Storia di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso di Trick (/viewuser.php?uid=21078)
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Storia
di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 3 - L'orologio
*
«Non
sei obbligata a farlo, Red».
La
ragazza alzò la testa verso il piccolo grillo appollaiato
sulla sua
spalla. Era nascosti in un folto cespuglio di more a qualche miglio
di distanza dal castello di Regina ormai da parecchio tempo, ma
nessuno dei due aveva ancora avuto il coraggio di parlare. L'aria fra
di loro sembrava rarefatta.
«Certo
che lo sono» mormorò piano lei, lisciando una
piega inesistente
nella gonna. «E lo sei anche tu».
«No,
non--».
«Jiminy»
lo ammonì con un sorriso tirato. «Ne abbiamo
già discusso.
Qualcuno deve occuparsi delle guardie della regina e io sono l'unica
che può uscirne illesa».
«Stiamo
agendo con troppa irruenza. Sono certo che si possa trovare una
soluzione più sicura».
Red
emise un vago sbuffo divertito.
«Forse,
ma non sarebbe la più efficace».
Il
piccolo insetto abbassò le antenne, scuotendo debole il
capo. Aveva
trascorso intere nottate a tormentarsi nella ricerca di un piano
diverso, più
saggio,
che non comportasse sguinzagliare la bestia che si annidava in Red
contro gli eserciti di Regina, ma aveva fallito. Complice la forte
amicizia che la legava a Snow White, la ragazza aveva deciso di
acconsentire a quella pazzia. Jiminy temeva che ne avrebbe portato i
segni per troppo tempo; forse non riusciva a rendersi conto
dell'entità di ciò che si stava per fare
– e forse non lo aveva
capito nemmeno lui.
Ma
dovevano fare qualcosa, e questa era purtroppo l'unica certezza che
era rimasta a tutti loro. Il principe James era in balia della regina
e non potevano permettere che il regno cadesse nelle sue perfide
mani. Eppure Jiminy aveva tanto sperato che si fosse potuto trovare
un metodo meno barbaro... qualcosa che non comportasse la sofferenza
di Red.
«Red,
non--».
«No,
Jiminy» lo interruppe con maggiore decisione.
«Smettila, o finirai
per convincermi sul serio e io non combinerò niente. Devo
farlo.
Tutti e due dobbiamo farlo. Non puoi mollarmi adesso: ho bisogno di
te. Qualcuno deve cacciarmi addosso il mantello».
«E
se non potessi farlo?».
Lei
gli rivolse un'occhiata interrogativa.
«Sei
Jiminy Cricket» disse con naturalezza. «Sei quello
che riporta la
gente alla ragione. Certo che puoi farlo. Sei l'unico
che
può farlo. Non
posso rischiare di...» si bloccò d'un tratto e
fece un breve
sospiro. «Tu sei un grillo. Non ti mangerei mai, mi
rimarresti sullo
stomaco».
Jiminy
intuiva il suo bisogno di sdrammatizzare la questione, ma non
riusciva a lasciarsi andare. In un'altra occasione avrebbe riso
–
rideva sempre, con lei – ma non in quel momento. Non
lì, non sotto
la luna piena che sembrava prenderli in giro, non con quel compito
oneroso che si era visto poggiare sulle piccole spalle.
«Riportami
qui, Jiminy. Sei l'unico che può farlo senza attirare
l'attenzione
della regina. Tu sei...».
«Piccolo,
verde e pressoché invisibile» ripeté
lui per la centesima volta.
«Sì, e tu stai per commettere un grave errore di
cui rischi di
pentirti».
«Forse»
rispose con voce grave la ragazza, lanciando un'occhiata penosa alla
luna. «Ma avrò la fortuna di avere una vocina al
mio fianco con il
buon senso di ricordarmi perché
l'ho
fatto».
Gli
rivolse un ultimo sorriso triste e si alzò in piedi. Jiminy
le
svolazzò apprensivo accanto e trasalì nel vederla
slacciare la
corda che teneva stretta la mantella magica.
«Red,
sei ancora--».
«Jiminy,
non costringermi a mangiarti sul serio» cercò di
scherzare. Poi il
suo sguardo si fece nuovamente serio e la sua voce tremò di
paura.
«Farai in fretta?».
Lui
cercò di soffocare in un angolo della gola la propria
rassegnazione
e annuì debolmente.
«Come
se avessi le ali, amica mia».
*
I
colpi alla porta sopraggiunsero così improvvisi e violenti
che
Archie e Marco sobbalzarono allo stesso modo.
Erano
seduti sul divano dello studio del dottore e avevano appena deciso
che sarebbero andati da Granny's per uno spuntino.
Era un
rituale che si ripeteva spesso, il loro, e nessuno dei due uomini vi
avrebbe mai rinunciato – inoltre Archie era l'unica
conoscenza di
Marco disposta a mangiare le croste del pane che scartava. Si
conoscevano da così tanto tempo che talvolta stentavano
entrambi a
ricordare da quanto tempo fossero così in
intimità. La loro era una
di quelle amicizia rare e ponderate che cresce con la calma e la
forza di una quercia, con le radici solide e le foglie che cadono,
sì, ma poi ricrescono sempre all'arrivo della primavera.
Talvolta
non avevano nemmeno bisogno di parlare. Si capivano e basta, come se
fosse questione di alchimia, come se fosse magia.
«Archie!»
strillò la voce infuriata di Jeanette dal corridoio.
«Aprimi!».
Marco
emise un lungo e sfibrato gemito di disappunto, ma Archie lo
ignorò
e si diresse con calma verso la porta. Era perfettamente a conoscenza
della scarsa opinione che l'amico aveva sempre riservato a Jeanette e
per quanto avesse cercato di mostrarne anche i lati positivi, aveva
sempre fallito. Quando Archie gli confidava questa o quella cosa
combinata da Jeanette, le sue mille paranoie, le sue sbottate, i suo
problemi con Pongo, Marco scuoteva la testa con un sorrisino saputo e
ripeteva a oltranza quanto ritenesse illogica la loro relazione. Non
avrebbe potuto avere più ragione di dirlo.
Archie
non aveva ancora aperto la porta del tutto che Jeanette aveva
già
iniziato a sventolargli davanti al viso un plico di fogli bianchi.
Sembrava particolarmente arrabbiata.
«Che
significa!?» sbottò di colpo, del tutto incurante
della presenza di
Marco sul divano. Lui, d'altronde, sembrava stesse cercando di
nascondere un sorrisetto inopportuno. «Che diavolo vuol
dire,
Archie!?».
«C-cosa?»
chiese confuso l'interessato. «Di cosa stai
parlando?».
«Di
questo!» gridò enfaticamente lei, lanciando i
fogli sulla scrivania
del dottore. «Di te! Di Ruby Lucas! Di te che le paghi
l'assicurazione della macchina! Di', che ti è passato per la
testa!?».
L'uomo
si aggiustò compostamente gli occhiali e sbirciò
rapidamente i
resoconti dei suoi movimenti bancari che Jeanette aveva portato. Poi
la sua bocca si storse in una vaca smorfia infastidita.
«Perché
controlli il mio conto corrente?».
«E
perché tu le paghi la macchina!?»
ribatté la donna piccata,
sbattendo un tacco sul pavimento con stizza. Poi sul suo viso
comparve un'espressione di feroce comprensione e le sue palpebre si
assottigliarono come quelli di una belva in procinto di attaccare.
«Vai a letto con quella ragazzina!?».
Marco
non riuscì a trattenersi oltre e cercò malamente
di nascondere una
mezza risata nel bavero del cappotto. Al contrario, Archie era
arrossito e aveva sgranato sconcertato gli occhi, incapace di credere
alle parole che aveva appena sentito.
«Ma
che... certo che no»
rispose in fretta, fissando
incredulo la donna dinanzi a sé. «E non... non le
ho pagato la
macchina. È solo un prestito».
«Un
prestito!? È così che si chiama, ora?».
«È
così che si è sempre chiamato,
Jeanette».
Lo
sbuffo di Marco costrinse Jeanette a voltarsi verso di lui. L'uomo
teneva il capo appoggiato alla mano e tutto sul suo viso lasciava
trasparire il proprio divertimento. Archie avrebbe voluto ammonirlo,
lanciargli qualsiasi oggetto contundente, ma la verità era
che la
reazione scanzonata di Marco gli impediva di prendere seriamente
l'insana sfuriata di Jeanette. Ed era quello che aveva sempre cercato
di fare, dopotutto: smetterla di prenderla sul serio ogni
volta.
«Cosa
può mai farti così tanto ridere?»
sibilò Jeanette verso Marco,
puntandogli contro l'indice. «Cosa c'entri tu in questa
storia?».
L'uomo
inarcò un sopracciglio e la scrutò come avrebbe
scrutato un nido di
tarle nel suo amato legname. Si grattò distrattamente il
capo e
rispose:
«Ne
sono del tutto estraneo, grazie a Dio! Solo un pazzo vorrebbe avere a
che fare con te – sì, Archie, un pazzo».
Le
gote di Jeanette si tinsero di rosso. Archie la vide serrare con
forza i pugni.
«Come
ti permetti?» sussurrò rabbiosa. «Non
hai alcun diritto di
intrometterti nella nostra--».
«Sì,
Jeanette, ti ringrazio» la interruppe con calma il dottore,
aprendo
la porta e indicandole l'orologio appeso al muro. «Credo che
tu
debba tornare in ufficio, adesso».
Gli
occhi scuri della donna si soffermarono a lungo su di lui. Archie
sostenne il peso del suo sguardo accusatorio. Non aveva la
più
pallida idea di cosa stesse facendo. Non sapeva nemmeno dove
avesse trovato la forza di aprire la bocca. Aveva solo la sensazione
di averne avuto abbastanza per quel giorno – forse per tutta
la
vita – e ora non desiderava altro che afferrare il proprio
cappotto
e andare con Marco da Granny's. Una vocina nella
sua testa lo
ammonì timidamente. "Perché vuoi andare da Granny's?",
"perché la vista di Jeanette ti provoca questo strano
fastidio?", "perché proprio adesso,
cos'è
cambiato?". Non aveva né tempo né voglia di
indagare oltre la
natura di quel nuovo dilemma. Aveva l'impressione di muoversi nella
vita di un'altra persona, di scandagliare ciò che gli stava
accadendo com'era solito fare con le storie dei propri pazienti. Ed
era incredibile, ancora più incredibile dell'improbabile
accusa di
Jeanette di avere una storia con Ruby – quella era
la più
assurda delle assurdità – perché
l'unica persona che Archie non
era mai stata in grado di psicoanalizzare era se stesso. Non ci aveva
mai nemmeno provato.
Ma
quella volta c'era qualcosa di diverso nell'indignazione sul volto di
Jeanette. C'era qualcosa che non riusciva più a tollerare,
qualcosa
nella sua voce, qualcosa nel acuto tintinnare dei suoi bracciali
d'oro, qualcosa in lei.
«Ci
vediamo a casa, Jeanette».
Archie
riuscì quasi a leggerle nelle mente. Lo avrebbe davvero
fatto a
pezzi? La signora Lucas ne era sempre stata così convinta
che
ora l'eventualità non gli appariva nemmeno tanto remotamente
quanto
avrebbe dovuto. E invece Jeanette sollevò le dita tremanti,
si passò
una mano fra i capelli e rimase immobile, profondamente offesa. Senza
aggiungere altro, se ne uscì sbattendosi la porta alle
spalle.
Archie si gustò il meraviglioso suono del silenzio.
«Ehi»
lo richiamò Marco qualche secondo dopo. «Che ti
sta succedendo?».
Archie
prese il proprio cappotto e guardò l'amico con espressione
distante.
Marco lo stava fissando con un sorriso incredulo sulle labbra e un
lampo soddisfatto negli occhi.
«Di
che parli?».
«Hai
cacciato Jeanette dal tuo studio» ribadì con una
risatina. «Santo
cielo, Archie... erano anni che aspettavo di
vedertelo fare.
Quando la butterai anche fuori di casa?».
«Sono
solo sciocchezze, Marco».
«E
questa storia che paghi la macchina alla giovane Ruby,
cosa--?».
«Io
non le sto pagando la macchina» esclamò
esasperato il dottore,
sfilando il vecchio giubbotto dell'amico dall'attaccapanni e
lanciandoglielo addosso. «È solo un
prestito».
Marco
acciuffò al volo il giubbotto e si lasciò andare
ad una risatina.
«Lei
ti piace, eh?».
Archie
arrossì per l'ennesima volta.
«Ma
che...? No. Marco, per l'amor del
cielo...».
«Va
bene, va bene... lasciamo cadere la questione»
tagliò corto l'uomo,
sollevando una mano in segno di resa. Si cacciò il berretto
in testa
e rivolse all'amico un'ultima occhiata eloquente prima di precederlo
nel corridoio. «Ma ti sta succedendo qualcosa, amico mio. Ti
suggerisco di rivalutare un po' cosa vuoi fare della tua
vita».
Era
quello il problema alla base di ogni cosa, pensò fra
sé Archie: non
ne aveva la minima idea.
*
Jiminy
non aveva mai visto una creatura tanto grossa e feroce quanto il lupo
che si ergeva davanti a lui. La luce della luna scintillava sul suo
ispido pelo grigio, le sue gigantesche zanne gocciolavano sangue
sull'erba umida e ad ogni suo passo la terra sotto le zampette di
Jiminy pareva tremare. Intimorito, il piccolo insetto respirava
appena.
Non
appena aveva visto cos'era rimasto degli uomini di Regina –
cosa
Red ne avesse fatto – era raggelato. Ancora una volta, aveva
tremendamente sottovalutato la situazione.
Si
librò all'altezza del muso della creatura e
iniziò a ondeggiare a
destra e a sinistra. Sperava solo di essere abbastanza svelto da
scampare alle sue fauci.
«Red?»
pigolò insistente. «Red, sii brava, vieni con
me».
Il
lupo cacciò un poderoso ululato e il cuoricino di Jiminy
perse un
battito. La notte si stava facendo sempre più fredda e il
vento che
soffiava fra le fronde della foresta sembrava voler imitare il
raccapricciante verso dell'animale.
«Vieni!»
la incitò con forza l'insetto.
«Seguimi!».
Fu
questione di un istante. Il grosso lupo balzò nel grossolano
tentativo di afferrare Jiminy, ma era troppo piccolo e sfuggente;
evitò con facilità i suoi artigli e
iniziò a volare con tutte le
proprie forze in direzione dei grandi alberi che costeggiavano il
limitare del castello. Le sue piccole ali fremevano ansiose, mentre
l'eco sordo delle zampate di Red gli tuonava nelle orecchie.
«Coraggio,
coraggio...» si disse, voltandosi appena per controllare che
il lupo
lo stesse ancora seguendo. «Avanti, ci sei
quasi...».
Non
appena ebbe raggiunto il cespuglio dietro il quale era stato nascosto
con Red, schizzò verso l'alto e svanì fra le
foglie scure dei rami
più bassi. Il lupo si fermò ai piedi del tronco,
si alzò sulle
zampe anteriore e cercò di arrampicarsi con fare grossolano.
Si levò
un secondo ululato carico di rabbia e proprio quando pareva che la
creatura sarebbe scomparsa nella foresta, Jiminy riuscì a
far
scivolare la mantellina magica dal ramo sul quale Red l'aveva
lanciata alla testa delle creatura ringhiante. Attese di vedere il
potere della stoffa fare effetto, e solo quando fu in grado di
scorgere la piccola mano pallida di Red fare capolino nell'erba
riprese a respirare.
Scivolò
lentamente su di lei, incapace di trattenere la propria
preoccupazione.
«Stai
bene?».
La
giovane fece un mormorio doloroso e si alzò a carponi.
Jiminy si
ritrasse sconcertato: grossi rivoli di sangue scendevano dalle labbra
al mento, inzuppandole il collo e la camicetta. Red si coprì
una
mano con il viso, poi si piegò in avanti e diede di stomaco.
Incurante dell'acre odore del sangue fresco, Jiminy le volò
accanto.
«Sono
qui, Red».
«S-sì...»
mormorò lei, ripulendosi distrattamente il viso con il
cappuccio
rosso. «Sei s-stato... b-bravo».
«Riesci
ad alzarti?».
«Oh,
credo proprio di sì...» esalò con
enorme fatica lei, aggrappandosi
saldamente al tronco dell'albero e rimettendosi in piedi. «Ho
solo
la pancia un po' appesantita».
«Red».
«No,
Jiminy» lo fermò di colpo lei, alzando un indice a
mo' di monito.
«Non è il momento di parlare. Dobbiamo tornare da
Snow al più
presto».
Il
grillo la precedette nel bosco, voltandosi di tanto in tanto per
controllare che stesse bene. Il volto di Red era verdognolo e i suoi
occhi erano stanti e arrossati. Continuava a stringere febbrilmente
l'orlo del mantello. Dopo qualche minuti, per Jiminy fu troppo. Si
bloccò e la guardò in viso con aria
incredibilmente serie.
«Non
commiserarti. Hai fatto ciò che era giusto fare».
Parve
stupita dalle sue parole. Inclinò piano la testa e gli fece
un
sorriso tirato.
«Da
quando Jiminy Cricket sostiene spargimenti di sangue?».
«Da
quando tu ne hai bisogno» ribatté d'impulso
l'insetto. Abbassò la
piccola testa e fece un lieve sospiro. «Red, tu non sei un
mostro».
Le
labbra della ragazza si piegarono in una smorfia scocciata.
«No...
certo che no» sbuffò sarcastica.
«Non
è stata tua la scelta di essere il lupo, ma l'hai combattuto
ugualmente con indomito coraggio e ora che quasi potresti
controllarlo, ora che possiedi quest'arma terrificante, continui a
non volerla utilizzare per il tuo tornaconto. Hai idea di come
potresti sfruttare la paura degli uomini a tuo favore?».
«È
una cosa orrenda, non--».
«Ed
è questo che non ti rende un mostro. Ti rende... te.
E tu sei
una persona meravigliosa».
Red
dischiuse le labbra, ma non disse una parola. Rimase a guardare il
piccolo amico con un'espressione grata e vagamente incredula, le
braccia incrociate al petto e un sopracciglio appena inarcato.
«Sai,
se non avessi appena cenato ti schioccherei un bacio fra quelle
adorabili antenne, Jiminy» ridacchiò lei,
scuotendo la testa.
«Ti
prego, non farlo: sono sempre stato un disastro con le donne».
Red
scoppiò a ridere e Jiminy si riempì di orgoglio
nel sapere di
averle riportato il sorriso. Non importava che fosse destinato a
durare poco, non importava che il plenilunio sarebbe tornato presto,
non importava nemmeno che la battaglia con Regina fosse ormai
irrimediabilmente alle porta: lui avrebbe trovato il tempo di sentire
la sua risata in qualunque posto.
*
Archie
si appoggiò al davanzale della finestra con la tazza di
camomilla
bollente fra le mani. Si sentiva terribilmente stanco, ma non
riusciva a prendere sonno. Sentì la risata sguaiata di
Jeanette
provenire dal salotto e si domandò quanto ancora mancasse al
termine
di quello stupido programma televisivo. Soffiò
distrattamente
sull'infuso bollente e la sua mente si spostò sul piccolo
Henry. Non
poteva credere che fosse davvero andato a cercare
la madre
biologica, alla fine. Quella storia stava prendendo una piega
alquanto complessa, e Archie temeva per la sicurezza psicologica del
ragazzino. Regina non l'avrebbe presa affatto bene e lui, il medico
pagato per controllare gli sviluppi del ragazzo, si sarebbe trovato
in un sacco di guai.
Non
poteva smontare le sue storie di fate e orchi. Regina avrebbe potuto
ripeterglielo all'infinito, ma Archie aveva troppo a cuore
l'interesse di Henry per fare una cosa simile.
Aveva
appena appoggiato le labbra alla tazza, quando la sua attenzione fu
calamitata dalla torre del comune di Storybrooke.
Assottigliò le
palpebre e per qualche momento credette di doversi ripulire gli
occhiali.
Il
grosso orologio segnava le nove e trenta.
Archie
scosse stupefatto il capo e fece una smorfia divertita.
«Ehi,
Jeanette!» esclamò. «Vorresti indovinare
cos'ha appena ripreso a
funzionare?».
Non
ricevendo risposta, Archie si diresse verso il salotto, si
appoggiò
allo stipite della porta e si rivolse direttamente alla donna.
Jeanette era abbandonata sgraziatamente sul divano, con i piedi
appoggiati sul pouf e lo smalto fresco che brillava alla luce del
televisore. Stava guardando uno di quei ridicoli programmi reality
che tanto la facevano sghignazzare.
Jeanette
lo scrutò torva.
«Che
vuoi? Sto guardando la tv».
«L'orologio
funziona» ripeté lui, indicando la finestra con un
cenno del capo.
Lei
fissò distrattamente oltre il vetro, fece le spallucce e
tornò a
concentrarsi sul programma televisivo.
«Sai
quanto me ne importa di quello stupido orologio».
Archie
rimase a fissarla con sguardo perso. Guardò i suoi capelli
rossi,
così volgari, così tinti,
acconciati malamente sulla cima
del capo; i suoi polsi magri e le dita ossute che stringevano il
telecomando; i suoi piedi secchi, con le unghie rosse e squadrate, e
poi c'era la sua risata, così grassa, così
sfrontata, così
fastidiosa... e poi qualcosa nella testa di Archie si ruppe.
Le
sue labbra si incresparono in un vago sorrisetto. Scuoteva divertito
il capo e poco dopo scoppiò in una risata febbrile.
Attraversò a
grandi passi il salotto, si diresse in camera da letto ed estrasse
una valigia dall'armadio. Mentre vi riponeva all'interno i propri
abiti, aveva preso a fischiettare e canticchiare una vecchia
filastrocca per bambini. Chiunque lo avesse visto in quel momento,
con la faccia stralunata di folle spensieratezza, gli avrebbe
suggerito un bravo psichiatra.
«When
you wish upon a star» borbottava allegramente,
arrotolando con
gesto sicuro le cravatte. «Makes no difference who
you are...».
La
voce di Jeanette riempì d'un tratto le pareti.
«Archie!
Che diavolo stai facendo?».
«Anything
you heart desires...».
«Archie!»
gridò di nuovo la donna, facendo finalmente capolino nella
stanza.
Spalancò la bocca nel vederlo in procinto di fare i bagagli
e lo
fissò sconcertata. «Che stai facendo!?».
«Me
ne vado» rispose con naturalezza. «Mi sembra
ovvio».
«Tu...
cosa!?».
Lui
la fissò con espressione raggiante. Poi sfilò gli
occhiali, li
ripulì con noncuranza e aggiunse:
«Oh,
è una cosa che desideravo fare da anni!».
Richiuse
la valigia con un colpo secco e superò canticchiando
Jeanette. La
donna non sembrava in grado di muoversi. Era rimasta immobile, con la
mano appoggiata sullo stipite e lo smalto fresco ormai del tutto
sbavato.
«Archie!»
cercò di fermarlo dopo qualche istante, correndo lungo la
sua scia.
«Archie, non essere ridicolo, cosa sta...?».
«When
you dream come true...!».
«Smetti
di cantare!».
Jeanette
si infilò le mani fra i capelli. Aveva un'aria allucinata
quanto
quella dell'uomo che armeggiava con la sciarpa.
«Mi
stai... lasciando?» sibilò con
gli occhi fuori dalle orbite.
«Sì»
rispose senza la minima esitazione lui, regalandole un sorriso da
orecchio a orecchio. «Non ti senti incredibilmente
più leggera?».
«No!».
«Beh,
dovresti».
Aprì
la porta e infilò il sentiero del cortile senza voltarsi.
Poi portò
l'indice e il pollice alla labbra ed emise un lungo fischio acuto. Si
udì l'eco di un cane abbaiare dal retro del giardino, e
pochi
istanti dopo il dalmata era già al suo fianco e scodinzolava
felice.
Archie gli carezzò rapidamente la testa. Jeanette lo
seguì fino in
strada, tenendosi stretta la vestaglia verde e strascicando le
ciabatte di pelo.
«Non
puoi andartene!» strillava furiosa. «Non puoi,
Archie! Non
puoi!».
«Makes
no difference who you are...».
«Sei
pazzo! Tu sei pazzo!».
Archie
si voltò sul marciapiede, sistemò il cappello
sulla testa e scoppiò
in una risata liberatoria.
«Non
lo trovi meraviglioso?».
«C-cosa?»
balbettò lei, aggrappandosi disperata al cancellino.
«Archie!».
Ma
lui si era già incamminato, e Jeanette non poté
far altro che
guardarlo allontanarsi dalla casa – la loro casa
– e da
lei. Sentì la rabbia sostituire rapidamente l'iniziale
stupore. Era
come se qualcuno le avesse gettato addosso una secchiata d'acqua
gelida. Si sentiva svuotata, stordita, tradita.
«Archie,
io ti amo!».
La
risata pazza di Archie risuonò ancora una volta per la via
deserta.
«No,
tesoro, non lo hai mai fatto!» la corresse placidamente.
«E grazie
al cielo nemmeno io!».
A
Jeanette non rimase altro che l'orripilante ricordo di quella
ridicola canzoncina nelle orecchie. Archie si affrettò a
muoversi
nella notte, fischiettando beato e correndo di tanto in tanto,
divertendosi nel vedere Pongo trotterellargli dietro con aria
altrettanto libera. C'era qualcosa di pazzo nell'aria di quella sera,
qualcosa che Archie non aveva mai assaporato, e qualunque cosa fosse
ne era già inebriato.
Quando
varcò la soglia del bed&breakfast della signora
Lucas, stava
ancora cantando. L'anziana donna era seduta su una poltroncina del
modesto soggiorno, ma sollevò di colpo il volto dal lavoro a
maglia
che stava portando avanti. Strabuzzò gli occhi nel
ritrovarsi Archie
davanti, con quel sorriso idiota sulla faccia e gli occhiali storti.
«Buonasera»
la salutò con brio. «Credo di aver bisogno di una
camera».
Ripresa
dallo shock iniziale, la signora Lucas si alzò in piedi e si
avvicinò cauta a lui.
«Archie,
ti senti bene?».
«Ho
lasciato Jeanette».
La
donna rimase ammutolita. Lo scrutò con incredibile
serietà per
qualche istante, con le labbra serrate in una linea rigida, poi
scoppiò a ridere. Dovette appoggiarsi al piccolo bancone e
nel
vederla tanto felice Archie si ritrovò a farle rapidamente
eco. Le
loro risate attirarono l'attenzione di Ruby, che si sporse dalle
scale e mostrò lo stesso sconcerto della nonna nel
ritrovarseli
entrambi in quelle condizioni.
«Porca
misera» affermò sconvolta. «Siete
ubriachi».
Archie
cercò di mantenere il proprio contegno, ma l'espressione di
Ruby era
terribilmente buffa e quella notte c'era davvero qualcosa
di
pazzo, assurdo e scanzonato e fuori di testa là fuori. La
guardò
negli occhi e sorrise come un ebete.
«Non
ancora» rise. «Avresti del bourbon?».
*
Note:
Ciò
che capita nella Foresta
Incantata si rifà all'episodio 01x20, dove Red pare banchettare
con i soldati di Regina – o così mi pareva di
ricordare, almeno.
So solo che ho adorato la battuta di Grumpy: «Ehi, Red, hai
del
sangue proprio qui».
Archie
canticchia When
You Wish
upon a Star,
ovviamente,
l'adorabile canzone che Cliff Edwards canta nei panni di Jiminy
Cricket nella versione originale di Pinocchio.
Mi
sembrava stranamente calzante.
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