Lady
War
Capitolo 2:
Rabbia e disperazione
Erano
passati due, no, anzi, tre minuti da quando l’allarme aveva
preso a stridere dagli altoparlanti posizionati lungo le strade.
La voce di Renny Epstain echeggiò sicura e precisa fin nei
più stretti vicoli della sede, disponendo le misure di
sicurezza, annunciando il grado di emergenza di quello che
spiegò essere un attacco da parte di Akuma: 5.
Il quinto grado… quello più alto. Non era mai
stato raggiunto, in centinaia di anni di battaglie e assalti. La
faccenda era grave, molto grave.
La gente cominciò a riversarsi nelle strade come un fiume in
piena, gridando e spingendo, in preda al panico. I bambini venivano
strattonati per le maniche dai genitori, i quali cercavano in tutti i
modi di farsi largo tra la folla per correre verso i canali di
sicurezza. Si trattava di porte alte e larghe, dalle quali
all’occorrenza potevano persino passare due carri armati alla
volta. Solitamente erano sempre chiuse ermeticamente ed era vietato
avvicinarvisi, ma in caso di emergenza estrema venivano spalancate per
permettere ai cittadini di barricarvisi dentro. All’interno
erano presenti posti letto, cibo e qualsiasi altra risorsa utile al
sostentamento della popolazione, ma in quantità limitate. Si
avevano dai sei ai dieci minuti per radunarvi quante più
persone possibili. Dopodiché, si sarebbero chiuse, e
più riaperte fino a che non si fosse dato il cessato
pericolo.
Leda era balzata fuori dal refettorio e si era precipitata nella
caffetteria, la quale si stava svuotando proprio in quel momento.
Mosse frenetica lo sguardo tra i clienti, alla ricerca di Alan,
Theodore, o di chiunque avesse riconosciuto.
- ALAN! – chiamò a squarciagola, girando attorno
ai tavoli, guardando dietro al bancone, sul retro, dove tenevano le
provviste. Non c’era nessuno, e intanto la stanza si era
svuotata. Lei era rimasta lì, da sola.
- ALAN!!! – gridò ancora più forte,
tanto da sentire la gola pizzicarle di dolore.
Corse su per le scale con una rapidità mai vista, e
aprì tempestivamente la porta della loro stanza facendola
sbattere sonoramente contro il muro. Entrò e non vide
nessuno. Tornò indietro. Attraversò la
caffetteria e il corridoio, si precipitò
nell’ingresso, vuoto.
- ALAN!!!! – urlò, e la sua voce disperata
echeggiò nell’androne deserto, come se volesse
farle capire malignamente che lei era l’unica anima rimasta
in quell’edificio. Pensò subito ai canali di
sicurezza. Alan doveva essere andato laggiù, sicuramente,
con Ted e tutti gli altri. Sì, era certamente
così. Cominciò a correre verso
l’uscita, quando le sue gambe cedettero a una potente scossa
di terremoto, che fece tremare violentemente i muri e dondolare i
lampadari. Leda cadde e terra e si guardò attorno,
sconcertata.
Che diavolo stava succedendo?!
Tentò di rialzarsi, ma non riusciva a reggersi in piedi. Le
sue gambe non ne volevano sapere di stare dritte. Sentiva la testa
spaccarsi dalla confusione, la gola bruciarle e il panico aumentare.
Sembrava di essere su un’enorme tappeto elastico, sul quale
non riuscivi a metterti in piedi per via dei sobbalzi provocati da
tutti gli altri.
Si trascinò verso l’uscita, quando su questa
crollò spaventosamente un grosso masso delle dimensioni di
una casa. Il pavimento di legno si frantumò in milioni di
schegge e la porta d’ingresso scomparve in mezzo a una nuvola
di polvere bianca e spessa. Leda venne scagliata lontano di qualche
metro a causa dell’impatto. Sbatté contro il muro
sentendo un brivido di dolore correrle lungo la schiena.
Tossì, cercando di allontanare i detriti che le volavano
attorno per soffocarla, e tutta tremolante riuscì finalmente
ad alzarsi. La scossa si era arrestata, fortunatamente, e questo non le
impedì più di correre via, per dirigersi verso
l’uscita secondaria della locanda. Quando si
ritrovò in strada, ad accoglierla fu il caos. La gente
correva disperata da un angolo all’altro della strada, i muri
degli edifici erano crollati e altri stavano ancora crollando, sotto la
pressione della forza di gravità. La cosa però
che la sconcertò di più però, era la
luce. C’era un alone luminoso e pieno attorno a lei, che
formava una forma vagamente circolare. Alzò immediatamente
lo sguardo. Poi la vide: una grossa apertura
nell’impenetrabile muro spesso e grigio che avrebbe dovuto
proteggerli. Il masso che era crollato sopra di lei poco prima era il
pezzo mancante in quel buco enorme.
Qualcosa proiettò la propria ombra su di lei, stagliandosi
al centro dell’apertura: una nera sagoma alta e magrolina, da
cui spuntavano delle ali appuntite, che si muovevano ad ogni battito.
Sopra quella che riconobbe come una testa, c’era
un’aureola. O almeno, così sembrava…
L’essere volò sopra i tetti delle case. Non
essendo più in controluce, Leda poté vederlo
più chiaramente, constatando che non aveva mai visto una
‘roba’ simile. Completamente bianco, con strani
tatuaggi attorno alle braccia e alle gambe, aveva un volto fanciullesco
e dall’aria curiosa. Sembrava un bambino, no, un angelo. Un
bambino angelico. Alcuni si fermarono e fissarono i loro occhi su di
lui, convinti che fosse una specie di creatura divina. Forse lo era. O
forse no. L’essere a quel punto tese una mano verso la folla,
e il suo volto fanciullesco e innocente sparì, sostituito da
un ghigno inquietante che solo un orribile mostro bramoso di sangue
poteva avere.
Si accesero lampi viola lungo le strade. La gente cominciò a
gridare; i bambini a piangere. Corsero al riparo dentro le case le cui
porte erano ancora aperte, o nei cunicoli offerti dai detriti degli
edifici come illusionistica promessa di salvezza. Sulla grande apertura
comparvero altri angeli, i quali si gettarono indemoniati sulla folla
sparando raggi violacei ovunque. Leda arresto la sua corsa verso la
strada. Vide le creature volanti ghignare sadiche spostandosi da un
tetto all’altro. Poi calpestò qualcosa.
Guardò e terra e il respiro le rimase bloccato in gola,
incapace di uscire. Ciò che vide la orripilò
talmente tanto che sentì lo stomaco ingarbugliarsi e un
conato di vomito salirle in gola. C’era un braccio, al quale
era attaccato il cadavere di una donna. Era completamente nero, come
carbonizzato. Puzzava di bruciato, di morte, di un odore pestilenziale
che nemmeno Leda seppe riconoscere. Uno strano fumo bianco si
sprigionava da quel corpo senza vita il cui volto era rimasto bloccato
in un’espressione straziata, urlante. Leda guardò
con attenzione quel viso, avvertendo su di sé le medesime
sensazioni. Si sentì oppressa, incapace di muoversi.
Più lo guardava, e più il peso del dolore degli
ultimi attimi di quella giovane premeva su di lei. Sentì gli
occhi riempirsi di lacrime, e la sua vista rimanere annebbiata da esse,
farsi liquida. Rimase lì, alla mercé di quel
cadavere nero e polveroso. Come spostò il piede dal braccio,
lo mandò in frantumi. Si decompose all’istante,
svanendo nell’aria come cenere. No, era proprio cenere. Il
corpo di un essere umano era appena svanito sotto i suoi occhi.
Improvvisamente, il bisogno di rivedere Alan si fece più
forte. Il terrore che potesse aver fatto la stessa fine della donna
invase gradualmente le sue membra, terrorizzandola.
Cominciò a correre.
Accanto a lei sfilarono veloci altri corpi carbonizzati: uomini, donne,
bambini… persino animali. Cercò di non guardarli,
perché sapeva che se lo avesse fatto avrebbe sputato fuori
ciò che le ribolliva nello stomaco. Dentro il suo cuore
pregava Dio che suo fratello e Theodore ci fossero ancora. Desiderava
rivederli con tutta sé stessa.
Davanti a lei si stagliò l’immensa folla composta
dagli abitanti della sede. Gli esseri bianchi volavano sopra le loro
teste con quel loro maledetto ghigno sempre stampato in volto,
uccidendo chiunque volessero. In quelle condizioni, con la gente che si
accalcava, spingeva e persino calpestava per arrivare alla propria
salvezza, ci sarebbe stato poco da fare. Leda non aveva la minima
intenzione di imbottigliarsi anche lei in quel traffico di persone
urlanti, dentro al quale avrebbe fatto sicuramente una fine analoga a
quella dei corpi carbonizzati lungo la strada. Così
scattò di lato, imboccando un vicolo deserto che la
portò abbastanza distante dal caos. Seguì una
strada messa in ombra dai tetti che la sovrastavano, correndo a
perdifiato. L’aria entrava e usciva ritmicamente dai suoi
polmoni. La gola era secca, la faccia in fiamme per la stanchezza. La
paura era tanta. E anche la rabbia lo era. Come diamine si erano
permessi di abbandonare i posti di guardia?! Come avevano potuto
permettere che succedesse quella strage?
Un complesso di persone presuntuose e disorganizzate, ecco
cos’era la sede Nord America!
Inciampò, cadendo rovinosamente a terra. Ebbe solo il tempo
di rialzarsi che uno dei mostri la vide, e si scagliò
contrò di lei, ridendo maligno.
†
L’aria era satura di polvere, e morte.
Avanzò deciso e spavaldo in mezzo alla confusione, portando
le dita della mano sinistra all’impugnatura della sua arma.
Gli sembrò di sentirla vibrare, fremere eccitata, quasi lo
stesse implorando di usarla.
In meno di un secondo, una pallottola andò a piantarsi in
mezzo alla testa di un uomo. Questo morì
all’istante, cadendo a terra. Una pozza di sangue sempre
più vasta si spanse dal suo corpo, circondandolo in un caldo
abbraccio di morte.
Ripose l’arma, fumante, nel fodero legato alla vita.
Sentì i rumori della gente spaventata correre in salvo.
Trattenne una smorfia di disgusto. Gli esseri umani… non
erano altro che formiche. Si facevano forti dentro la loro
inespugnabile fortezza, ma una volta allagato loro il
formicaio… ecco cosa rimaneva. Masse di morti ambulanti che
correvano pensando che avrebbero potuto ancora salvarsi. Tutto
ciò era patetico. Non si sarebbe salvato nessuno, lui lo
sapeva bene.
- Niente sopravvissuti – sentenziò, tombale eppure
divertito da quell’affermazione dalla valenza suprema, a un
gruppo di Akuma che comparvero alle sue spalle, bramosi di vite umane
quasi quanto lui.
- Agli ordini – risposero in coro questi, avanzando lugubri.
Estrasse le sue pistole, impugnandole come faceva sempre: con forza e
destrezza; e un pizzico di arroganza.
Puntò, e sparò sulla folla, mentre un ghigno
sadico e eccitato mal celato si faceva strada sul suo viso.
†
Leda vide il mostro scagliarsi minaccioso su di lei.
Si rialzò con un balzo e si gettò in strada,
mandando a monte la sua idea di fare il giro largo passando per i
vicoli. Si infilò tra la gente e cominciò a farsi
più piccola che poté, scivolando tra una persona
e l’altra il più velocemente possibile. Il mostro
le stava dietro. In mezzo a tutta quella confusione, però,
la confuse e non fu più in grado di vederla. Ciò
che gli appariva davanti agli occhi era solo un mare di piccoli uomini
tutti ammassati l’uno contro l’altro.
Volò più basso, ma niente. L’aveva
persa di vista.
Leda si nascose dietro a un uomo piuttosto robusto, che ne
coprì l’esile sagoma. Scattò
così verso i bordi della strada, dove individuò
un vicoletto stretto e deserto, sgattaiolandoci dentro.
Camminò frettolosa accanto a dei bidoni e si
affacciò su un incrocio. Il fetore dell’immondizia
accanto a lei era davvero nauseante, tanto che cominciò
nuovamente a sentirsi male. Corse così dalla parte opposta
alla strada, e appiattendosi sui muri scrostati e consumati dal tempo,
avanzò a tentoni.
I capelli le si erano appiccicati alla fronte, e piccole goccioline di
sudore dovute alla tensione le scendevano lentamente lungo le tempie,
facendole il solletico. E mentre strisciava da un edificio
all’altro, milioni di interrogativi si accavallarono dentro
di lei, ansiosi di trovare per primi una risposta.
Che cosa diamine erano quei mostri?!
I suoi più logici ragionamenti la portavano a pensare che
fossero Akuma.
“Ma è impossibile!” pensò,
sopprimendo un grido che le forzava la gola per uscire. Certo, era
impossibile. Gli Akuma non potevano oltrepassare la barriera loro
imposta attorno alla sede. Era impossibile.
Impossibile, impossibile, impossibile, si ripeteva Leda come un disco
rotto.
Ma nulla è impossibile.
Solo in quel momento si rese conto che la sede era stata davvero
attaccata da degli Akuma, e che la barriera impenetrabile che avrebbe
dovuto proteggerli si era spezzata. Il Conte del millennio aveva
trovato il modo di superarla, eh? Che mossa magistrale, attaccare gli
innocenti nel luogo dove questi sono più al sicuro; e
meschina, vile, orribile. Non avrebbe perdonato nessuno, nemmeno il
Supervisore, se fosse accaduto qualcosa a Alan. O a Ted. O a chiunque
altro lei avesse a cuore. Dentro di sé sentiva che avrebbe
potuto persino uccidere. Non sapeva però se ne sarebbe stata
davvero in grado. In fondo, a parole sono bravi tutti, e mascherarsi
dietro promesse false o che non abbiamo il coraggio di mantenere
è del tutto inutile. No, non avrebbe sottratto la vita a
nessuno. Lei stessa sapeva quanto fosse importante. Lei, che le vite
altrui le aveva viste dissiparsi come gli sbuffi delle fiamme
crepitanti del camino che salgono verso il cielo, per mano di persone
malvagie e senza scrupoli. Non sarebbe stata mai in grado di uccidere,
di privare una persona di un dono tanto grande come la vita. Di
diventare come quegli orribili mostri che detestava tanto.
Si affacciò su un’altra strada, sbriciando con la
coda dell’occhio attorno a lei per controllare che non ci
fosse nessuno, e poi direttamente sul vicolo. I caos della popolazione
che gridava e piangeva, diventando polvere, riempiva l’aria.
Leda era circondata da quei rumori strazianti dai quali però
doveva estraniarsi. Serviva concentrazione, scaltrezza, buon senso e
anche un pizzico di fortuna, per non farsi scoprire. Era un
po’ come giocare a nascondino. Solo che se avesse perso, Leda
sarebbe morta. Una sottile differenza il cui esito dipendeva tutto
dalle sue abilità. Lei era sempre stata brava a nascondersi.
Era una cosa che le veniva naturale, da piccola. Le tornò a
galla un vecchio ricordo, fatto di dolcezza, sorrisi, ma anche di
quella prima angoscia che avrebbe presto imparato a sopportare; si
contrappose quasi a forza con l’angosciante realtà
del suo presente, mischiando insieme l’oro degli alberi e il
rosso del sangue della guerra.
Era in giardino. Aveva appena tredici anni, mentre Alan quasi sette.
Stavano giocando a nascondino in un pomeriggio assolato, in cui il sole
riempiva ogni singolo spazio illuminandolo come fosse d’oro.
Leda stava contando. Detestava farlo, diceva che era una
‘palla’. Per questo, aveva preso
l’abitudine di barare, saltando alcune cifre. Arrivava a
cento con meno di cinquanta numeri. Alan non poteva sentirla,
perché si nascondeva sempre in posti molto isolati e quindi,
Leda ne era certa, non l’avrebbe mai accusata di giocare
sporco. Quando disse il fatidico numero cento, allontanò la
testa dal braccio con il quale si era coperta gli occhi e
cominciò a guardarsi attorno, già pensando a dove
suo fratello potesse essersi nascosto. Avanzò in una
direzione a caso, pronunciando il nome del bambino con aria
terrificante, come se fosse il lupo cattivo di una di quelle fiabe che
erano soliti leggere insieme la sera, prima di dormine. O meglio, che
Leda era solita leggere ad Alan. Per lei ormai quelle erano storielle
da bambini.
Setacciò il cortile attorno alla casa, facendo il giro del
grosso carretto che il loro padre usava per recarsi in città
e fare compere. Passò per la stalla salutando allegra il
cavallo Zucchero. Si chiamava così perché aveva
una vera passione per gli zuccherini che gli davano dopo una giornata
di viaggio, come ricompensa. La strada da fare era sempre stata tanta,
ma Zucchero non aveva mai dato segni di stanchezza. Era un cavallo
tanto fiero quanto forte. Rispose al saluto della ragazza, nitrendo
energicamente, dondolando la folta coda bruna a destra e a sinistra.
Poi tornò a farsi gli affari suoi – mangiare la
paglia nella sua mangiatoia -.
Leda riapparve nel punto di partenza, senza aver trovato Alan.
Guardò allora verso il boschetto a ridosso della loro casa,
ed ebbe un’illuminazione. Si addentrò
così al suo interno, sbirciando tra un albero e
l’altro. Guardò dietro a ogni cespuglio sospetto,
ficcò la faccia dentro alle tane degli animali, sporcandosi
irrimediabilmente di terra, e osservò persino
l’intera area dalla sommità di un albero.
Alan però non si trovava. Rimanevano pochi posti dove
cercarlo, e Leda non si diede per vinta. Continuò
imperterrita e decisa la sua ricerca.
Si fece il tramonto, e l’oro che ricopriva i tronchi degli
alberi assunse tonalità più calde. Leda era
seduta su una grossa roccia, sospirando affrancata. Odiava perdere ai
giochi, soprattutto contro suo fratello. Doveva ammettere
però che nel nascondersi, era decisamente più
bravo di lei. Aveva passato un intero pomeriggio a cercarlo, senza
riuscire a beccarlo. Ormai era stanca, e non aveva più
voglia di giocare. Si alzò e cominciò a chiamare
a gran voce Alan, con tono di resa.
- Basta giocare Alan, sono stanca! Torniamo a casa, mamma
avrà sicuramente preparato la cena!
Le sue parole si persero tra gli alberi.
- Alan? – chiamò ancora Leda, senza mai ricevere
risposta – Alan!
Ricominciò a cercarlo, questa volta più
seriamente. Del fratellino, però, nessuna traccia. Per
quanto Leda gridasse il suo nome, non riceveva alcuna risposta.
Cominciò a preoccuparsi, e al posto dell’allegria
comparve l’ansia, la preoccupazione. Dopo averlo cercato
nuovamente nel bosco, corse verso casa. Spalancò la porta e
si precipitò dalla madre, una donna bella come un miraggio:
occhi color miele, capelli castani, e un sorriso dolce quanto solo
può esserlo quello di una mamma. S’inginocchio
pronta ad accogliere la figlia, che l’abbracciò
d’istinto, disperata.
- Che succede, tesoro? – domandò con una voce
melodica e affettuosa, stringendola tra le sue braccia.
- Io e Alan stavamo giocando a nascondino e all’improvviso
è scomparso! – singhiozzò Leda
affondando la faccia nell’incavo della sua spalla.
-Scomparso? – la madre rimase interdetta – Che
intendi dire?
- Che ovunque cercassi lui non era da nessuna parte!
Sorrise, allontanandola da sé e asciugandole una lacrima che
le colava dall’occhio. Si alzò e la prese per
mano, conducendola in un accogliente salottino al cui centro svettava
un divano rosso porpora, morbido e comodo. E proprio da quel divano,
quasi per magia, emerse la piccola figura di Alan. Leda non
riuscì a resistere dal corrergli incontro per abbracciarlo.
Subito dopo, però, lo allontanò da sé
e gli mollò un sonoro ceffone sulla guancia.
- Guai a te se mi fai preoccupare così di nuovo! –
gli aveva gridato con le lacrime agli occhi.
Alan l’aveva guardata con occhi dispiaciuti, mentre si
massaggiava la guancia arrossata con gli occhi lucidi dal male. La
madre non disse niente. Stette a guardare i due fratelli abbracciarsi
ancora, ridere sollevati, prendersi per mano e seguirla in cucina per
apparecchiare la tavola. Quel giorno Leda si promise che non avrebbe
mai più perso di vista Alan. Che lo avrebbe protetto, anche
se ancora non sapeva nulla della guerra che, oltre quel gentile bosco
dorato, la attendeva famelica.
Strinse i pugni avvolti in un paio di guanti cenciosi e consumati.
Doveva proteggere Alan, questa era la sua missione. Scivolò
su un muro dall’intonaco grigio e vecchio, che in alcuni
punti si staccava. Si sporse oltre l’angolo della strada, e i
suoi capelli castani dondolarono in avanti, seguendo le scaltre movenze
della sua sottile corporatura. Mancavano solo un paio di isolati per
raggiungere le porte. Non sapeva quanto tempo fosse passato. A pensarci
bene, però, era piuttosto improbabile che fossero ancora
aperte. Avrebbero potuto chiuderle prima a causa dell’attacco
degli Akuma, lasciando però quella povera gente
che ancora doveva mettersi in salvo alla loro mercé. Doveva
tentare, però. Almeno provarci. Dentro di lei sentiva che
non tutto era perduto, che poteva ancora farcela.
Fece per correre verso il prossimo muro, quando si sentì
tirare per la gamba. Scivolò e cadde all’indietro,
sbattendo la testa sul cemento. Sentì un dolore lancinante
propagarsi per tutto il corpo, arrivando fino alla punta delle dita e
immobilizzandola a terra. Si strinse la spalla, che nella caduta era
entrata in collisione diretta con il duro pavimento della sede, e
perciò le bruciava. Con uno sforzo enorme,
sollevò la testa e guardò dietro di
sé. Un Akuma di livello tre, dall’armatura rossa
come il sangue che sembrava stillare dai suoi occhi malvagi, ghignava
in modo orribile, mentre una specie di filo nero e appiccicoso le
cingeva strettamente la caviglia, stritolandola.
Leda grugnì di dolore, mentre sentiva quella massa oscura
aumentare la presa. Cominciò a perdere
sensibilità, e un formicolio fastidioso le invase il piede.
Allungò prontamente una mano per liberarsi, ma rimase
invischiata nella sostanza nera.
L’Akuma rise ancora più forte, cominciando a
tirare verso di sé il filo.
- Grida, se vuoi, ragazzina! Tanto nessuno verrà a salvarti!
Leda strisciava sempre più verso di lui, mentre tentava
ancora di liberarsi con tutta la forza che aveva. Voleva urlare aiuto,
scalciare, scappare via, ma non poteva. E non voleva.
Non lo avrebbe mai fatto, perché l’Akuma aveva
ragione: nessuno sarebbe arrivato. Doveva aiutarsi da sola, come sempre.
Solo che ormai era a non più di tre metri da quel mostro,
aveva la testa e la spalla e la gamba doloranti, e nessuna via di fuga.
Angolo di Momoko
Salve gente! E' passato un po' di tempo, eh? xD Avevo detto che sarei
tornata, e infatti eccomi qui ù_ù
Tyki: ci sono anch'io.
Ah, sì, c'è anche Tyki >.>
Tyki: hey, anch'io sono importante, per la trama!
è_é
Non spoilerare!!
Tyki: nella lista dei personaggi hai messo anche me, ergo, sono uno dei
personaggi principali. Ci sono arrivati tutti, mia cara.
Sì, ma non sanno perché sei importante per la
trama! Zuccone!
Tyki: ò_ò' Porc... *se ne va a fumare*.
Allora, dopo questo semi-spoiler parliamo un po' del capitolo!
E' una storia strampalata, lo giuro, ho stravolto veramente ogni cosa.
Questa volta il personaggio principale è Leda, una ragzza
che ha
molte cose da dire e da fare, e che nasconde molti misteri. Li
svelerò tutti piano piano, a cominciare dal prossimo
capitolo,
dove spiegherò bene cos'è questa guerra che si
menziona,
la faccenda degli esorcisti e tutto il resto.
Spero che continuiate a seguire questa storia perché
saprò sbalordirvi ù_ù *si vanta delle
sue
inesistenti capacità*.
Ringrazio di cuore la mia amica Lien, avendo dimenticato di farlo nella
risposta alla sua recensione. Grazie! E ora dimmi, quand'è
che
aggiornerai Illusions??? è_é
Un grazie di cuore a tutti quelli che leggeranno o recensiranno la
storia^^
A prestooo,
Momoko.
P.S. A tutte le autrici alle quali devo recensire un loro capitolo:
scusatemi se non lo faccio, portate pazienza che prima o poi mi
farò viva. Abbiate fede ù_ù
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