persona. Non capii di chi si trattasse, così uscii perché ero curiosa. Indossai le pantofole e mi avvolsi nella coperta di pile.
Antonio se ne stava lì, nel centro del corridoio, davanti a me, mentre mio padre era scomparso nuovamente nel suo studio.
Ebbi l’impulso di voltarmi e correre via, chiudendomi in camera, ma non lo feci.
Non sei malata.” Constatò lui, guardandomi.
Ripetei la frase, a me stessa, e mi ritrovai a pensare quanto fossi davvero stupida. Poi sentii Antonio ridere, piano. Ma non era una risata divertita. Era più … imbarazzata. Alzai lo sguardo, e vidi che lui aveva il suo fisso a terra, ed era arrossito.
“Scusa” disse all’improvviso “forse non avevi voglia di vedere nessuno. È che mi sembri l’unica con un poco di cervello in tutta la classe.” Continuò a fissare il parquet “Però sei strana, a volte. Ti sto antipatico, per caso?” domandò, e allora rialzò gli occhi grigi per puntarli nei miei.
Distolsi lo sguardo.
“Non mi stai antipatico.” Risposi.
“È per colpa loro se stai a casa, vero?” mi chiese, facendo intendere di chi parlava.
Annuii.
“Non dovresti dar peso a quello che dicono. Lo fanno solo perché vogliono farti arrabbiare. Nulla di più. Forse non le pensano nemmeno quelle cose.” Cercò di spiegare.
Però le dicono!” ribattei “Se sei venuto qui solo per questo, puoi anche andartene!” gridai, voltandomi e andando a grandi passi verso la cucina. Mi avvicinai al davanzale e guardai fuori dalla finestra.
Antonio mi seguì.
“Cammini sempre in punta di piedi e a testa bassa, a scuola. È come se avessi paura del cielo, ma anche della terra.” Disse, forse più a se stesso o all'aria, che a me. “Hai paura di loro, per caso?” azzardò.
.”
“Anche di me?”
Sì.
“E dei professori? Non ne hai parlato con loro, ti fanno paura come me e gli altri?”
Sì. Ho paura di tutti. Di tutte le persone. Voglio restare sola.”
“Io invece non ci riesco.” Mormorò “Non riesco a stare da solo. Sai, forse è per questo che sono venuto. Non per darti i compiti o per capirti … solo per non stare solo. Davvero egoistico.” Rifletté, e si lasciò scappare un'altra risata imbarazzata.
Appoggiai una mano sulla finestra, trovandolo freddo. “Sei autofobico?” mormorai.
Dal riflesso nel vetro vidi che annuiva.
Mi ricordai improvvisamente di Esme. Lei mi aveva aiutata, mi aveva quasi “salvata”, per così dire. Solo che lei ora non c’era più.
E Antonio era l’unica persona che forse, in qualche modo, poteva sostituirla. Mi trovai incredibilmente egoista, mentre mi avvicinavo a lui, dopo aver appoggiato la coperta su una sedia.

“Facciamo così.” Dissi, con un tono di voce stranamente deciso “Io non ti lascio solo, e tu in cambio non mi giudicherai per quello che faccio.”
Antonio mi guardò, un po’ incerto “Quindi hai paura quando le persone ti giudicano.”
“Sì.”
“Okay, va bene.”
All’inizio pensai che si sarebbe trattato semplicemente di un accordo di … "convenienza". Antonio aveva un’amica e io qualcuno che non mi giudicava e mi aiutava a superare le prese in giro. Non era come avere accanto Esme, ma mi bastava.
Sapevo quanto fosse sbagliato usare Antonio come sostituto, ma in quel momento avrei fatto qualsiasi cosa pur di sentirmi meglio.
Poi però con il tempo le cose cambiarono. Mi divertivo davvero, con lui. Riusciva davvero a capirmi, a non giudicarmi per le cose che facevo e dicevo, e non perché non voleva che mi allontanassi da lui.
Riuscivo quasi a dimenticarmi della mia fobia.
Alla fine delle terza, però, decisi che forse sarebbe stato meglio continuare da privatista, al liceo. Preferii fare così, e mio padre non mi contraddisse.

"Senti un po’.” Fece un giorno Antonio, durante le vacanze estive, distogliendo lo sguardo dal notebook “Com’era questa Margherita di cui parli a volte?” chiese.

"Era speciale." mormorai. 
"Non l'hai più sentita, da quando ti sei trasferita qui?" domandò, guardando l'acqua che scorreva sotto il ponte.
"No. A volte mi chiedo cosa stia facendo, se per caso si è trasferita anche lei ... però credo sia parecchio inutile. In ogni caso, non la risentirò mai più, temo."
"Beh, non ci si deve mai arrendere." ribattè lui, distogliendo lo sguardo dalla pagina internet aperta.
Cambiai discorso, e mi avvicinai un po' di più a lui "Che cos'è?" dissi, indicando lo schermo.
"Si chiama EFP." rispose "É un sito in cui le persone possono scrivere storie ..." 
Non ricordo davvero perché, ma il sito mi incuriosì così tanto che iniziai ad entrarci ogni giorno. 
Con la scoperta di efp, e l'arrivo del liceo, le cose migliorarono ulteriormente. Conobbi due ragazze della stessa classe di Antonio, e il migliore amico di quest'ultimo. Il fatto che ora avessi veri amici mi pareva quasi irreale. 
Nonostante tutto però, continuavo ad avere paura. Non riuscivo ad essere sempre me stessa, per la costante paura di essere giudicata.
Avevo ancora paura, e quando una volta iscritta su efp venni a sapere che una delle ragazze che avevo conosciuto abitava nella mia stessa città, il mio cuore mancò un battito.
Ma non per la felicità.

 

  
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