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Autore: Trick    12/10/2012    2 recensioni
La vita del dottor Archie Hopper trascorre nella monotonia come qualunque altra vita di qualunque altro abitante della cittadina di Storybrooke, ma da quando il piccolo Henry Mills è diventato il suo paziente prediletto, le cose hanno iniziato a prendere una piega ben più inaspettata. Nel frattempo, nel regno delle fiabe, Jiminy Cricket decide finalmente di fare la cosa giusta.
Una caccia a un burattino, un cruciverba incompleto, una mantella magica, l'assicurazione di una macchina rossa da pagare e i conti da fare con l'altra vita, con le altre scelte, quando la maledizione si spezza.
|Ruby/Archie|
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Archibald Hopper/Grillo Parlante, Cappuccetto Rosso/Ruby, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Storia di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 3 - L'orologio

*

«Non sei obbligata a farlo, Red».
La ragazza alzò la testa verso il piccolo grillo appollaiato sulla sua spalla. Era nascosti in un folto cespuglio di more a qualche miglio di distanza dal castello di Regina ormai da parecchio tempo, ma nessuno dei due aveva ancora avuto il coraggio di parlare. L'aria fra di loro sembrava rarefatta.
«Certo che lo sono» mormorò piano lei, lisciando una piega inesistente nella gonna. «E lo sei anche tu».
«No, non--».
«Jiminy» lo ammonì con un sorriso tirato. «Ne abbiamo già discusso. Qualcuno deve occuparsi delle guardie della regina e io sono l'unica che può uscirne illesa».
«Stiamo agendo con troppa irruenza. Sono certo che si possa trovare una soluzione più sicura».
Red emise un vago sbuffo divertito.
«Forse, ma non sarebbe la più efficace».
Il piccolo insetto abbassò le antenne, scuotendo debole il capo. Aveva trascorso intere nottate a tormentarsi nella ricerca di un piano diverso, più saggio, che non comportasse sguinzagliare la bestia che si annidava in Red contro gli eserciti di Regina, ma aveva fallito. Complice la forte amicizia che la legava a Snow White, la ragazza aveva deciso di acconsentire a quella pazzia. Jiminy temeva che ne avrebbe portato i segni per troppo tempo; forse non riusciva a rendersi conto dell'entità di ciò che si stava per fare – e forse non lo aveva capito nemmeno lui.
Ma dovevano fare qualcosa, e questa era purtroppo l'unica certezza che era rimasta a tutti loro. Il principe James era in balia della regina e non potevano permettere che il regno cadesse nelle sue perfide mani. Eppure Jiminy aveva tanto sperato che si fosse potuto trovare un metodo meno barbaro... qualcosa che non comportasse la sofferenza di Red.
«Red, non--».
«No, Jiminy» lo interruppe con maggiore decisione. «Smettila, o finirai per convincermi sul serio e io non combinerò niente. Devo farlo. Tutti e due dobbiamo farlo. Non puoi mollarmi adesso: ho bisogno di te. Qualcuno deve cacciarmi addosso il mantello».
«E se non potessi farlo?».
Lei gli rivolse un'occhiata interrogativa.
«Sei Jiminy Cricket» disse con naturalezza. «Sei quello che riporta la gente alla ragione. Certo che puoi farlo. Sei l'unico che può farlo. Non posso rischiare di...» si bloccò d'un tratto e fece un breve sospiro. «Tu sei un grillo. Non ti mangerei mai, mi rimarresti sullo stomaco».
Jiminy intuiva il suo bisogno di sdrammatizzare la questione, ma non riusciva a lasciarsi andare. In un'altra occasione avrebbe riso – rideva sempre, con lei – ma non in quel momento. Non lì, non sotto la luna piena che sembrava prenderli in giro, non con quel compito oneroso che si era visto poggiare sulle piccole spalle.
«Riportami qui, Jiminy. Sei l'unico che può farlo senza attirare l'attenzione della regina. Tu sei...».
«Piccolo, verde e pressoché invisibile» ripeté lui per la centesima volta. «Sì, e tu stai per commettere un grave errore di cui rischi di pentirti».
«Forse» rispose con voce grave la ragazza, lanciando un'occhiata penosa alla luna. «Ma avrò la fortuna di avere una vocina al mio fianco con il buon senso di ricordarmi perché l'ho fatto».
Gli rivolse un ultimo sorriso triste e si alzò in piedi. Jiminy le svolazzò apprensivo accanto e trasalì nel vederla slacciare la corda che teneva stretta la mantella magica.
«Red, sei ancora--».
«Jiminy, non costringermi a mangiarti sul serio» cercò di scherzare. Poi il suo sguardo si fece nuovamente serio e la sua voce tremò di paura. «Farai in fretta?».
Lui cercò di soffocare in un angolo della gola la propria rassegnazione e annuì debolmente.
«Come se avessi le ali, amica mia».

*

I colpi alla porta sopraggiunsero così improvvisi e violenti che Archie e Marco sobbalzarono allo stesso modo.
Erano seduti sul divano dello studio del dottore e avevano appena deciso che sarebbero andati da Granny's per uno spuntino. Era un rituale che si ripeteva spesso, il loro, e nessuno dei due uomini vi avrebbe mai rinunciato – inoltre Archie era l'unica conoscenza di Marco disposta a mangiare le croste del pane che scartava. Si conoscevano da così tanto tempo che talvolta stentavano entrambi a ricordare da quanto tempo fossero così in intimità. La loro era una di quelle amicizia rare e ponderate che cresce con la calma e la forza di una quercia, con le radici solide e le foglie che cadono, sì, ma poi ricrescono sempre all'arrivo della primavera. Talvolta non avevano nemmeno bisogno di parlare. Si capivano e basta, come se fosse questione di alchimia, come se fosse magia.
«Archie!» strillò la voce infuriata di Jeanette dal corridoio. «Aprimi!».
Marco emise un lungo e sfibrato gemito di disappunto, ma Archie lo ignorò e si diresse con calma verso la porta. Era perfettamente a conoscenza della scarsa opinione che l'amico aveva sempre riservato a Jeanette e per quanto avesse cercato di mostrarne anche i lati positivi, aveva sempre fallito. Quando Archie gli confidava questa o quella cosa combinata da Jeanette, le sue mille paranoie, le sue sbottate, i suo problemi con Pongo, Marco scuoteva la testa con un sorrisino saputo e ripeteva a oltranza quanto ritenesse illogica la loro relazione. Non avrebbe potuto avere più ragione di dirlo.
Archie non aveva ancora aperto la porta del tutto che Jeanette aveva già iniziato a sventolargli davanti al viso un plico di fogli bianchi. Sembrava particolarmente arrabbiata.
«Che significa!?» sbottò di colpo, del tutto incurante della presenza di Marco sul divano. Lui, d'altronde, sembrava stesse cercando di nascondere un sorrisetto inopportuno. «Che diavolo vuol dire, Archie!?».
«C-cosa?» chiese confuso l'interessato. «Di cosa stai parlando?».
«Di questo!» gridò enfaticamente lei, lanciando i fogli sulla scrivania del dottore. «Di te! Di Ruby Lucas! Di te che le paghi l'assicurazione della macchina! Di', che ti è passato per la testa!?».
L'uomo si aggiustò compostamente gli occhiali e sbirciò rapidamente i resoconti dei suoi movimenti bancari che Jeanette aveva portato. Poi la sua bocca si storse in una vaca smorfia infastidita.
«Perché controlli il mio conto corrente?».
«E perché tu le paghi la macchina!?» ribatté la donna piccata, sbattendo un tacco sul pavimento con stizza. Poi sul suo viso comparve un'espressione di feroce comprensione e le sue palpebre si assottigliarono come quelli di una belva in procinto di attaccare. «Vai a letto con quella ragazzina!?».
Marco non riuscì a trattenersi oltre e cercò malamente di nascondere una mezza risata nel bavero del cappotto. Al contrario, Archie era arrossito e aveva sgranato sconcertato gli occhi, incapace di credere alle parole che aveva appena sentito.
«Ma che... certo che no» rispose in fretta, fissando incredulo la donna dinanzi a sé. «E non... non le ho pagato la macchina. È solo un prestito».
«Un prestito!? È così che si chiama, ora?».
«È così che si è sempre chiamato, Jeanette».
Lo sbuffo di Marco costrinse Jeanette a voltarsi verso di lui. L'uomo teneva il capo appoggiato alla mano e tutto sul suo viso lasciava trasparire il proprio divertimento. Archie avrebbe voluto ammonirlo, lanciargli qualsiasi oggetto contundente, ma la verità era che la reazione scanzonata di Marco gli impediva di prendere seriamente l'insana sfuriata di Jeanette. Ed era quello che aveva sempre cercato di fare, dopotutto: smetterla di prenderla sul serio ogni volta.
«Cosa può mai farti così tanto ridere?» sibilò Jeanette verso Marco, puntandogli contro l'indice. «Cosa c'entri tu in questa storia?».
L'uomo inarcò un sopracciglio e la scrutò come avrebbe scrutato un nido di tarle nel suo amato legname. Si grattò distrattamente il capo e rispose:
«Ne sono del tutto estraneo, grazie a Dio! Solo un pazzo vorrebbe avere a che fare con te – sì, Archie, un pazzo».
Le gote di Jeanette si tinsero di rosso. Archie la vide serrare con forza i pugni.
«Come ti permetti?» sussurrò rabbiosa. «Non hai alcun diritto di intrometterti nella nostra--».
«Sì, Jeanette, ti ringrazio» la interruppe con calma il dottore, aprendo la porta e indicandole l'orologio appeso al muro. «Credo che tu debba tornare in ufficio, adesso».
Gli occhi scuri della donna si soffermarono a lungo su di lui. Archie sostenne il peso del suo sguardo accusatorio. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo. Non sapeva nemmeno dove avesse trovato la forza di aprire la bocca. Aveva solo la sensazione di averne avuto abbastanza per quel giorno – forse per tutta la vita – e ora non desiderava altro che afferrare il proprio cappotto e andare con Marco da Granny's. Una vocina nella sua testa lo ammonì timidamente. "Perché vuoi andare da Granny's?", "perché la vista di Jeanette ti provoca questo strano fastidio?", "perché proprio adesso, cos'è cambiato?". Non aveva né tempo né voglia di indagare oltre la natura di quel nuovo dilemma. Aveva l'impressione di muoversi nella vita di un'altra persona, di scandagliare ciò che gli stava accadendo com'era solito fare con le storie dei propri pazienti. Ed era incredibile, ancora più incredibile dell'improbabile accusa di Jeanette di avere una storia con Ruby – quella era la più assurda delle assurdità – perché l'unica persona che Archie non era mai stata in grado di psicoanalizzare era se stesso. Non ci aveva mai nemmeno provato.
Ma quella volta c'era qualcosa di diverso nell'indignazione sul volto di Jeanette. C'era qualcosa che non riusciva più a tollerare, qualcosa nella sua voce, qualcosa nel acuto tintinnare dei suoi bracciali d'oro, qualcosa in lei.
«Ci vediamo a casa, Jeanette».
Archie riuscì quasi a leggerle nelle mente. Lo avrebbe davvero fatto a pezzi? La signora Lucas ne era sempre stata così convinta che ora l'eventualità non gli appariva nemmeno tanto remotamente quanto avrebbe dovuto. E invece Jeanette sollevò le dita tremanti, si passò una mano fra i capelli e rimase immobile, profondamente offesa. Senza aggiungere altro, se ne uscì sbattendosi la porta alle spalle. Archie si gustò il meraviglioso suono del silenzio.
«Ehi» lo richiamò Marco qualche secondo dopo. «Che ti sta succedendo?».
Archie prese il proprio cappotto e guardò l'amico con espressione distante. Marco lo stava fissando con un sorriso incredulo sulle labbra e un lampo soddisfatto negli occhi.
«Di che parli?».
«Hai cacciato Jeanette dal tuo studio» ribadì con una risatina. «Santo cielo, Archie... erano anni che aspettavo di vedertelo fare. Quando la butterai anche fuori di casa?».
«Sono solo sciocchezze, Marco».
«E questa storia che paghi la macchina alla giovane Ruby, cosa--?».
«Io non le sto pagando la macchina» esclamò esasperato il dottore, sfilando il vecchio giubbotto dell'amico dall'attaccapanni e lanciandoglielo addosso. «È solo un prestito».
Marco acciuffò al volo il giubbotto e si lasciò andare ad una risatina.
«Lei ti piace, eh?».
Archie arrossì per l'ennesima volta.
«Ma che...? No. Marco, per l'amor del cielo...».
«Va bene, va bene... lasciamo cadere la questione» tagliò corto l'uomo, sollevando una mano in segno di resa. Si cacciò il berretto in testa e rivolse all'amico un'ultima occhiata eloquente prima di precederlo nel corridoio. «Ma ti sta succedendo qualcosa, amico mio. Ti suggerisco di rivalutare un po' cosa vuoi fare della tua vita».
Era quello il problema alla base di ogni cosa, pensò fra sé Archie: non ne aveva la minima idea.

*

Jiminy non aveva mai visto una creatura tanto grossa e feroce quanto il lupo che si ergeva davanti a lui. La luce della luna scintillava sul suo ispido pelo grigio, le sue gigantesche zanne gocciolavano sangue sull'erba umida e ad ogni suo passo la terra sotto le zampette di Jiminy pareva tremare. Intimorito, il piccolo insetto respirava appena.
Non appena aveva visto cos'era rimasto degli uomini di Regina – cosa Red ne avesse fatto – era raggelato. Ancora una volta, aveva tremendamente sottovalutato la situazione.
Si librò all'altezza del muso della creatura e iniziò a ondeggiare a destra e a sinistra. Sperava solo di essere abbastanza svelto da scampare alle sue fauci.
«Red?» pigolò insistente. «Red, sii brava, vieni con me».
Il lupo cacciò un poderoso ululato e il cuoricino di Jiminy perse un battito. La notte si stava facendo sempre più fredda e il vento che soffiava fra le fronde della foresta sembrava voler imitare il raccapricciante verso dell'animale.
«Vieni!» la incitò con forza l'insetto. «Seguimi!».
Fu questione di un istante. Il grosso lupo balzò nel grossolano tentativo di afferrare Jiminy, ma era troppo piccolo e sfuggente; evitò con facilità i suoi artigli e iniziò a volare con tutte le proprie forze in direzione dei grandi alberi che costeggiavano il limitare del castello. Le sue piccole ali fremevano ansiose, mentre l'eco sordo delle zampate di Red gli tuonava nelle orecchie.
«Coraggio, coraggio...» si disse, voltandosi appena per controllare che il lupo lo stesse ancora seguendo. «Avanti, ci sei quasi...».
Non appena ebbe raggiunto il cespuglio dietro il quale era stato nascosto con Red, schizzò verso l'alto e svanì fra le foglie scure dei rami più bassi. Il lupo si fermò ai piedi del tronco, si alzò sulle zampe anteriore e cercò di arrampicarsi con fare grossolano. Si levò un secondo ululato carico di rabbia e proprio quando pareva che la creatura sarebbe scomparsa nella foresta, Jiminy riuscì a far scivolare la mantellina magica dal ramo sul quale Red l'aveva lanciata alla testa delle creatura ringhiante. Attese di vedere il potere della stoffa fare effetto, e solo quando fu in grado di scorgere la piccola mano pallida di Red fare capolino nell'erba riprese a respirare.
Scivolò lentamente su di lei, incapace di trattenere la propria preoccupazione.
«Stai bene?».
La giovane fece un mormorio doloroso e si alzò a carponi. Jiminy si ritrasse sconcertato: grossi rivoli di sangue scendevano dalle labbra al mento, inzuppandole il collo e la camicetta. Red si coprì una mano con il viso, poi si piegò in avanti e diede di stomaco. Incurante dell'acre odore del sangue fresco, Jiminy le volò accanto.
«Sono qui, Red».
«S-sì...» mormorò lei, ripulendosi distrattamente il viso con il cappuccio rosso. «Sei s-stato... b-bravo».
«Riesci ad alzarti?».
«Oh, credo proprio di sì...» esalò con enorme fatica lei, aggrappandosi saldamente al tronco dell'albero e rimettendosi in piedi. «Ho solo la pancia un po' appesantita».
«Red».
«No, Jiminy» lo fermò di colpo lei, alzando un indice a mo' di monito. «Non è il momento di parlare. Dobbiamo tornare da Snow al più presto».
Il grillo la precedette nel bosco, voltandosi di tanto in tanto per controllare che stesse bene. Il volto di Red era verdognolo e i suoi occhi erano stanti e arrossati. Continuava a stringere febbrilmente l'orlo del mantello. Dopo qualche minuti, per Jiminy fu troppo. Si bloccò e la guardò in viso con aria incredibilmente serie.
«Non commiserarti. Hai fatto ciò che era giusto fare».
Parve stupita dalle sue parole. Inclinò piano la testa e gli fece un sorriso tirato.
«Da quando Jiminy Cricket sostiene spargimenti di sangue?».
«Da quando tu ne hai bisogno» ribatté d'impulso l'insetto. Abbassò la piccola testa e fece un lieve sospiro. «Red, tu non sei un mostro».
Le labbra della ragazza si piegarono in una smorfia scocciata.
«No... certo che no» sbuffò sarcastica.
«Non è stata tua la scelta di essere il lupo, ma l'hai combattuto ugualmente con indomito coraggio e ora che quasi potresti controllarlo, ora che possiedi quest'arma terrificante, continui a non volerla utilizzare per il tuo tornaconto. Hai idea di come potresti sfruttare la paura degli uomini a tuo favore?».
«È una cosa orrenda, non--».
«Ed è questo che non ti rende un mostro. Ti rende... te. E tu sei una persona meravigliosa».
Red dischiuse le labbra, ma non disse una parola. Rimase a guardare il piccolo amico con un'espressione grata e vagamente incredula, le braccia incrociate al petto e un sopracciglio appena inarcato.
«Sai, se non avessi appena cenato ti schioccherei un bacio fra quelle adorabili antenne, Jiminy» ridacchiò lei, scuotendo la testa.
«Ti prego, non farlo: sono sempre stato un disastro con le donne».
Red scoppiò a ridere e Jiminy si riempì di orgoglio nel sapere di averle riportato il sorriso. Non importava che fosse destinato a durare poco, non importava che il plenilunio sarebbe tornato presto, non importava nemmeno che la battaglia con Regina fosse ormai irrimediabilmente alle porta: lui avrebbe trovato il tempo di sentire la sua risata in qualunque posto.

*

Archie si appoggiò al davanzale della finestra con la tazza di camomilla bollente fra le mani. Si sentiva terribilmente stanco, ma non riusciva a prendere sonno. Sentì la risata sguaiata di Jeanette provenire dal salotto e si domandò quanto ancora mancasse al termine di quello stupido programma televisivo. Soffiò distrattamente sull'infuso bollente e la sua mente si spostò sul piccolo Henry. Non poteva credere che fosse davvero andato a cercare la madre biologica, alla fine. Quella storia stava prendendo una piega alquanto complessa, e Archie temeva per la sicurezza psicologica del ragazzino. Regina non l'avrebbe presa affatto bene e lui, il medico pagato per controllare gli sviluppi del ragazzo, si sarebbe trovato in un sacco di guai.
Non poteva smontare le sue storie di fate e orchi. Regina avrebbe potuto ripeterglielo all'infinito, ma Archie aveva troppo a cuore l'interesse di Henry per fare una cosa simile.
Aveva appena appoggiato le labbra alla tazza, quando la sua attenzione fu calamitata dalla torre del comune di Storybrooke. Assottigliò le palpebre e per qualche momento credette di doversi ripulire gli occhiali.
Il grosso orologio segnava le nove e trenta.
Archie scosse stupefatto il capo e fece una smorfia divertita.
«Ehi, Jeanette!» esclamò. «Vorresti indovinare cos'ha appena ripreso a funzionare?».
Non ricevendo risposta, Archie si diresse verso il salotto, si appoggiò allo stipite della porta e si rivolse direttamente alla donna. Jeanette era abbandonata sgraziatamente sul divano, con i piedi appoggiati sul pouf e lo smalto fresco che brillava alla luce del televisore. Stava guardando uno di quei ridicoli programmi reality che tanto la facevano sghignazzare.
Jeanette lo scrutò torva.
«Che vuoi? Sto guardando la tv».
«L'orologio funziona» ripeté lui, indicando la finestra con un cenno del capo.
Lei fissò distrattamente oltre il vetro, fece le spallucce e tornò a concentrarsi sul programma televisivo.
«Sai quanto me ne importa di quello stupido orologio».
Archie rimase a fissarla con sguardo perso. Guardò i suoi capelli rossi, così volgari, così tinti, acconciati malamente sulla cima del capo; i suoi polsi magri e le dita ossute che stringevano il telecomando; i suoi piedi secchi, con le unghie rosse e squadrate, e poi c'era la sua risata, così grassa, così sfrontata, così fastidiosa... e poi qualcosa nella testa di Archie si ruppe.
Le sue labbra si incresparono in un vago sorrisetto. Scuoteva divertito il capo e poco dopo scoppiò in una risata febbrile. Attraversò a grandi passi il salotto, si diresse in camera da letto ed estrasse una valigia dall'armadio. Mentre vi riponeva all'interno i propri abiti, aveva preso a fischiettare e canticchiare una vecchia filastrocca per bambini. Chiunque lo avesse visto in quel momento, con la faccia stralunata di folle spensieratezza, gli avrebbe suggerito un bravo psichiatra.
«When you wish upon a star» borbottava allegramente, arrotolando con gesto sicuro le cravatte. «Makes no difference who you are...».
La voce di Jeanette riempì d'un tratto le pareti.
«Archie! Che diavolo stai facendo?».
«Anything you heart desires...».
«Archie!» gridò di nuovo la donna, facendo finalmente capolino nella stanza. Spalancò la bocca nel vederlo in procinto di fare i bagagli e lo fissò sconcertata. «Che stai facendo!?».
«Me ne vado» rispose con naturalezza. «Mi sembra ovvio».
«Tu... cosa!?».
Lui la fissò con espressione raggiante. Poi sfilò gli occhiali, li ripulì con noncuranza e aggiunse:
«Oh, è una cosa che desideravo fare da anni!».
Richiuse la valigia con un colpo secco e superò canticchiando Jeanette. La donna non sembrava in grado di muoversi. Era rimasta immobile, con la mano appoggiata sullo stipite e lo smalto fresco ormai del tutto sbavato.
«Archie!» cercò di fermarlo dopo qualche istante, correndo lungo la sua scia. «Archie, non essere ridicolo, cosa sta...?».
«When you dream come true...!».
«Smetti di cantare!».
Jeanette si infilò le mani fra i capelli. Aveva un'aria allucinata quanto quella dell'uomo che armeggiava con la sciarpa.
«Mi stai... lasciando?» sibilò con gli occhi fuori dalle orbite.
«Sì» rispose senza la minima esitazione lui, regalandole un sorriso da orecchio a orecchio. «Non ti senti incredibilmente più leggera?».
«No!».
«Beh, dovresti».
Aprì la porta e infilò il sentiero del cortile senza voltarsi. Poi portò l'indice e il pollice alla labbra ed emise un lungo fischio acuto. Si udì l'eco di un cane abbaiare dal retro del giardino, e pochi istanti dopo il dalmata era già al suo fianco e scodinzolava felice. Archie gli carezzò rapidamente la testa. Jeanette lo seguì fino in strada, tenendosi stretta la vestaglia verde e strascicando le ciabatte di pelo.
«Non puoi andartene!» strillava furiosa. «Non puoi, Archie! Non puoi!».
«Makes no difference who you are...».
«Sei pazzo! Tu sei pazzo!».
Archie si voltò sul marciapiede, sistemò il cappello sulla testa e scoppiò in una risata liberatoria.
«Non lo trovi meraviglioso?».
«C-cosa?» balbettò lei, aggrappandosi disperata al cancellino. «Archie!».
Ma lui si era già incamminato, e Jeanette non poté far altro che guardarlo allontanarsi dalla casa – la loro casa – e da lei. Sentì la rabbia sostituire rapidamente l'iniziale stupore. Era come se qualcuno le avesse gettato addosso una secchiata d'acqua gelida. Si sentiva svuotata, stordita, tradita.
«Archie, io ti amo!».
La risata pazza di Archie risuonò ancora una volta per la via deserta.
«No, tesoro, non lo hai mai fatto!» la corresse placidamente. «E grazie al cielo nemmeno io!».
A Jeanette non rimase altro che l'orripilante ricordo di quella ridicola canzoncina nelle orecchie. Archie si affrettò a muoversi nella notte, fischiettando beato e correndo di tanto in tanto, divertendosi nel vedere Pongo trotterellargli dietro con aria altrettanto libera. C'era qualcosa di pazzo nell'aria di quella sera, qualcosa che Archie non aveva mai assaporato, e qualunque cosa fosse ne era già inebriato.
Quando varcò la soglia del bed&breakfast della signora Lucas, stava ancora cantando. L'anziana donna era seduta su una poltroncina del modesto soggiorno, ma sollevò di colpo il volto dal lavoro a maglia che stava portando avanti. Strabuzzò gli occhi nel ritrovarsi Archie davanti, con quel sorriso idiota sulla faccia e gli occhiali storti.
«Buonasera» la salutò con brio. «Credo di aver bisogno di una camera».
Ripresa dallo shock iniziale, la signora Lucas si alzò in piedi e si avvicinò cauta a lui.
«Archie, ti senti bene?».
«Ho lasciato Jeanette».
La donna rimase ammutolita. Lo scrutò con incredibile serietà per qualche istante, con le labbra serrate in una linea rigida, poi scoppiò a ridere. Dovette appoggiarsi al piccolo bancone e nel vederla tanto felice Archie si ritrovò a farle rapidamente eco. Le loro risate attirarono l'attenzione di Ruby, che si sporse dalle scale e mostrò lo stesso sconcerto della nonna nel ritrovarseli entrambi in quelle condizioni.
«Porca misera» affermò sconvolta. «Siete ubriachi».
Archie cercò di mantenere il proprio contegno, ma l'espressione di Ruby era terribilmente buffa e quella notte c'era davvero qualcosa di pazzo, assurdo e scanzonato e fuori di testa là fuori. La guardò negli occhi e sorrise come un ebete.
«Non ancora» rise. «Avresti del bourbon?».

*






Note: Ciò che capita nella Foresta Incantata si rifà all'episodio 01x20, dove Red pare banchettare con i soldati di Regina – o così mi pareva di ricordare, almeno. So solo che ho adorato la battuta di Grumpy: «Ehi, Red, hai del sangue proprio qui».
Archie canticchia When You Wish upon a Star, ovviamente, l'adorabile canzone che Cliff Edwards canta nei panni di Jiminy Cricket nella versione originale di Pinocchio.
Mi sembrava stranamente calzante.
   
 
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